Il regista dà vita a un libera e singolare rielaborazione del caso di Meredith Kercher in un'opera in cui delinea un variopinto e debosciato sottobosco giovanile
Per anni uno dei maestri assoluti del cinema di genere italiano, Ruggero Deodato, ha latitato dal mondo delle produzioni cinematografiche dal 1993, anno di uscita del thriller Vortice Mortale. Regista instancabile, ha continuato a lavorare per il piccolo schermo a diverse serie e film televisivi e ha partecipato all’antologia horror del 2013 The Profane Exhibit con il segmento “Bridge”.
Tuttavia in molti, tutti coloro che hanno amato i suoi Ultimo mondo cannibale (1977) e Cannibal Holocaust (1980), per più di due decadi hanno aspettato il suo ritorno all’opera su un lungometraggio destinato al grande schermo. All’attesa ha posto finalmente termine nel 2016 Ballad in Blood, film proiettato in diversi festival, tra cui quello di Torino e di Sitges.
Fu accusato del delitto l’ivoriano Rudy Guede, inizialmente ritenuto coautore dell’assassinio insieme all’americana Amanda Knox e all’italiano Raffaele Sollecito, in secondo tempo gli altri due furono scagionati. Non fu però accertata la loro estraneità, bensì furono dichiarati innocenti grazie ad alcune perizie che escludevano la certezza della loro presenza sulla scena; invero l’iter processuale fu costellato di incertezze ed errori, forse vero fattore determinante dell’annullamento delle condanne dei due suddetti alla Suprema Corte di Cassazione nel 2015, ovvero a 7 anni dalla morte della giovane inglese.
Liberamente ispirato dalle vicende occurse nella cittadina italiana, Ballad in Blood tuttavia si discosta ampiamente da come sono stati riportati i fatti ufficialmente, dacché a detta del regista stesso “lì li hanno assolti tutti”; al contrario viene fornita dall’autore una interpretazione personale, soprattutto nel finale che non solo si discosta nettamente, ma indulge molto più nel sanguinolento e nel truce, ammantando i protagonisti di un’aura di decisamente maggiore efferatezza omicida; mutati sono infine anche i nomi, probabilmente per poter ulteriormente prendere distanza dall’originaria vicenda.
La pellicola si apre con una celere carrellata su una assai viziosa festa di Halloween, le cui riprese vennero realizzate nella suggestiva location del il Pozzo di San Patrizio di Orvieto; quivi numerosi giovani festanti in maschere eccentriche bevono, si drogano, si avvinghiano gli uni sugli altri. Stacco.
Pochi fotogrammi dopo, all’improvviso dall’alto cade un cadavere, sempre senza veli, ricoperto di sangue, davanti agli attoniti dei tre; è Elisabeth (Noemi Smorra), morta in circostanze misteriose il giorno precedente.
Il tono di Ballad in Blood è in buona parte racchiuso proprio in queste poche immagini, una somma di gioventù debosciata e dedita alle droghe con un senso morale assai labile, una buona dose di sesso e nudità esibiti con il cipiglio sessantottino e smaliziato del miglior cinema della controcultura, infine una reiterata profusione di fluidi corporei, tra sangue e qualche rigurgito, che all’emisfero nero, delittuoso e libertino aggiungono una nota truculenta.
Meno delineato è lo sviluppo, che procede a sbalzi in un alternarsi di flashback e presente, mirati a rivelare gradualmente e con una certa suspense chi sia il colpevole e cosa sia davvero successo in quella fatidica notte. D’altra parte anche la psicologia dei personaggi è più che altro componente ancillare e non particolarmente approfondita, antefatto più che altro per incursione nella depravazione degli artefici del misfatto e della loro cerchia, di cui la defunta sembrerebbe in ultimo acchito la vittima, colpevole di essere stata solo un po’ troppo innocente rispetto alla media.
Non solo, soggetti altrettanto peculiari sono il viscido proprietario del bar del luogo, Leo (Ernesto Mahieux), affiancato dall’avvenente Arden (Roger Garth) che si aggira con ali d’angelo nere. A completare l’insieme fa capolino anche Deodato in persona nei panni di un professore su una sedia a rotelle il cui nome, Eli Roth, è chiaro omaggio all’amico regista.
Volutamente suggestivo, più che stringentemente narrativo, Ballad in Blood è palesemente limitato purtroppo nel budget, aspetto che traspare subito dal girato, e in parte forse risente anche dalla recitazione in inglese. Nonostante tutto, sarebbe comunque bello se la sua fascinazione per il decadente e il morboso, che ne pervadono le sequenze, potesse riaprire una nuova stagione di cinema nostrano, fornendo un’alternativa alla produzione eminentemente comica o drammatica, unici generi in cui è impantanato con poche, seppur encomiabili eccezioni.
Di seguito il trailer ufficiale di Ballad in Blood: