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Voto: 6.5/10 Titolo originale: La sindrome di Stendhal , uscita: 26-01-1996. Budget: $3,800,000. Regista: Dario Argento.

Ombre dal passato: La sindrome di Stendhal di Dario Argento (1996)

12/12/2017 recensione film di Jurij Pirastu

Dopo Trauma, esce una nuova pellicola con un focus emotivo sui personaggi, che mantiene le indagini poliziesche del thrilling dei primi anni ed esplora non solo la psicopatia del killer (tipica di alcuni film), ma anche della protagonista

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Può un quadro essere così bello e ammorbante al contempo? Sì. Solo l’arte ci può salvare. Ma con la possibilità di pagarla sul nostro fisico. O di vederla influenzare quello di Anna Manni, vittima della sindrome di Stendhal, e preda di uno stupratore e omicida seriale. È la protagonista del film omonimo alla malattia, La sindrome di Stendhal, del maestro Dario Argento, del 1996. Memore dell’esperienza al Partenone, l’artista romano imprime una nuova paura personale, con il contorno di soggettive assassine, psiche turbate, killer sotto una copertura benevola. Tra elementi tipici e innovativi.

Sinossi

L’agente di polizia Anna Manni (Asia Argento), sulle tracce dell’assassino e stupratore Alfredo Grossi (Thomas Kretschmann), si reca a Firenze, e dopo aver provato un malore alla vista di quadri agli Uffizi (ha una malattia nota come sindrome di Stendhal), viene assistita dallo stesso omicida. Tornata in albergo viene seviziata dall’uomo, di cui scopre la vero volto.

La sua vita, da ora in poi, dopo essere stata violata duramente, sarà un processo di ricerca e ricostruzione di sé, con cambiamenti d’aspetto (vestiti e capelli), di carattere (tendenze mascoline), un rapporto conflittuale con l’arte e una forte paura di ritrovarsi accanto la bestia che l’ha violentata.

Alfredo, l’uomo ricercato, la troverà, rapirà e sevizierà nuovamente, ma chi avrà la peggio, alla fine è lo stesso killer: Anna si difende fino a ferirlo in modo grave e ucciderlo. Quando la minaccia sembra sono un fantasma del passato, e subentra l’amore con il giovane Marie, la sofferenza non finisce: il giovane innamorato viene ucciso. Ma chi è il responsabile? Alfredo è davvero morto? O c’è un altro malvivente in circolazione?

Storia

New York, in una libreria Rizzoli. Seduto a un tavolo, un signore legge un giornale appena acquistato, ed è attratto dalla recensione di un libro: La sindrome di Stendhal, della psichiatra Graziella Magherini. Il nostro uomo è il cineasta Dario Argento, durante il suo periodo in America. “Bastarono poche righe di quell’articolo di giornale per riportarmi all’istante alla mia adolescenza” (Paura, Dario Argento, 2014). Un forte stimolo al ricordo, come le famose Madelaine di Proust.

Aveva quattordici anni ed era in vacanza in Grecia con i genitori. Alla visita del Partenone fu scosso da quell’architettura antica. Le sensazioni andavano oltre una semplice esperienza: le figure nel fregio sembravano parlare e a momenti staccarsi per andare a catturarlo; poi stavano intorno a lui; e dopo ancora era come essere nella guerra di Troia. Le vertigini erano fortissimi, e rischiava di perdere i sensi.

Di fronte a un monumento di tale fascino quel ragazzo si era sentito male. C’è un’associazione tra i sintomi descritti dalla psichiatra, ma solo la lettura di un’esperienza di Freud (anche lui aveva provato un malore osservando il Partenone) permette a Dario Argento di eliminare i dubbi e riconoscere nelle reazioni fisiche di quel lontano giorno la sindrome di Stendhal. “Ora sapevo quale sarebbe stato il tema del mio nuovo film” (Paura, Dario Argento, 2014).

La sindrome in questione è “una patologia psicosomatica che insorge al cospetto di opere d’arte particolarmente evocative. Essa si manifesta come una sensazione di malessere diffuso, con stato confusionale, nausea, vomito, difficoltà respiratorie, allucinazioni, sensazione di svenimento e perdita di coscienza” (SofM). È conosciuta anche come la “sindrome di Firenze”, la città in cui lo scrittore francese Stendhal (Marie-Henri Beyle) che le dà il nome (è il primo che ne ha scritto qualcosa) aveva provato un malessere, alla visita della basilica di Santa Croce. E proprio una parte del film è ambientata a Firenze. “[…]

La vicenda doveva necessariamente svolgersi in Italia: di fronte a un patrimonio così smisurato di opere d’arte, c’era solo l’imbarazzo della scelta” (Paura, Dario Argento, 2014). Un dipinto così potente come la Caduta di Icaro di Bruegel, che accentua le reazioni psico-fisiche di Anna Manni (c’era già un influsso da parte di altri quadri) fino allo svenimento, non poteva richiedere uno sfondo migliore degli Uffizi.

Produzione

La pellicola viene dopo quelle prodotte in America: l’episodio de Il gatto nero (1990, del film Due diabolici occhi, con due episodi; l’altro è diretto da George A. Romero) e Trauma (1993). Deve attendere per avere una location: Argento viaggia a Chicago, Phoenix e altri posti suggeriti, ma nessuna di questa offre un museo all’altezza degli Uffizi di Firenze.

Grazie al denaro ricevuto dalla Cine 2000 (compagnia fondata da Argento e Giuseppe Colombo), con la collaborazione di Medusa Film, può realizzare il film. Il budget è di 3.8 milioni di dollari. Il guadagno in Italia è stato di 2.8 milioni di euro (in quell’anno quasi 5 miliardi e mezzo di lire).

Asia Argento, figlia d’arte, rimpiazza Bridget Fonda, la prima scelta per la protagonista Anna Manni. La collaborazione con Asia era iniziata con Trauma, e dopo la Sindrome prosegue con Il Fantasma dell’opera (1998). Il ruolo della Manni, rivestito da Asia, era un prova ardua. “[…] Asia fu impeccabile, arrivava sul set molto prima della troupe per discutere con me, e ostentava la massima dedizione al lavoro” (Paura, Dario Argento, 2014). Il profilo della poliziotta che Asia avrebbe impersonato viene tratteggiato ogni sera, dopo cena, da papà e figlie Argento (l’altra è Fiore), che per qualche anno abitano insieme nelle stesse mura. Un forte sostegno alla creazione del personaggio viene offerto da Graziella Magherini, l’autrice suddetta del libro omonimo alla sindrome.

Dentro il film

Storia e racconto: la fabula e gli antefatti

Nei film di Dario Argento è comune una struttura narrativa lineare con la storia inventata: narrazione (il discorso filmico, cosa si sceglie di far vedere di una storia, e in che ordine) e storia (l’idea alla base del film) coincidono. Ne risulta la cosiddetta fabula, poiché il regista scrive una storia, e questa è girata mostrando i contenuti in ordine di tempo.

La vicenda al museo, l’incontro con l’assassino, il ritorno a Roma, i giorni a Viterbo di Anna, nuovo faccia a faccia con l’assassino, il rapimento, l’uccisione del cattivo, il rapporto con Mario, la vicenda con lo psicologo. Uno dopo l’altro. Gli unici rimandi al passato che spezzano per poco la continuità della narrazione sono i flashback di Anna, che riportano a momenti già mostrati nel film, ripensati o ripresi a parole, o svelano pezzi di storia non mostrati (ad esempio una scena del crimine e una conversazione tra Anna e il capo ispettore, che dice di volerla inviare a Firenze).

Ma cos’è che nel film non viene raccontato (solo accennato) ed è presente nella storia? “Quell’uomo ha stuprato 15 donne e ha ucciso solo le ultime due”, afferma il capo ispettore Marinetti, nel suddetto flashback.

L’assassino incomincia a stuprare e uccidere (una vittima) prima del racconto, in una parte precedente della storia. Nulla degli antefatti di violenza si vede; tutto è lasciato immaginare. Il Male ha agito prima dell’inizio. Come indicano i due omicidi de L’uccello dalle piume di cristallo (1970) che precedono quello che si verifica nell’incipit (“misterioso omicidio di una giovane donna”, sta scritto sul giornale). O come nel prima della storia di Profondo Rosso (1975), in cui si è consumato un delitto indicato dal ritrovamento di un corpo in putrefazione da parte di Mark David, dopo aver abbattuto una parete di un interno della villa in cui si trovava.

“I delitti di Profondo Rosso avvengono come propaggine di un assassinio avvenuto molti anni prima” (Dario argento: il brivido, il sangue, il thrilling, Fabio Giovannini, 1986), quello appena nominato. I resti dell’omicidio (il cadavere) vengono mostrati, ma non l’omicidio (il frammento di storia). E se scavando nel passato non si ritrovano gesti efferati, si può riportare a galla un trauma, come quello adolescenziale a sfondo sessuale dell’assassino di Tenebre (1982).

Una rottura con il passato: una soggettiva assassina meno presente

La soggettiva è un tipo di ripresa ampiamente utilizzata dal nostro regista come punto di vista del killer. Ma ne La Sindrome di Stendhal questa tecnica è sempre meno presente: l’assassino suscita orrore per quello che fa, e viene mostrato da subito; quando la soggettiva è presente non aiuta a nascondere l’identità dell’assassino, già nota, ma la connota conferendo tensione alla scena. Esistono film di Argento senza soggettive? Forse no.

La soggettiva è l’inquadratura dal punto di vista di una persona. Quella primaria è ottenuta deformando lo schermo o rendendo mossa l’immagine; quella secondaria mostrando l’oggetto guardato da una persona (si intuisce che qualcuno sta guardando), dopo aver mostrato questa puntare qualcosa. In Argento la tecnica è proprio un suo marchio, si usa in particolare la primaria, e si ricostruisce lo sguardo del killer. Ne risulta un’identificazione tra l’istanza narrante (il punto di vista che fa vedere e racconta ciò che accade nello schermo), lo sguardo dell’omicida, e lo sguardo dello spettatore, che punta verso lo schermo e vede come vedono le altre due presenze. Ma chi è che uccide? Chi è il colpevole?

La scelta della soggettiva non è di tipo morale: non si scarica una colpa, né si accusa in modo simbolico noi che vediamo la scena e poi spuntare gli attrezzi del killer verso la vittima, coinvolti in un’irrimediabile incapacità di agire (si guarda ma non si può cambiare la scena; ma questa è tipica di chiunque sia spettatore della morte sullo schermo).

Essa oscura l’assassino (non si deve vedere), tralasciandone i particolari più significativi (mani guantate, armi, occhi, etc.), con una forte carica emotiva (la paura ha una sua fisicità, si fa solida, sta in ciò che si vede); la morte esplode nella potenza del profilmico, tutti gli elementi scenografici che vediamo nello schermo, guidato dalle riprese di un’abile cinepresa. Sarà la storia, per i più coraggiosi che sono rimasti a vedere, a mostrare la sua l’identità, che prima non era possibile vedere.

Ne La Sindrome di Stendhal, tuttavia, Alfredo non è l’oscuro maniaco de L’uccello dalle piume di cristallo che si svela alla fine, né la misteriosa figura che ammazza durante la pièce del Macbeth in Opera (1987); egli uccide e aggredisce, e, quasi tutte le volte, non viene celato dietro lo sguardo della cinepresa. Alfredo si mostra da subito nelle prime scene, si presenta ad Anna Manni con il suo vero nome e, stuprandola, le fa capire chi è, nonché il killer. Qui il regista vuole farcelo conoscere: il suo aspetto affascinante, il suo modo di pensare e parlare, le sue pulsioni, accentuate da una mimica da pervertito, la sua follia lucida.

La conoscenza sempre più ampia di un’identità complessa e di terrore, insieme alla visione del modo di agire, creano un forte orrore. La vera paura sta nell’impatto diretto con l’assassino e i suoi modi, non nell’attesa; Alfredo fa paura così com’è, e deve essere mostrato. L’atmosfera può essere, o no, caricata di tensione dalle riprese precedenti ma, come al solito nei film di Argento, “la paura non riguarda il prima, né tantomeno il dopo, ma il durante” (Argento, Roberto Pugliese, 1986).

Ma dove si trova la soggettiva? Nelle scene in cui il killer brutalizza Anna (qui di tipo secondario), in cui si mostra lui e poi Anna, ciò che guarda, anche se con uno sguardo un po’ spostato a lato; nelle scene in cui questo corteggia una sconosciuta, entra con lei in un’area isolata (di tipo primario; è così nascosto che non si vede niente di lui e poi la voce è modificata), ha un rapporto e la uccide (prima ci sono riprese normali, poi una soggettiva primaria).

Il cinema che si rinnova: gli effetti digitali del film

La Sindrome di Stendhal è il primo film (di Dario Argento e italiano) in cui vengono impiegati effetti speciali digitali. Questi vengono prodotti con un computer, medium venuto dopo e più innovativo del cinema, che nel processo di rimediazione ingloba lo stesso cinema, prendendone la componente audiovisiva.

Il computer, come ogni medium innovativo, si potenzia con precedenti media (dall’oralità fino alla televisione, l’ultimo prima del computer). Ma è anche vero che i media superati cercano di rinnovarsi in base a nuove esigenze guardando in avanti. Ed ecco che il cinema incomincia a far uso degli effetti speciali per riprodurre nella virtualità del piccolo schermo, e poi trasferire sul grande schermo, le idee di un regista.

La fantasia di Argento, ostacolata nella realizzazione per insufficienza di mezzi tecnici durante le riprese di Inferno (1980), in cui, durante un temporale “la macchina da presa doveva seguire la traiettoria della folgore e scaricarsi per terra” (Dario argento: il brivido, il sangue, il thrilling, Fabio Giovannini, 1986), ora può materializzarsi.

Cosa è reso con il digitale? Le pillole assunte da Anna mentre scendono lungo l’esofago. Il proiettile di Alfredo che perfora la bocca di una ragazza seviziata da questo (il quale poi guarda Anna, lì presente, attraverso i buchi delle guance, dando un’ironia macabra alla scena). Il proiettile sparato sempre dal killer alla tempia di un’altra donna, che attraversa lo schermo mentre compare l’immagine dell’uomo, l’ultima impressa nella retina e nel cervello della vittima.

Protagonista/vittima e antagonista/killer

Una psiche turbata: Anna Manni

La Sindrome di Stendhal fa parte di un percorso rinnovato, già iniziato con Trauma, più attento “alla sostanza intima dei personaggi, all’esplorazione di un sentimento” (SS). Mai, come in questi, l’aspetto emotivo del protagonista traspare così tanto. La vita della poliziotta Anna Manni non è più la stessa dopo quella mattinata in cui si manifesta la sindrome e viene seviziata dall’assassino. Il contatto con l’arte la sconvolge. In quella mattinata le provoca reazioni psico-somatiche, fino allo svenimento; le altre volte rimarrà più o meno cosciente.

Il film è pieno di arte: qualsiasi meta raggiunga, essa trova rappresentazioni artistiche; anche quando Alfredo la tiene prigioniera, in un posto sperduto, subisce l’influenza dei graffiti che la circondano, causandole un forte stato di agitazione. I mezzi tecnici del cinema permettono di rendere in modo efficace il rapporto immersivo con alcuni quadri.

Anna è nella camera d’albergo e guarda ossessivamente la Ronda di notte di Rembrandt, che produce un vociferare insopportabile, quello delle figure dentro; gli stimoli ricevuti isolano dal tutto il resto, perché l’attenzione è rivolta solo a questi. Poi il quadro diventa un portale verso i suoi ricordi, e si apre un flashback, mentre la donna è immersa nell’esperienza con l’arte, valicando il limite con la realtà. Al distretto di polizia succede una cosa simile: si ritrova assimilata da un quadro con delle acque, e la sensazione è quella di essere bagnata, anche se è la mente che viaggia, mentre il corpo rimane, non si sposta.

Anna, nonostante il difficile rapporto con l’arte, verso metà film, ha voglia di dipingere. Quello che crea non sono di certo i capolavori che l’hanno fatta star male, ma è il risultato di un’esternazione spontanea, senza filtri, di sentimenti. Se l’arte è per lei pericolosa, qui diventa un canale per liberarsi e stare meglio: c’è una profondo coinvolgimento, che culmina con il dipingersi, diventando una nuova rappresentazione di sé. Con il tempo passa anche la sindrome, e la donna non soffrirà più. Durante il film, al disagio della malattia si aggiunge quello ben più grave provocato dallo stupratore.

Anna è turbata dalla violenza subita, si sente macchiata, e non si vuole più riconoscere nella sua identità violata. Da qui incomincia un processo di ricerca di un nuovo sé, perché non si accetta più. Verrà seguita da uno psicologo, senza però avere dei miglioramenti. Il mutamento psicologico va di pari passo con il cambiamento di aspetto. Cambia capelli: ogni acconciatura è simbolo di un periodo trascorso. Ha i capelli lunghi, poi li taglia, usa una parrucca bionda, e poi ancora smette di usare questa. Inoltre vuole cambiare nome (come dice allo psicologo).

Tutto ciò ci fa pensare a una personalità multipla. Anna ha sofferto per la violenza subita all’inizio, ma non senza un coinvolgimento da parte di Alfredo. Durante il primo stupro, anche se sotto shock, sembra provare piacere al taglio al labbro e dopo il bacio di Alfredo (che è un masochista). I tratti femminili tendono al mascolino: è più energica, e dal nulla inizia a praticare boxe; si taglia corti i capelli. Alfredo è entrato nella sua vita e nella sua mente.

Anche dopo la morte di questo, la parrucca bionda e il rapporto amoroso con Marie, la paura che lui possa essere in circolazione vive ancora dentro di lei, finché la personalità dell’odiato killer non prede il sopravvento. È lei a uccidere Marie, l’innamorato. È lei che mette fine alla vita dello psicologo. Lo sdoppiamento in colui che le ha impresso ricordi di violenza e cicatrici si è attuato; la sindrome che le provoca tanti disagi non c’è più, e ora ama l’arte; la violenza ora fa parte di lei, che ha il compito di rappresentare la giustizia. Anna non è più Anna.

La follia sotto la benevolenza: Alfredo Grossi

Un individuo ci assiste e si preoccupa del nostro stato dopo che abbiamo avuto un malore, e ci paga un taxi per tornare in albergo. Di fronte a tale gentilezza è difficile avere dei sospetti verso questo. Ma, se chi si è interessato a noi è la stessa persona che poi ci violenta, andiamo a collidere con una terribile verità.

Alfredo Grossi, lo stupratore in questione, si presenta gentile e benevolo, dal bell’aspetto e vestito di fascino, ma è un essere marcio, per cui la parte buona è solo una maschera architettata nei particolari. La sua maschera è un’esca che ha mostrato a tutte le sue prede, che irrimediabilmente lo seguono. Con Anna è diverso: non del tutto cosciente per il malessere della sindrome di Stendhal al museo, ha diffidenza verso l’uomo, e questo piomberà nella sua stanza di albergo per brutalizzarla, senza averla corteggiata; non c’è nessun coinvolgimento emotivo.

Con lui Argento “sovverte tutti i canoni consolidati da decenni di criminal profiling e studi psicoanalitici forensi: è un assassino giovane e aitante, bello e biondo, e anche ricco. Come se non bastasse ha una moglie altrettanto bella che ne difende la memoria” (Il cinema dallo schermo che sanguina, volume 1, Enrico Luceri, 2017).

Alfredo è una persona che, a uno sguardo collettivo, si mostra normale come tutti, un puntino di una folla anonima che agisce con un senso comune: è l’uomo che porge fazzoletti a chi ne ha bisogno, si offre in aiuto, corteggia una ragazza con una rosa e una piacevole chiacchierata. Ma in una dimensione privata, la follia omicida latente esplode affrancandosi da un controllo repressivo degli istinti e da quel perfezionismo nel modo di fare, nel vestirsi, nella cura. La sua personalità deviante e pervertita va oltre la normalità di una persona. Questo è un forte presupposto per produrre orrore sullo schermo.

Come faccia a materializzarsi all’improvviso nei posti in cui si trova la protagonista è un mistero. Alfredo sa più di noi, e dunque più di quanto la macchina da presa esponga agli occhi. Sa dove abita la donna, ed è capace di raggiungerla senza che se lo aspetti, come un vampiro. Thomas Kretschmann (Alfredo), deve aspettare ancora per trasformarsi in una di queste figure horror archetipiche, e il film non è questo (ma Dracula 3D, 2012, sempre di Dario Argento; reciterà un’altra volta con Asia Argento); possiamo, tuttavia, notare un certo vampirismo nell’uomo.

Oltre alle apparizioni improvvise in casa altrui, egli ha una forte attrazione per le sue prede (donne), che adesca con modi lusinghieri e raffinati (come il famoso conte di Bram Stoker); compie giochi con il sangue tagliando Anna una volta al labbro (poi la bacia, assaporando il liquido rosso, il nettare dei vampiri), un’altra in faccia, e anche se stesso, in una pratica di masochismo. Non contamina le vittime con la tossina del vampiro (che innesca la mutazione) prima di uccidere, ma con il proprio seme (è uno stupratore), e poi mette fine alla loro vita (Anna è l’unica che vuole seviziare di continuo senza ucciderla, perché ne è davvero attratto).

Dopo la scena al museo per Alfredo è chiaro che Anna ha la malattia che aveva colpito Stendhal; questo dato lo porterà a ricercare immagini di magnifici quadri che possano produrre malessere in lei e debilitarla (una volta li porta di sorpresa a casa sua; in un’altra scena, dopo la sua morte, si vede un biglietto che si riferisce a un’opera che le voleva mostrare); e così sì che è una preda più facile. L’arte che tanto amiamo e dà un senso aggiunto alla vita, ponendosi come mimesi ma anche integrazione, diventa perturbante per chi patisce la sindrome: si sdoppia nel contrario, si fa lontana, ci fa male. Alfredo sa quali sono gli effetti dei quadri su Anna, e li sfrutta per scopi maligni.

A partire dai disagi della sindrome di Stendhal, che aveva colpito il regista quel lontano giorno, impressa nel film come leitmotiv, si passa a un malessere psichico più grande, come quello di Anna, e alla devianza e perversione di Alfredo. La paura nasce conoscendo queste identità, ed esplode sullo schermo. «E pensare che mi avevano detto: “Vai in Italia, è un paese tranquillo, lì non succede mai niente». Con queste parole si chiude L’Uccello dalle piume di cristallo, il primo thriller di Dario Argento, che segna l’inizio di un lungo percorso di produzione e sperimentazione della paura sullo schermo.

Il trailer internazionale di La sindrome di Stendhal:

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