Azione & Avventura

Dossier: Punisher – War Zone, Ray Stevenson è il Frank Castle migliore di sempre

Ricordiamo l’attore nordirlandese recentemente scomparso attraverso il suo ruolo più iconico. Una versione perfetta del Punitore che sembra uscita direttamente dalle pagine del fumetto. Protagonista di pregio di un film diretto, essenziale, spassosamente violento, che coglie in pieno lo spirito dell’antieroe della Marvel e del ciclo di Garth Ennis.

La notizia della settimana non può che essere la scomparsa di Ray Stevenson, avvenuta lo scorso 22 maggio. Improvvisa. A tre giorni da quello che sarebbe stato il suo 59° compleanno. Un malore sul set di Cassino in Ischia, il film da protagonista che stava girando proprio nel nostro paese, sull’isola napoletana.

Lui che un’italiana l’aveva pure sposata nel 2007. Ci sono rimasto male, lo ammetto. Attore britannico a cui avevo avuto il piacere di affezionarmi cinematograficamente. Per il suo Punisher, per il quale avrà sempre e per sempre la mia gratitudine, e tra qualche riga ne parliamo per bene. Un ruolo che, tra l’altro, mi aveva permesso di scoprirlo ed appuntare il suo nome tra quelli da seguire, colpa mia considerando che una carriera ce l’aveva già da prima e che includeva una parte (quella di Dagonet) in King Arthur nel 2004 ed una in tutti i 22 episodi di Roma, serie tv realizzata tra il 2005 ed il 2007 nella quale vestiva i panni del legionario Tito Pullo.

George Raymond Stevenson nasce nel 1964 a Lisburn, in Irlanda del Nord, figlio di un pilota della Royal Air Force. A otto anni si trasferisce con la famiglia in Inghilterra, fin da bambino nutre il sogno della recitazione, ma ritenendolo impossibile coltiva un’altra passione come quella dell’arte che lo porta a diventare interior designer con uno studio d’architettura.

Ma il richiamo del primo amore è troppo forte, così come il credere ed inseguire i propri sogni, motivi per cui a venticinque anni decide di mollare tutto ed iniziare a recitare, mentre a ventinove si diploma alla Bristol Old Vic Theatre School. L’esordio sullo schermo avviene nel 1998, con la parte del gigolo in The Theory of Flight. Dei primi ingaggi rilevanti abbiamo detto poco fa, segue Outpost nel 2008, horror scozzese il cui ricopre il lead role.

Lo stesso anno in cui viene scelto per il ruolo della vita in Punisher: War Zone, il film floppa (immeritatamente) al botteghino ma darà comunque uno slancio incisivo alla sua carriera. Che da quel momento ho seguito con interesse, trovandolo capace di risultare sempre in parte, uno di quegli attori in grado di dare un contributo tangibile a prescindere dal prodotto o dal ruolo interpretato (che fosse di supporto o principale).

Per dire, rimanendo nell’ambito di commenti personali, si fa notare in appena nove episodi della settima stagione di Dexter in cui interpreta Isaak Sirko, letale boss di un’organizzazione criminale ucraina che nasconde una relazione omosessuale. Ve lo consiglio da protagonista in Kill the Irishman, la vera storia del gangster e leader sindacale irlandese Danny Greene, un titolo poco reclamizzato (e da riscoprire) diretto da Jonathan Hensleigh, col paradosso del regista del peggior Punisher cinematografico che dirige l’interprete del migliore.

È stato antagonista in G.I. Joe Retaliation (2013) in cui gli affidano Firefly, o in Final Score in cui, per citare quello che scrivevo tempo fa (la recensione), portava a casa il compito con disinvoltura. Spalla preziosa nei due Accident Man del 2018 e 2022, anno (lo scorso) in cui aveva preso parte anche a Memory con Liam Neeson e RRR, blockbuster action indiano.

È riuscito a rendere Porthos il più figo de I Tre Moschettieri di Paul W.S. Anderson del 2011. Era la cosa migliore in quella roba di The Transporter Refueled in cui avevano avuto l’ardire di offendermi rimpiazzando Jason Statham con Ed Skrein. Nel 2010 aveva preso parte a The Other Guys e Codice Genesi.

La Marvel si ricorda di lui per la quota asgardiana del MCU in cui interpreta Volstagg in tre capitoli di Thor tra il 2011 ed il 2017, anno in cui fa parte del cast di Cold Skin. Per completezza mainstream va citata la partecipazione a Divergent, Insurgent e Allegiant, che per motivi di compatibilità di gusti non ho ancora visto. Non ha mai disdegnato le serie tv, come Black Sails (prende parte a 11 episodi), Vikings (11 episodi) o Das Boot (9 episodi), per fare qualche esempio di categoria.

Attore di presenza e personalità. E di grande carisma. Ray Stevenson era eclettico, versatile. Capace di alternare performance da caratterista di carattere, a lead role convincenti. Interprete di quelli bravi, al punto che lo definirei sottovalutato, nonostante un curriculum rispettabile ha raccolto probabilmente meno del dovuto, in un mondo giusto avrebbe meritato il triplo dei ruoli che ha ottenuto, in particolare da protagonista.

Quando si facevano i toto casting di alcuni franchise corali mi chiedevo perché il suo nome non ci fosse, penso agli Expendables, a Fast and Furious o John Wick, per spararne qualcuno a caso in cui avrebbe fatto la sua figura sicuramente più di qualche nome effettivamente coinvolto.

La sensazione dall’esterno che si trattasse anche di una bella persona, nonostante quell’aria da omone cazzuto, dotato d’animo umile e gentile, impressione confermata dalle dichiarazioni di molti addetti ai lavori scioccati dalla notizia, da colleghi attori a registi e produttori ma non solo, visto che a sostenerlo c’è anche il substrato più proletario (e genuino) di una crew, dagli stuntmen ai costumisti, agli effettisti. Un coro praticamente unanime.

Insomma, per quanto mi riguarda l’omaggio era doveroso. Sincero, evidentemente non di circostanza. E stavolta non ho dovuto scegliere, perché se voglio omaggiare Ray Stevenson attraverso un suo film, è matematico e sacrosanto che quel film sia Punisher – War Zone. Ed aggiungo un pizzico di rimpianto da redattore. E’ da quando ho iniziato a scrivere per Il Cineocchio che avevo intenzione di buttare giù uno speciale su quello che ritengo sia il miglior Punitore cinematografico di sempre. Avrei dovuto farlo prima, con Stevenson ancora tra noi. Ne avrei parlato allo stesso modo in cui ne parlerò oggi, ma con i crismi dell’elogio vero, senza dare adito di pensare a condizionamenti da celebrazioni postume.

Sono fan del Punisher, per me è una cosa seria, è il mio personaggio preferito dei fumetti. Voglio bene a Punisher – War Zone per il modo in cui incarna con rispetto, cuore e fedeltà la sua controparte cartacea, così come voglio bene a Ray Stevenson per la meravigliosa dedizione con cui ha portato sullo schermo un Frank Castle che sembra uscito direttamente dalle pagine del fumetto.

PWZ è uno di quei film che rivedo ciclicamente. Il miglior Marvel per quanto mi riguarda, e non che mi interessi fare classifiche di un genere di cui (Punitore a parte, che nel suo realismo più urban ha poco a che vedere con i supereroi in calzamaglia) non mi ritengo spettatore in prima linea, ma mi piaceva l’idea di dire questa cosa che potrebbe scatenare l’ira (e/o le risatine) dei marvelfan più incalliti.

L’ho inserito pure in quei giochini che si fanno sui social, non so se vi ricordate ‘i 100 film del cuore’, provocando la sorpresa della mia bolla cinefila che si è ritrovata un film del Punisher tra i vari Terminator, Arma Letale, Die Hard, Rambo, Rocky, Frankenstein Junior, Ritorno al Futuro e … vabbè, ci siamo capiti anche senza doverli elencare tutti e cento.

Il bellissimo busto della Kotobukiya, che riprende Stevenson in una scena del film, è uno dei pezzi di cui vado più fiero nella mia collezione a tema Punitore.

Punisher – War Zone esce nel 2008 ed è la terza trasposizione cinematografica dell’antieroe della Marvel creato nel 1974 da Gerry Conway (testi), Ross Andru e John Romita Sr. (disegni). Prima di allora c’era stato The Punisher di Mark Goldblatt del 1989 (arrivato in Italia come Il Vendicatore) e l’omonimo film di Jonathan Hensleigh del 2004.

Arriverà anche la quarta, non in sala ma in tv, attraverso le serie prodotte da Netflix tra il 2016 ed il 2019. Non è la sede per approfondire l’excursus filmico di Frank Castle, nel frattempo vi basti sapere che per ragioni diverse gradisco comunque sia l’imperfetta ma godibile versione con Dolph Lundgren che l’intensa trasposizione seriale di Jon Bernthal che, tra l’altro, è in procinto di riprendere il ruolo per la nuova serie Daredevil: Born Again in uscita nel 2024 su Disney+.

No, non è un caso che io abbia omesso il film che aveva per protagonista Thomas Jane. Perché da fan sono ancora incazzato. E perché ci serve per capire come si sia arrivati a War Zone. Quello di Hensleigh era un film che aveva sì i suoi apprezzabili ‘momenti Punisher’, ma che, nel complesso, del Punisher non aveva saputo cogliere e comprendere lo spirito oltre che stravolgerne irragionevolmente elementi chiave.

Per spiegare bene questa cosa avrei però bisogno di un approfondimento a parte (e non è detto che non lo faccia prossimamente). Incazzatura la mia, condivisa con una marea di altri appassionati del fumetto. E, bada bene, non che io sia il tipo di fan talebano che pretende aderenza alla lettera, d’altronde nello stesso fumetto si assiste con rinnovata frequenza a cambiamenti tra un ciclo editoriale e l’altro, per cui mi possono andare bene anche le libertà creative nel passaggio transmediale, che anzi spesso possono rivelarsi più funzionali al mezzo cinematografico, ma una certa fedeltà di fondo ci deve essere, non ha senso snaturare una fonte originale in nome della presunzione.

Ad ogni modo, The Punisher del 2004 era riuscito a chiudere in leggero attivo la sua corsa in sala, incrementata poi dalle vendite in home video. Alla fine, oltre ai fan ragionevolmente incazzati (che comunque avevano involontariamente contribuito pagando il biglietto), nel totale rientra lo anche lo spettatore generico che magari non conosceva la fonte e per questo poteva farselo piacere come semplice action di vendetta con John Travolta che fa il cattivo.

Situazione che porta Marvel Studios e Lionsgate (all’epoca, la Casa delle Idee tendeva ancora ad appoggiarsi ad altri studi cinematografici) a mettere in cantiere un sequel che inizialmente vede coinvolti gli stessi nomi, da Hensleigh a Thomas Jane. Per un motivo o per un altro il progetto non decolla mai realmente, i nomi saltano, le versioni saranno diverse a seconda di chi le racconta.

Fatto sta che, nonostante gli incassi, una Marvel probabilmente non convintissima di voler proseguire su quella linea, decide per una volta di dare il giusto peso ai sentimenti della fanbase. Nessuna marcia indietro sul fare un nuovo film sul Punisher, ma l’indicazione di farlo in maniera assolutamente diversa. Ovvero ciò che avviene con Punisher – War Zone, per quello che in gergo viene definito soft reboot.

Che per come l’ho vissuto io, il reboot è in realtà (e fortunatamente) totale, ma capisco che il senso di quel ‘soft’ sia legato al fatto che Frank Castle viene presentato come già operativo da tempo, bypassando quindi l’origin story che era già stata affrontata (malissimo) quattro anni prima, limitandosi ad un paio accenni e flashback intelligentemente mirati che ‘riscrivevano’ quelle origini in maniera molto più aderente al fumetto.

Punisher – War Zone prende il titolo da quella che era stata la terza serie regolare dedicata al personaggio, scritta in buona parte (ma non solo) da Chuck Dixon, pubblicata nel 1992 e proseguita per 41 numeri. Nel 2009 arriverà anche un War Zone vol. 2, una serie limitata (The Resurrection of Ma Gnucci, divisa in 6 parti) della linea Marvel Knights che porta la firma di Garth Ennis su disegni di Steve Dillon.

Nel 2012 è la volta del vol. 3, altra limited (stavolta da 5 numeri) con cui Greg Rucka può chiudere il suo ciclo del Punitore. Il fumetto mi serve da gancio per sottolineare il merito più grande del film oggetto del nostro dossier. Nella fattispecie, proprio quel Garth Ennis menzionato poco fa. L’autore nordirlandese ha lavorato a lungo sul Punisher a cui ha dato un contributo significativo, il suo ciclo è considerato universalmente come uno dei più importanti della vita cartacea di Frank Castle, una vera e propria rinascita editoriale collocata nel nuovo millennio che poi era stata lo slancio per la trasposizione cinematografica del 2004 che provava a riprenderne alcuni elementi (nello specifico, dalla run Welcome Back, Frank).

Quello che poi fa il Punisher – War Zone del regista Lexi Alexander, un lungometraggio che coglie in pieno lo spirito degli albi di Ennis, il tono grottesco, l’esasperazione della violenza, l’umorismo nero. Oltre a mostrare un assoluto rispetto nei confronti del personaggio stesso, dalla delineazione del suo profilo, alla riscrittura delle origini, passando per l’inserimento di character di supporto presi direttamente dal fumetto.

Un film diretto, asciutto, costruito su una scrittura semplice, essenziale, che cerca (e trova) in egual misura la solennità di momenti iconici e il divertimento che scaturisce dal connubio tra azione e morte. Il prologo è eloquente, una scena di presentazione praticamente perfetta: cena di mafiosi, buio improvviso, una luce soffusa illumina il teschio sul petto del nostro eroe. Spettacolo. A cui si aggancia una strage di proporzioni epiche in cui i morti non si contano, caduti sotto i colpi di vario tipo di un implacabile one man army.

Un filo ideale che viene ripreso dall’epilogo che vede Frank (reduce da una nuova e ancor più corposa mattanza) comparire, dopo aver sparato a un malvivente, sotto un’insegna al neon che passa profeticamente (e provocatoriamente) da un ‘Jesus Saves’ a ‘Save Us’ e che illumina (nuovamente) il mitico teschio bianco che spicca sul giubbetto in kevlar.

Componente (anti)religiosa che ritorna anche in una frase che adoro, tanto nel film quanto nel fumetto (è tratta, infatti, da Widowmaker del 2007, manco a dirlo di Garth Ennis), quel ‘Sometimes i’d like to get my hands on God’ che racchiude tanto in una sola battuta.

Ma tra quote e momenti topici potrei continuare a ruota libera. Da ‘I’m going in to get them’ con cui Frank risponde a Budiansky quando gli viene chiesto quale fosse il piano dell’assalto finale contro centinaia di malviventi, al parkourista che viene fatto esplodere col bazooka nel mentre di una capriola che è pura poesia – e che prende per il culo l’utilizzo eccessivo del parkour nei film d’azione di quel periodo.

Il ‘goddammit Frank!’ urlato da Budiansky nel momento in cui il Punisher fa saltare la testa di un tizio che si accingeva ad essere arrestato. Senza dimenticare la scena in cui Castle si sistema il setto nasale fratturato con l’ausilio della matita, che praticamente diventa l’oggetto cult del 2008 considerando l’utilizzo che ne fa anche il Joker di Heath Ledger in The Dark Knight.

Tornando al leitmotiv del mio pezzo, è quasi superfluo dire che la riuscita di Punisher – War Zone passa necessariamente per l’ingaggio e l’interpretazione di Ray Stevenson. In sostanza Ray Stevenson non interpreta Frank Castle, l’attore nordirlandese È Frank Castle. La sensazione è quella di vedere una delle meravigliose copertine di Tim Bradstreet (che viene omaggiato dal nome dell’hotel che ospita lo showdown conclusivo) prendere vita.

Basterebbe dare un’occhiata alla serie di foto e poster promozionali in cui ogni singola posa potrebbe essere tranquillamente utilizzata per comparire sul comic book. L’aderenza dal punto di vista fisico ed estetico è impressionante, ma il lavoro di Stevenson non si limita a quello. Innanzitutto colpisce l’approccio, di un interprete che ha letto il fumetto con passione e arriva alla parte con riverenza, rispetto, motivazioni e preparazione, al punto da poter improvvisare diverse battute basandosi esclusivamente sulla sua conoscenza del personaggio.

A differenza ad esempio di Thomas Jane, non me ne voglia, che per sua stessa ammissione al tempo del suo Punisher non conosceva quasi nulla della fonte originale, cosa che deve aver capito e approfondito negli anni considerando la sua partecipazione convinta al valido corto fanmade Dirty Laundry del 2012, che sembra quasi una richiesta di scuse e perdono nei confronti dei fan.

Tornando alla preparazione di Ray Stevenson va elogiata pure la quota fisica, che include lunghe sessioni di training a cui si sottopone sia dal punto di vista della muscolatura che da quello del combattimento e della strategia militare (si allena ripetutamente con un team composto da ex marines, esperti e consulenti in materia).

Un Frank Castle praticamente perfetto, una macchina da morte con un bodycount di almeno 81 uccisioni confermate al suo attivo. Performance fisica, visiva, ma anche attoriale, il suo Frank è serioso, malinconico, taciturno (non dice una parola prima del venticinquesimo minuto), risoluto, la voce profonda ne enfatizza la personalità. Battute e mimica facciale piazzate al momento giusto.

Come quando accenna un sorriso beffardo a Maginty che implora pietà per poi lanciarlo da un tetto infilzandolo su una cancellata e saltargli sul collo servendosi del corpo per attutire la propria discesa. O ancora lo sfogo in chiesa, la volontà di ritirarsi confessata a Micro, il dialogo con la ragazzina che ha perso il padre a causa sua.

Nominavo Maginty (interpretato da T.J. Storm), il parkourista coi rasta che rientra in una serie di personaggi presi direttamente dal fumetto, lui che compariva in sei numeri della saga Kitchen Irish del 2004 da cui prende il nome un pub in cui Jigsaw si reca per reclutare manovalanza. Gli sgherri Pittsy (Mark Camacho) e Ink Gazzera (Keram Malicki Sànchez) si erano visti in In the Beginning del 2004, mentre Cristu (David Vadim) e Tiberiu Bulat (Aubert Pallascio) erano presenti in The Slavers del 2006.

Per Carlos Cruz (Carlos Gonzalez-Vio) si torna indietro agli anni ’90, quando il personaggio aveva collezionato sei presenze nella serie regolare dell’epoca. Cinque sono gli albi (di Widowmaker del 2007) in cui compare Paul Budiansky, che qui trova il volto di Colin Salmon, interessante il suo percorso da cacciatore del vigilante a suo alleato.

Dash Mihok è Martin Soap – 29 apparizioni cartacee tra il 2000 ed il 2003, imbranato detective a capo della task force anti Punisher ne è in realtà ammiratore e collaboratore. Nonostante nel film non faccia moltissimo, è importante la presenza di David Linus Lieberman, meglio noto come Microchip, uno dei personaggi ricorrenti del comic book (173 presenze in varie run di diverse ere) che Hensleigh inspiegabilmente odiava al punto da tagliarlo dal suo film, storico alleato del Punisher che qui trova il volto esperto di Wayne Knight.

Fino ad arrivare a Jigsaw (anche lui segato, a suo tempo, dallo script del 2004), nemesi del Punitore che nella versione italiana del fumetto veniva chiamato Mosaico mentre qui diventa ridicolmente Puzzle (che dovrebbe convincervi a vederlo in lingua originale qualora non sia bastato il mio discorso sull’interpretazione di Ray Stevenson …), nome d’arte di Billy Russo (Russotti nel film), mafioso dal volto sfigurato, ruolo chiave che – dopo aver sondato Paddy Considine e provinato Freddie Prinze Jr. – viene affidato con successo a Dominic West, volutamente fumettoso e sopra le righe (mi resta impresso un suo verso animalesco nel momento in cui infilza il collo di un rivale) sotto un make-up sufficientemente creepy per il quale sono necessarie due ore per l’applicazione ed una per la rimozione.

In precedenza parlavo di libertà creative, una di queste riguarda l’inserimento di Jimmy Russotti, fratello di Billy, character azzeccatissimo creato apposta per il film, un pazzo sadico che viene interpretato da Doug Hutchinson (inizialmente restio ad accettare, poi convinto da una conversazione con Lexi Alexander) che cannibale lo era già stato in X-Files e che fin da Il Miglio Verde ci aveva dimostrato di saperci fare con i personaggi repellenti. Julie Benz è la vedova del poliziotto sotto copertura Donatelli (Romano Orzari), e insieme alla figlia diventa il carburante della missione di Frank che viene toccato nell’animo da quelle che sembrano vaghe (e dolorose) reminiscenze familiari.

Un merito di Punisher: War Zone è quello di riuscire a conseguire un risultato positivo sullo schermo – e di farlo anche grazie alla sintonia e sinergia tra cast e crew, a dispetto delle difficoltà di una produzione che invece si racconta sia stata turbolenta. Abbiamo accennato alle vicissitudini legate allo sviluppo di quello che doveva essere il sequel del film del 2004, contesto in cui si incastrava l’ingaggio di Kurt Sutter per scrivere una sceneggiatura che sarà poi scartata dalla Marvel.

Il compito passa addirittura a tre nomi accreditati (Nick Santora, Art Marcum, Matt Holloway) per uno script che conserva qualche elemento del lavoro di Sutter, come l’incidente che sfigura Billy Russotti trasformandolo in Jigsaw, qualche linea di dialogo e un colpo di scena. La regia viene proposta a John Dahl, che la rifiuta a causa di un copione che non lo convince e di un budget non ritenuto all’altezza.

Viene scelta Lexi Alexander, che in corso d’opera avrà degli scontri durissimi con Lionsgate (a differenza della Marvel, con cui pare ci fosse maggior feeling) – come quello sullo score musicale che porta lo studios a licenziare il primo compositore e rifare tutto daccapo – al punto che in post produzione girano addirittura voci (poi smentite) su un licenziamento che sembrava avvalorato dall’assenza dell’Alexander al ComiCon di San Diego.

Particolare che rende onore alla regista tedesca/palestinese che in quelle battaglie non indietreggia, portandole avanti senza compromessi, per realizzare la visione che aveva promesso a sé stessa ed agli attori che si erano affidati a lei. E per fortuna, aggiungerei.

Al tempo dell’annuncio ero fiducioso, se avete visto il suo Green Street (da noi Hooligans, del 2005) potete capire il perché. Regista con un passato importante nel campo delle arti marziali (campionessa di karate e kickboxing) e poi degli stunt, talmente in focus da chiedere di partecipare alle stesse sessioni di training di Ray Stevenson. Fiducia ben riposta, visto che il suo si rivela un manico determinante, una direzione dinamica, orientata all’azione, ben focalizzata sul potenziale e sulla figura di un protagonista come il Punisher di Ray Stevenson.

E questo al netto di un budget che, per dare ragione a John Dahl, non era esattamente entusiasmante; 35 milioni di dollari possono sembrare tanti, ma per un film di questo tipo a conti fatti sono pure pochi, e lo si può notare in alcuni comparti come quello di una CGI a tratti indecisa.

Stunt, sparatorie e coreografie, con cura dei dettagli come un vasto assortimento armeria (circa 125 armi da fuoco differenti, senza contare quelle da taglio e le armi improvvisate o un semplice cazzotto per sfondare un cranio) che prevede tipologie differenti a seconda del soggetto, che sia il Punisher o le varie gang. Ma anche un insospettabile senso estetico/visivo che la porta ad optare per una fotografia impostata su palette a tre tinte come fossero quelle dei fumetti, non necessariamente sempre le stesse ma mai più di tre, con ogni scena che di volta in volta include sfondi, oggetti di scena e particolari di sorta che non superano mai quel numero di colori.

Taglio fumettistico che viene ripreso anche in molte inquadrature che vedono i personaggi posizionati ai lati e non al centro, mentre la violenza viene volutamente esagerata sia per aderenza al fumetto che per rimarcare un distacco con la realtà alla luce del massacro del Virginia Tech e del poster del Punisher trovato in camera dell’omicida. Alexander che alterna momenti emotivamente intensi ad altri disimpegnati, senza dimenticare un tocco satirico come il discorso (sullo sfondo di una bandiera americana) che ridicolizza i seminari tenuti da reclutatori patriottici; Lexi, inoltre, ritocca qua e là anche la sceneggiatura (senza essere accreditata) e spinge per il casting di Ray Stevenson. Un peccato che dopo questo film non abbia diretto granché lavorando principalmente in tv.

Girato al freddo del Canada in circa 40 giorni tra ottobre e dicembre del 2007. L’uscita iniziale di Punisher – War Zone viene rimandata a dicembre del 2008, in un periodo e contro rivali in sala non propriamente ideali per un titolo del genere, a cui si aggiunge una campagna promozionale timida e non all’altezza.

Una serie di ragioni che portano ad un sonoro (e, ripeto, immeritato) flop con poco più di 10 milioni di dollari di incasso che ne fanno il film Marvel (uscito sotto l’etichetta della defunta Marvel Knights) dal minor incasso in assoluto, motivi che spingono la Casa delle Idee a far sì che i diritti del Punisher tornino alla base per poi essere sviluppati diversamente.

Flop che spaventa il distributore italiano (la divisione nostrana della Sony) che addirittura decide di bypassare la sala e farlo uscire direttamente in home video (con la traduzione letterale Punisher – Zona di Guerra) quasi un anno dopo, a ottobre del 2009. Un film che avrebbe meritato tutt’altra sorte, come certificato invece da tantissimi fan che fin da subito e nel corso degli anni gli hanno conferito lo status di cult.

Da fan del Punisher dico che è assurdo non aver avuto altri film con Ray Stevenson. Il miglior Punisher di sempre. Che non ringrazierò mai abbastanza per aver dato vita ad una versione cinematografica pazzesca, capace di rendere giustizia ad un personaggio che amo. E che dovrebbe bastare a tenerne vivo il ricordo nel tempo.

Di seguito trovate una scena di Punisher – Zona di Guerra:

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