Voto: 6.5/10 Titolo originale: Eaten Alive , uscita: 25-12-1976. Budget: $520,000. Regista: Tobe Hooper.
Ombre dal passato | Quel Motel Vicino alla Palude di Tobe Hooper
06/04/2018 recensione film Quel motel vicino alla palude di Jurij Pirastu
Nell’attesa di intascare gli introiti del 'massacro della motosega', il regista americano gira nel 1976 un altro horror basato su un killer preso di peso da un’altra crime story americana, Joe Ball. Analizziamolo nel dettaglio.
Un motel in fondo al viale, in una città nuova, potrebbe essere la salvezza per la notte. Ma se vi accorgete di rumori insoliti nelle acque intorno e della fatiscenza del posto, guardatevi bene dal metterci piede: potrebbe essere l’ultima volta. Quel motel vicino alla palude (Eaten Alive) è diretto da Tobe Hooper nel 1976. La pellicola, il primo horror con un coccodrillo, racconta, in un’interminabile notte di luna piena, le vicende del veterano di guerra Judd, mutilato e psicopatico, e dei clienti intrappolati nel suo motel, un luogo anti-gotico in cui il conflitto e l’orrore sono catalizzati e accentuati da forti colori.
Una giovane ragazza di nome Clara (Roberta Collins) cerca riparo per la notte dopo essere stata espulsa dal bordello in cui lavorava. Ad attenderla alla fine del viale ci sono un decrepito motel gestito da uno psicopatico e veterano di guerra, Judd (Neville Brand), e un coccodrillo nella palude accanto. Gli ingredienti giusti per una sanguinaria violenza. Ma non l’unica durante la storia; altri visitatori dovranno vedersela con la coppia infernale. Una famiglia composta da madre, Faye (Marilyn Burns), padre, Roy (William Finley) e figliola, Angie (Kyle Richards), che arriva all’orlo di una crisi dopo che la bestia della palude divora il loro cane.
Libby (Crystin Sinclaire), il padre e la sorella di Clara, alla ricerca della ragazza, ma ignari di aver perso l’integrità familiare. Buck (Robert Englund) e la sua ragazza, assai avversati dal sessuofobo Judd, per le loro voglie sessuali. Rimarranno Faye, Libby e Alice, a lottare o difendersi dal vecchio, che finisce vittima sua amata bestia. Divorato vivo.
Storia
Nel 1974 Non aprite quella porta violenta le menti di numerosi spettatori delle sale del mondo. O almeno di quelle in cui la proiezione era permessa. La pellicola è proibita in Francia (fino al 1981) e in Inghilterra (fino al 2000). Due anni dopo il massacro, Tobe Hooper ne dirige un altro sul grande schermo, con artefici un menomato e folle proprietario di un motel, e il suo vorace bestione.
Dopo l’horror della motosega, il cui protagonista riprendeva le abitudini del killer del Wisconsin Ed Gein, il nostro regista volge di nuovo lo sguardo alle crime stories d’America e ripesca dagli anni ’30 Joe Ball. Egli, soprannominato anche “the alligator man”, era un veterano della Grande Guerra, di Elmendorf (Texas), che gestiva una taverna, dietro la quale nuotavano degli alligatori in una piscina; non solo un’attrazione per i clienti, ma una possibile soluzione per disfarsi dei corpi delle tante vittime a lui attribuite.
Erano infatti sparite diverse persone, donne soprattutto, legate a lui. Dopo il suicidio del criminale (quando ormai era già in mano agli agenti), la stampa ha versato fiumi di inchiostro sulla sua storia, riportando diverse volte anche versioni distorte e sensazionalistiche dei fatti raccontati; si parlava di “parecchie donne uccise, figli non concepiti, mutilazioni, cuccioli di cani e gatti (come spuntini degli alligatori)”; e chi lo sa, era forse tutto falso? Sta di fatto una cosa: quattro agenti trovarono vicino alla taverna cinque alligatori, in una pozza, con attorno carne in decomposizione, e un’ascia con sangue e capelli (scrive ancora il Texas Monthly). La teoria che Joe Ball avesse nutrito le bestie con corpi umani era convincente.
Produzione
Tobe Hooper, senza aver ancora intascato nulla degli ingenti guadagni del film precedente, dirige Quel motel vicino alla palude nel 1976. Il regista rinnova la collaborazione con Kim Henkel, Wayne Bell e Marylin Burns, in ordine lo sceneggiatore, il fonico e la Sally di Non aprite quella porta, la quale firma per un’altra malsana pellicola di urla e terrore (ricordate l’altro film vero?). Robert Englund, che si imprimerà nel nostro immaginario come il Freddy Kruger della saga di Nightmare, è diretto per la prima volta da Hooper; gli altri suoi film con lo stesso regista saranno Le notti proibite del Marchese De Sade (Tobe Hooper’s Night Terrors, 1993) e The Mangler – La Macchina Infernale (1995).
Tempo e luogo della storia: il gotico e l’anti-gotico
La notte è fonda. Una luna piena di un bianco puro sovrasta la foresta, come un occhio enorme che immobile nel cielo veglia su ogni cosa. Nel mentre si odono sinistri versi di animali, invisibili nel buio. Non si tratta di un riferimento letterario da un romanzo gotico, di quella letteratura sviluppatasi tra il 1760 e il 1820, ed evolutasi fino al 1890 (Da Otranto a Innsmouth: nascita e sviluppi del romanzo gotico, Gianluca Santini), né da uno Stephen King o altro romanzo horror del ‘900 o oltre.
Bensì cinematografico: riguarda le prime due inquadrature del film di Tobe Hooper. È una notte perenne quella della storia: è parte del contesto generale in tutte le scene, tanto da dimenticarci della sua presenza, anche perché non c’è alcuna variazione di luce all’esterno. Essa dunque non ha proprio una funzione temporale, non è un indice del trascorrere del tempo della giornata durante i fatti, poiché è fissa, ed è difficile ipotizzare quanto duri nel film; piuttosto è un luogo fisico che racchiude le singole vicende mostrate nello schermo in un unico spazio. A momenti si torna a visualizzare la notte attraverso il cielo e l’ambiente esterno avvolto dal buio, rimandando a questa in modo esplicito.
La notte aiuta a connotare di paura e inquietudine di un film horror. Questo suo uso è prevalente nelle narrazioni gotiche generate, a partire dalla seconda metà del ‘700, dalla mano di abili letterati. La notte è l’occasione per il vampiro Lord Ruthven di entrare in azione, come si narra ne Il vampiro di John Polidori; è durante “una lugubre notte di novembre”, che Victor Frankenstein termina la prodezza della sua creatura artificiale, nel Frankenstein di Mary Shelley; l’avvocato Utterson esce una notte per le vie solitarie a cercare il sig. Hyde, e lo trova, come scriveva Robert L. Stevenson (Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde).
Questi alcuni esempi. Dalla tradizione gotica deriva la notte tetra e pericolosa, in cui il Male esce allo scoperto e opera, ricorrente anche nei film del terrore, non solo nelle trasposizioni dei libri gotici; essa è “parte indispensabile della cultura horror, dove bloccare i personaggi senza far loro trovare una via d’uscita” (Il cinema di Tobe Hooper, Fabio Zanello). E inoltre è un elemento costante in Quel motel vicino alla palude.
Se nel film di Hooper la funzione della notte è caratteristica della tradizione horror (romanzi e film), non possiamo affermare lo stesso per il luogo principale delle vicende, il motel. Nelle prime produzioni, i romanzieri gotici confinavano i propri personaggi in castelli, cattedrali, monasteri e abbazie, lontani dalla società e cari al periodo gotico del XII e XIII secolo (Da Otranto a Innsmouth: nascita e sviluppi del romanzo gotico, Gianluca Santini); con l’evoluzione del genere rimane soprattutto il castello e si introducono altri luoghi, ma i personaggi sono sempre in isolamento.
Per non parlare del cinema horror classico: luoghi distanti, anche culturalmente dislocati; tra questi il “maniero di Dracula, la casa infestata di The Old Dark House (1963), il laboratorio di Frankenstein, il museo egizio de La Mummia (1932)”, come riporta Marco Magni in Non aprite quelle porte – Horror Made Usa. Quel motel vicino alla palude, tuttavia, è figlio del new horror, il movimento cinematografico il cui capostipite è George A. Romero, che in breve ci dice “l’orrore è tra di noi, è quotidiano”. Il motel è in fondo a un viale, non molto lontano dalle strade della città, ed è accessibile a tutti. È per definizione funzionale all’accoglienza di visitatori, che, durante il film, sono frequenti.
La necessità di un alloggio stimola l’interesse verso del luogo. Non si tratta di un agghiacciante castello posto a grandi altezze, o di un abbazia sperduta, di difficile accesso, ma di un luogo alla nostra portata. È un ambiente basso e comune, anti-gotico. Con il new horror si perde “la tipica divisione tra luoghi del male (collocati soprattutto in alto) e i luoghi del bene (in basso) a favore della diffusione capillare del male” (Non aprite quelle porte – Horror Made Usa, Marco Magni). L’orrore acquista maggiore realismo, e pure, a volte, un carattere documentaristico (Non aprite quella porta, 1974). Dagli zombie ci si ripara nella prima villetta possibile, ma la casa non è più simbolo di protezione, e si contamina (La notte dei morti viventi, 1968).
Una tranquilla e silenziosa campagna non è più adatta per una notte in roulotte (Le colline hanno gli occhi, 1977). Una serena comunità è preda di un male cosmico (Villaggio dei dannati, 1995). E nella pellicola di Tobe Hooper è un motel a fare da sfondo al conflitto. Se da una parte il nostro film si avvicina al gotico e all’horror classico, per la presenza della notte come momento di azione del male, esso si lega al new horror per l’ambientazione quotidiana.
La fotografia: presagi e pazzia attraverso i colori
Il regista fa uso sapiente dei colori: nel film ci sono insoliti colori innaturali emanati da lampade, ma anche normali luci, che aiutano a produrre un senso coerente alle scene. Non si sfrutta solo la loro funzione denotativa (uso il blu perché un oggetto è blu), ma connotativa (uso il blu perché ha un significato, è legato a immagini particolari, è un simbolo). Il linguaggio dei colori è parte, nella creazione del film, di quel settore noto come fotografia (insieme all’illuminazione e le inquadrature).
Sarebbe possibile un’analisi di tutti i colori presenti (arredamento, vestiti, oggetti, etc.), ma concentriamoci sui colori prodotti dalle luci. Appena Clara arriva di fronte al motel troviamo il bluette a sinistra e a destra e ancora nel corso delle riprese esterne e all’interno del motel (quando appaiono elementi esterni come la nebbia attraverso la finestra). Ma perché questa scelta cromatica? Ci può aiutare un articolo di StudioBinder, che adopera efficaci infografiche per riassumere il significato del colori nei film. Il bluette è tra il celeste e il blu e non compare, ma può esprimere sia idee associate al primo (freddo, isolamento, calma) sia quelle associate al secondo (mistero, minaccia).
La ragazza affronta da sola e impaurita un pericolo che non può immaginare, per lo più di notte e in un posto sconosciuto. L’ambiente bluette (solo noi lo percepiamo così) anticipa la violenza, come presagio, insieme ai sinistri versi animaleschi e la misteriosità del gestore del motel Judd: egli entra in campo da una porta, passando dall’ombra alla luce fino alla penombra, e Clara è illuminata (con rapporti di luce che rimandano al Norman Bates di Psycho, in una scena in cui parla con Marion, in inquadrature però più elaborate). Non ci vorrà molto perché l’uomo capisca che la ragazza proviene dal bordello, perda il senno e la aggredisca. Tra il riconoscimento della vittima e l’aggressione, un particolare risalta: una lampadina gialla su fondo blu.
Non è un’illuminazione irrealistica, né un elemento molto particolare, ma è insolita. Consideriamo che, nel suddetto articolo, il giallo è associato alla pazzia e alla malattia (che ritroviamo entrambi nel vecchio) e che la lampadina compare solo in questo momento di tensione, è predominante sullo sfondo, e si vede per pochi secondi sopra la testa di Judd: essa sembra proprio una scelta atta a produrre un senso più grande intorno alla scena, un simbolo in esplicita relazione con altri elementi, e non casuale. Una lampadina compare, Judd ha uno squilibrio mentale e compie un atto maniacale. Questo è un buono spunto di riflessione sull’uso simbolico del colore. Ma sarà vera l’ipotesi?
Fine della scena e dissolvenza su nero. Poi si riprende. Tutto è rosso, esclusa la luce blu proveniente dall’ingresso e le finestre nere. A cosa è legato il rosso? Violenza, pericolo, potenza. Ancora una volta un colore ha una funzione narrativa, ci parla prima delle azioni, ci prepara a fruire del momento. Dalla visione del motel si passa a una scimmietta in gabbia. Il coccodrillo emette versi e nuota rumorosamente. La scimmietta è calma, anche troppo, sembra paralizzata, incapace di ragionare e muoversi; la paura, provata per l’esperienza a distanza dei coccodrillo, la sta mangiando viva (citando il originale titolo Eaten Alive), mentre è avvolta dal rosso.
Poi perde i sensi e scopriremo dopo che è morta. Nella scena sono inframmezzate inquadrature di Judd che si diletta con una rivista e canticchiando. Ironia macabra. Tobe Hooper ha esplorato una nuova forma di morte: niente armi, niente sangue o aggressioni, ma una violenza sonora; la bestia strisciante violenta con i rumori, produce orrore, e le reazioni fisiche a questo orrore sono così forti da uccidere a distanza. Il tutto mentre chi guarda subisce una violenza cromatica di quel rosso potente, che prima anticipa e dopo amplifica. Questi tre esempi e tre usi significativi del colore.
Ancora troviamo un rosso prodotto dalla luce che marchia i luoghi e personaggi legandoli a violenza e orrore; un blu per colorare personaggi nei momenti di isolamento (Alice nel sotterraneo, Faye mentre è in bagno) e rappresentare una minaccia, anche nei momenti passionali (Buck e la ragazza hanno un rapporto nel motel, subiscono il blu della luce e faranno una brutta fine); la stessa lampadina gialla di prima ricompare prima che Judd aggredisca la madre (una violenza femminile come quella verso Clara).
Il primo film horror con un coccodrillo? Quel motel vicino alla palude. Ebbene sì: la terza pellicola di Hooper è il capostipite del sottogenere horror con coccodrilli e alligatori, che ha prodotto parecchi film da lì in poi. Da Alligator (1980; basato sulla leggenda metropolitana di queste bestie nelle fogne), a Killer Crocodile (1989; su un coccodrillo radioattivo), da Lake Placid (1999; il più noto, sulla caccia a un coccodrillo nel Maine), a Rogue (2007; con un gigantesco coccodrillo australiano), fino al più recente Lake Placid 4 (2011).
Ma è difficile rappresentare, come ha fatto Hooper, un rapporto tra uomo e animale, con “simmetrie tra umanità e animalità” e l’uomo come metonimia del coccodrillo, “entrambi ingabbiati nel motel e pronti a vittimizzare gli esseri umani per un fatto istintuale” (Il cinema di Tobe Hooper, Fabio Zanello); e questo lo pone a un livello superiore. La bestia è poi l’arma finale di Judd, estensione della sua pulsione violenta.
Il primo Tobe Hooper
Judd vs Leatherface vs il mostro di Il tunnel dell’orrore
Uno psicopatico proprietario di un motel. Un ritardato macellaio di umani. Un primitivo uomo deforme. Sono i mostri dei primi tre horror di Hooper, le sue creature, i suoi figli, tutti con una storia diversa. Ma se proviamo a ridurli a una forma più semplice con caratteristiche più generali, troviamo aspetti in comune tra questi tre, nonché chiavi di lettura dei film: psicopatia, violenza ai visitatori, repressione sessuale, vittime del sistema. Judd è uno psicopatico.
Sembrerebbe bipolare, perché passa da un umore all’opposto: parla eccitato del coccodrillo e poi aggredisce irato Clara; in generale ha improvvise pulsioni violente verso i visitatori del motel, a partire da uno stato diverso. Ha anche una sorta di schizofrenia, poiché a momenti si comporta come se rivivesse la guerra che ha combattuto (è un reduce), farfugliando frasi sconnesse alla realtà e muovendosi con agitazione.
Dall’altra parte la malattia mentale si presenta in Leatherface, e allo stesso modo nel mostro di Il tunnel dell’orrore (The Funhouse, anche noto come Carnival of Terror), con una regressione allo stadio infantile (con caratteri animaleschi accentuati nel secondo, nella forma e nell’istinto). Il contatto con l’estraneo genera conflitto. Gestire un motel significa offrire un servizio ai visitatori, ma per il paranoico Judd questi sono tutte minacce, e cerca di eliminarle; in questo modo purifica i suoi spazi e calma la sua mente, pur divenendo l’antitesi della sua professione (anzi, lo è da sempre).
Leatherface riconsacra la sua casa punendo “a dovere” chi ha aperto la porta di ingresso e i suoi compagni (la proprietà privata è sacra); erano visitatori che volevano aiuto, tuttavia, ma non hanno chiesto il permesso. Il mostro del tunnel, invece, intende togliere di mezzo i ragazzi che, non più clienti, si sono azzardati a rimanere nel gioco durante la notte, tra i quali c’è uno che ha rubato i soldi dei guadagni. Tre tipi di visitatori. Tre tipi di vittime. Vi è tanta violenza e si reprime l’istinto sessuale. Judd aggredisce la ragazza del bordello all’inizio: sembra la voglia stuprare, ma poi la picchia, la insulta, e finisce per ucciderla. Violenta la madre della bambina, ma non per appagamento sessuale.
Odia Buck: “Brutti schifosi, lo farebbero anche per la strada se gli andasse”, dice riferito a lui e la sua ragazza, prima che occupino una camera del motel. Le uniche fonti di eccitazione diventano la visione del coccodrillo mentre divora i visitatori (vivi o morti) e il racconto delle sue “gesta”: lo eccitano, fino al punto che a volte sembra atterrito dalla bestia. L’animale è feticizzato, adorato e temuto per la sua potenza, e i suoi pasti (le vittime) producono in lui come un appagamento sessuale. Ma con il vero sesso non vuole avere niente a che fare. Angelo Moscariello lo definisce paranoico e sessuofobo nel suo dizionario (Horror, Angelo Moscariello). E sessuofoba è la madre di Norman Bates (Psycho) e lo era pure quella di Ed Gein (l’unica reale), il killer da cui è nato Leatherface, di cui si riprende la personalità.
In Non aprite quella porta l’istinto sessuale è simbolizzato dagli omicidi con la motosega, che diventa l’estensione (in senso mcluhaniano) dell’organo riproduttivo del criminale (Non aprite quelle porte – Horror Made Usa, Marco Magni). Non tanto diverso è il mostro del tunnel degli orrori. Non ha rapporti sociali. I suoi sentimenti come gli impulsi più profondi sono repressi: il sesso manca del tutto, però la violenza non è sempre contenibile. Paga l’indovina per avere un rapporto con lui, ma il momento finisce subito perché lei non vuole esporsi a un mostro. Ne consegue uno sfogo di violenza che provoca la morte della donna. L’uomo è allo stadio di una bestia: non parla, obbedisce al padre (il padrone), è ridotto agli istinti essenziali.
Tutti sono vittime nei film. Anche i killer, ma del sistema in cui vivono. Judd è un ex soldato e, in una sorta di stress post traumatico, vive da solo lo stato di psicopatia e mutilazione (ha una gamba di legno), derivanti del conflitto.
È la dura realtà di quei soldati inviati a morire da uno stato che dice di volergli bene e che poi ritrova nei superstiti i segni dell’orrore; ormai sono creature disumanizzate. E in un film uscito pochi anni dopo la guerra del Vietnam, troviamo un messaggio nascosto assai coerente. Prima di essere carnefice, anche Judd è stato vittima.
Passiamo agli altri due. Faccia di cuoio vive insieme ai fratelli e al padre gli effetti dell’industrializzazione e del capitalismo, che hanno trasformato la società dando impulso all’economia, a discapito delle aziende tradizionali che ora si trovano chiuse, retrograde al progresso (Leatherface era un ex macellaio); inoltre nessuno si è curato di loro e, lasciati ai margini della civiltà, praticano cannibalismo per sopravvivere. In Il tunnel dell’orrore la creatura deforme nasconde la vera identità con una maschera ed è impiegato socialmente dal padre come giostraio.
Ma la paura del contatto con la realtà, impedito dal genitore per preservare il figlio, limita alla creatura la socializzazione e la crescita interiore, e la rende, a momenti, incontrollabile agli istinti. Per quanto sia difficile un inserimento nella società, il deforme è un uomo trattato da mostro e disabile, non da umano.
Solo maestri del cinema come Tobe Hooper sono in grado di codificare una storia con immagini e con varie chiavi di lettura. Qui abbiamo uno psicopatico sessuofobo, la metonimia del coccodrillo, una vittima del sistema americano e un uomo che non ha bisogno di fare l’assassino di professione, usando le classiche armi di morte e vivendo in un luogo gotico per spaventare. Aggiungeteci delle colorazioni forti e connotate e avrete ottenuto Quel motel vicino alla palude.
Il trailer internazionale di Quel Motel Vicino alla Palude:
© Riproduzione riservata