Il diario da Venezia 81 (2024), episodio 3: crimini e misfatti
04/09/2024 news di Giovanni Mottola
Oggi vi parliamo dei film El Jockey dell'argentino Luis Ortega e di Wolfs - Lupi solitari coi mattatori Clooney e Pitt
Il Gazzettino, storico quotidiano veneto, rimasto forse l’unico ancora in edicola al modico prezzo di 1,20 euro, ha pubblicato una bella intervista a Felice Maniero in occasione dei suoi 70 anni appena compiuti. Il suo nome provoca ancora sdegno, visto il curriculum criminale che lo portò ad essere il capo della Mala del Brenta, la più grande organizzazione criminale del nord Italia, con 450 uomini ai suoi comandi.
Praticamente un esercito, che resistette dalla fine degli anni Settanta fino alla metà dei Novanta. Maniero fu arrestato nel 1994 e ha finito di scontare la pena lo scorso anno. Dei suoi colpi memorabili, tre hanno lasciato particolarmente il segno nella zona: un bottino di 70 chili d’oro al Marco Polo di Tessera; due miliardi in gioielli qui al Lido, all’Hotel Des Bains; altri due miliardi in contanti al Casinò.
Oltre alle rapine era specializzato in evasioni: scappò sia dal carcere di Fossombrone sia da quello di Padova. A proposito di quest’ultima fuga, in cui cinque banditi andarono letteralmente a prenderne altri cinque, tra cui lui, come un genitore potrebbe andare a prendere il figlio a scuola, ha compiuto una rivelazione importante.
“I cervelli di quella fuga fummo quattro: oltre a me, il brigatista rosso Antonino Tucciarello (che non era recluso) e due donne“. Di queste due donne non si era mai sentito parlare prima: sarà curioso capire se si sia trattato di mele marce appartenenti alle Forze dell’Ordine o all’Amministrazione Penitenziaria o a chissà cos’altro. Maniero, ormai pensionato, promette che rivelerà questo e molto altro a tempo debito, “anche se ci vorrebbero dieci libri”.
Lo aiuterà la sua ottima memoria, che per intanto lo rende quasi imbattibile nelle partite a scopone scientifico che gioca con i vecchi amici quando passa a trovarli nella natia Campolongo.
Sulle gesta di questo celebre bandito nostrano ci siamo dilungati, oltre che per il loro oggettivo interesse, perché costituiscono l’ideale apertura rispetto a due film proiettati alla Mostra con al centro la criminalità organizzata.
Il primo è un film argentino intitolato El Jockey, scritto e diretto senza alcun senso logico da Luis Ortega. In teoria dovrebbe parlare di un fantino, che fu grande nel recente passato ma ormai è allo sbando per colpa degli stravizi, chiamato a montare il purosangue Mishima, importato dal Giappone da una famiglia mafiosa locale.
All’apertura delle gabbie il cavallo scatta in testa, ma poi non fa la curva e si schianta contro il cancello dell’ippodromo, facendo finire il suo jockey in ospedale, tra la vita e la morte. Fin qui la storia procede con una vaga sensatezza, nonostante inserti di dubbia comicità e inutili parentesi lesbo che già farebbero gridare “Aridatece Mandrake e Pomata!“.
All’improvviso tutto frana: il fantino si risveglia e, per uscire dall’ospedale senza dare nell’occhio, si camuffa da vistosissima battona. Il capobastone ordina ai suoi tre sgherri di rintracciarlo, ma niente: in tutta Buenos Aires nessuno si accorge dell’aggirarsi di un soggetto così agghindato, che peraltro si guarda bene dallo stare rintanato in un rifugio.
Va a finire che lo trovano, ma si fanno ammazzare da lui, che fa secco anche il capo in un cinema, dopo averlo baciato sulla bocca (normale, no?). A questo punto si costituisce e in carcere diventa veramente una donna, salvo poi risvegliarsi uomo il giorno in cui il Direttore gli propone di montare a cavallo per sfide a due contro auto e moto sulla breve distanza. Fine del film e dell’incubo per gli spettatori. Non è necessario aggiungere altro, se non che per fare un film alla Almodovar ci deve essere Almodovar.
Tanto astruso e pasticciato El Jockey quanto classico e piacevole Wolfs – Lupi solitari di Jon Watts, con il ritorno della coppia George Clooney/Brad Pitt. I due divi americani interpretano personaggi che svolgono lo stesso lavoro: risolvere problemi.
Non è quindi esatta la traduzione italiana del titolo (“Lupi solitari”). In inglese la parola wolf (lupo) ha il plurale irregolare in wolves: wolfs non esiste, vuole soltanto essere un giocoso richiamo al Mister Wolf di Pulp Fiction, quello che appunto risolveva i problemi. I due agiscono in proprio e non si conoscono, ma una notte si ritrovano chiamati contemporaneamente sulla stessa scena da due persone diverse. Inizia così una sarabanda di situazione che mescoleranno azione ma soprattutto ironia.
I due protagonisti gigioneggiano visibilmente divertiti, con Clooney leggermente superiore al collega perché più acconcio alle parti scanzonate. Tutto il film si regge su di loro, anche perché l’intreccio è non soltanto abbastanza ordinario, ma pure inverosimile in certi passaggi, fondato su coincidenze improbabili.
Al regista Watts il merito di aver riunito l’unica coppia di attori, da lui stesso definita “sottoutilizzata” (ultimo film insieme fu Burn after reading del 2008), degna erede delle due più simpatiche canaglie del cinema, Paul Newman e Robert Redford. Il finale ripreso da Butch Cassidy sembra affermarlo esplicitamente.
Sia Clooney che Pitt hanno dimostrato il loro tratto cordiale in tutta la loro trasferta Venezia: si sono prestati a farsi paparazzare all’ingresso e all’uscita della cena al ristorante Da Ivo, hanno firmato autografi e scattato foto con i fan, hanno scherzato in conferenza stampa. Il momento più serio è stato quello, abbastanza prevedibile, in cui Clooney ha espresso il suo appoggio a Kamala Harris nella corsa alle elezioni americane del prossimo novembre.
Prevedibile in quanto lo scorso luglio l’attore, noto per il suo attivismo in favore del Partito Democratico, aveva inviato una lettera al New York Times dove sosteneva la necessità del ritiro di Joe Biden, esplicitamente ora ringraziato per aver obbedito agli ordini.
Un momento d’imbarazzo è invece avvenuto quando i due protagonisti hanno smentito di aver percepito per il film un cachet da 35 milioni di dollari (“è stato molto più basso …”). Oltre a stridere un po’ con la pretesa di aver quasi titoli superiori per indicare il candidato giusto da votare in un Paese di 300 milioni di persone, che hanno redditi diversi e di conseguenza impellenze di altro genere, compensi così alti fanno anche a pugni con l’avidità su cui per contro le grosse case di produzione hanno impostato i loro rapporti con la stampa.
Il problema sollevato dalla giornalista freelance tedesca che si lamentava dell’impossibilità di effettuare interviste ha trovato una motivazione ben poco lusinghiera. Si è scoperto infatti che i produttori applicano un tariffario per ogni intervista che rilascia l’attore di un loro film, ovviamente modulando le richieste sulla base della notorietà della star.
Per esempio, per un’intervista con Brad Pitt bisognerebbe pagare 1.250 euro, o dollari che sia (dieci anni fa era il doppio: si vede che oltre ad Angelina Jolie anche la stampa ha perso interesse verso di lui …). Queste somme non vengono versate direttamente dai giornali, ma dai distributori del film. I quali, pertanto, hanno tutto l’interesse a concedere interviste solo a una stampa amica che gli garantisca, oltre alla doverosa professionalità, anche elogi magari non meritati.
In questo modo si ritrova penalizzato il giornalismo indipendente e si crea una stampa sempre più asservita. Uno schema veramente estorsivo, di fronte al quale impallidirebbe persino Maniero.
Il trailer internazionale di Wolfs – Lupi solitari:
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