Il regista polacco torna sulle scene con un'opera piuttosto derivativa, la cui visione viene solo vagamente giustificata dallo spiazzante terzo atto
Un titolo ‘a effetto’ può spesso convincere a vedere un film. In molti casi sono quelli più criptici o apparentemente ‘modesti’ a spingere lo spettatore a scoprire di cosa diavolo parlino davvero. E poi ci sono quelli vaghi, che danno solo una generica idea del loro contenuto, più o meno immaginativo, che potrebbero rivelarsi belle sorprese o cocenti delusioni.
Hellhole (più o meno traducibile con ‘Buco infernale’), da pochi giorni finito direttamente nel catalogo di Netflix in esclusiva, appartiene all’ultima casistica, ma non si dimostra per nulla spiazzante (o almeno ‘frizzantino’) agli occhi dell’appassionato di horror attirato dal suo misterioso nome.
Il film diretto da Bartosz M. Kowalski (già dietro alla mdp per il curioso dittico dei Non Dormire nel Bosco Stanotte) si apre in Polonia, nel 1957. È una notte buia e tempestosa naturalmente, un’auto si ferma davanti a una chiesa e un prete scende, tenendo in braccio un neonato mentre si dirige all’interno. Porta il bambino sull’altare e, mentre estrae un pugnale, chiede perdono a Dio. Sta per uccidere l’innocente, che ha una strana voglia sulla spalla. La polizia però irrompe. L’uomo dice loro che non capiscono, che questo “seme del Male” deve essere distrutto, ma quelli non lo ascoltano e usano le maniere drastiche per fermarlo. Se vi state chiedendo dove avete già visto qualcosa di simile, era il finale di Omen – Il Presagio del 1976.
A padre Marek vengono forniti un abito, un rosario (ha portato il suo) e la sua valigia viene perquisita. È molto importante, visto il loro lavoro, che le tentazioni terrene siano tenute lontane da quel luogo. Gli vengono confiscate quindi le sigarette e il telefono cellulare. Il pasto serale è una specie di pappa dall’aspetto sgradevole, scura e pastosa, con pezzi di qualcosa dentro. Non che ci si aspetti che gli asceti mangino bene, ma questa cena è particolarmente sgradevole.
Dopodiché, una volta tornato in cella, padre Marek apre uno scomparto nascosto nella sua valigia. Ci sono una pistola, una torcia e alcuni ritagli di giornale su una serie di misteriose sparizioni nella zona. I monaci potrebbero avere qualcosa da nascondere.
È un film molto ‘dark’. Non nel senso di sinistro o di cupo, ma semplicemente di poco illuminato. Ha anche senso, visto che si tratta di un monastero, ma non aiuta la visione.
Hellhole mantiene una buona atmosfera fosca all’inizio, ma poi si rimane per la gran parte in interni dove tutto sembra uguale. E questa uniformità è pervasiva. Come anticipato, il grosso scoglio da superare durante la visione è la minima imprevedibilità della trama. Tutto quello che avviene è infatti già stato visto altrove e lo svolgimento andrà – più o meno – proprio come ci si aspetta che vada, con un’unica grossa eccezione verso la fine, che peraltro non aiuta molto a raddrizzare il giudizio complessivo. Il risultato è che non c’è tensione, non c’è sorpresa e, nonostante la durata contenuta di 90 minuti, si arriva ai titoli di coda affaticati.
È stranamente privo di tensione, anche nei momenti in cui dovrebbe essercene. Ad esempio, a un certo punto di Hellhole padre Marek assiste a un esorcismo che procede quasi di getto: una giovane donna viene legata a un letto, si prega, lei si alza e inizia a ringhiare e ad avere le classiche convulsioni, il letto inizia a tremare e il crocifisso del priore prende fuoco.
In nessun frangente si percepisce qualcosa di più forte di una lieve preoccupazione. La maggior parte dei presenti sembra quasi annoiata, e di certo la scena non appare diversa da qualsiasi altra con esorcismi vista in altri film del genere. I dialoghi sono accettabili, come pure le interpretazioni e la colonna sonora. Niente di speciale, ma nemmeno di terribile.
Lo sviluppo della sceneggiatura è altrettanto ‘standard’: Marek va a curiosare dove non dovrebbe, non tutto è come sembra, succede qualcosa di inquietante. Sciacquare e ripetere. E se questo non fosse già abbastanza chiaro, il primo atto di Hellhole si conclude con una conversazione (tenuta in un confessionale, perché è così che deve essere) che spiega ciò che chiunque non si sia addormentato ha capito da tempo.
Praticamente fino alla fine, la storia di Hellhole – che guarda anche a Il Nome della Rosa – va esattamente dove si presume stia andando. C’è – in effetti – un colpo di scena piuttosto spiazzante nel terzo atto, un twist per il quale molti potrebbe provare un apprezzamento perverso, ma è gestito in modo così anticlimatico da finire con l’essere in realtà più comico che altro.
In quel momento, sembra quasi che Hellhole stia improvvisamente sterzando per diventare una parodia proprio del tipo di film che era stato sinceramente fino a quel punto. Il che è certamente una scelta precisa, anche se non si può dire che sia di quelle più riuscite.
Poi questo colpo di scena viene ribaltato, ma Bartosz M. Kowalski non si preoccupa affatto di offrire allo spettatore alcuna logica narrativa a sostegno, quasi come se avesse capito che altrimenti il film non avrebbe avuto un finale, ma solo un gruppo di monaci che se ne stanno in piedi a dire “Beh?,” e quindi no, non valesse la pena portarlo avanti.
Va riconosciuto a Hellhole il merito di non aver ‘sbracato’ sul finale (che contiene peraltro l’unica sequenza genuinamente interessante dell’intero film), ma è comunque troppo poco e troppo tardi. Ah si, è proprio lì che si scopre il significato – letterale – del titolo. Bello, da leggere con la faccia con cui lo pronunciava Elio durante la prima stagione di LOL.
Di seguito trovate una clip di Hellhole, in esclusiva su Netflix: