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Voto: 7/10 Titolo originale: 仄暗い水の底から , uscita: 19-01-2002. Budget: $4,000,000. Regista: Hideo Nakata.

Dark Water di Hideo Nakata: un horror psicologico tra maternità e perdita

04/07/2025 recensione film di Marco Tedesco

Nel 2002 il regista di Ringu portava al cinema a modo suo un altro lavoro di Koji Suzuki

dark water film 2002

Nel cuore dell’ondata J-horror che ha segnato l’immaginario cinematografico di fine anni ’90 e primi 2000, Dark Water si distingue non solo per la sua atmosfera opprimente, ma per la profondità tragica con cui affronta la figura materna e la dissoluzione dei legami familiari. Hideo Nakata, già regista di Ringu, torna a collaborare con Koji Suzuki, autore del romanzo originale, per dare vita a un’opera che espande la poetica del “fantasma bagnato” in una direzione più intima, dolorosa e psicologicamente devastante. Rispetto al suo predecessore più noto, Dark Water appare meno iconico, ma più stratificato, meno dominato dalla paura istintiva e più modellato sulla fragilità emotiva di chi vive un lutto non ancora consumato.

La protagonista Yoshimi, interpretata con una sofferenza trattenuta e viscerale da Hitomi Kuroki, è una madre in piena crisi: reduce da un matrimonio violento, sotto giudizio costante da parte della legge e della società, lotta per la custodia della figlia e per la propria stabilità mentale. È una figura che porta su di sé tutte le ferite del patriarcato giapponese — non come simbolo astratto, ma come donna concreta, sola, impoverita, e sospettata per definizione solo perché emotivamente vulnerabile. La scelta di ambientare la vicenda in un complesso residenziale fatiscente, infestato da umidità, infiltrazioni e silenzi opprimenti, non è solo funzionale all’atmosfera horror: è una metafora diretta dell’erosione silenziosa dell’identità di Yoshimi. L’acqua non è solo l’elemento spettrale che lega Dark Water al suo titolo, ma il simbolo concreto del tempo, della colpa e della memoria che corrodono senza tregua ogni superficie.

La bambina in impermeabile giallo che comincia a manifestarsi, e che sembra legata a una tragedia non risolta avvenuta nell’appartamento superiore, è più che un fantasma: è la materializzazione della paura di Yoshimi di diventare come sua madre, di lasciare Ikuko sola, di ripetere un ciclo di abbandono emotivo e trauma che appare inevitabile. Non è un caso che la prima scena del film sia un flashback in cui Yoshimi, da piccola, attende invano la madre davanti alla scuola: quell’immagine è il seme del senso di colpa che la accompagnerà per tutto il film. Quando Ikuko viene lasciata anche solo per pochi minuti, Yoshimi teme di aver già fallito. E quando l’acqua penetra, implacabile, anche nei suoi momenti di felicità, è chiaro che il passato ha già cominciato a riscrivere il presente.

dark water film 2002 horrorL’horror di Dark Water non nasce dalla sorpresa, ma dall’attesa. La narrazione procede lenta, umida, in una progressione che assomiglia più a un’infiltrazione che a una serie di colpi di scena. Questo può allontanare gli spettatori più abituati ai ritmi frenetici dell’horror occidentale, ma è proprio in questa tensione trattenuta che Nakata costruisce un senso del terrore profondamente giapponese: non il mostro, ma la vergogna; non l’urlo, ma la goccia che cade, inesorabile. L’atmosfera è tutto, ed è costruita con grande intelligenza visiva: il palazzo si trasforma lentamente in una trappola acquatica, con inquadrature che sottolineano la verticalità claustrofobica dell’edificio e con una palette cromatica fatta di grigi slavati, gialli malati e rossi disturbanti. L’elemento più vivido è la borsetta rossa di Mitsuko, che ritorna ciclicamente a disturbare la nuova vita di Yoshimi, come un trauma che rifiuta di sparire.

Ma Dark Water è anche un film sul sacrificio. Quando Yoshimi comprende la portata del male che aleggia nell’edificio e nella sua storia familiare, capisce che l’unica via per salvare sua figlia è il distacco. Non solo fisico, ma spirituale. Il finale, struggente, inverte la logica del possesso: non è la madre che tiene la figlia, ma colei che si allontana per non farle del male. Una decisione che rovescia l’archetipo della madre protettrice in quello della madre sacrificata, e che rilegge con sorprendente lucidità le dinamiche di potere nelle famiglie disfunzionali.

Sebbene il film sia stato a sua volta oggetto di un remake hollywoodiano, nulla nella versione americana riesce a riprodurre l’umidità metafisica dell’originale. Seattle può offrire pioggia, ma non il senso di decadenza umana e spirituale che impregna le superfici di Dark Water. Solo Tokyo, con la sua pioggia stagnante e la sua alienazione architettonica, può davvero ospitare una storia come questa. E solo Nakata sa orchestrare questa “melodia del disagio” con una tale sobrietà emotiva, senza mai cadere nel melodramma o nel gore gratuito. I suoi set sono realistici, vissuti, logori: il suo palazzo sembra più vero di qualunque casa reale.

In definitiva, Dark Water è molto più che un horror psicologico. È un’opera che racconta la maternità come un campo di battaglia emotivo, l’abbandono come un’ombra genetica, la colpa come un liquido che trapela da tutte le crepe dell’anima. La paura più grande non è quella di incontrare un fantasma, ma quella di scoprirsi già posseduti dai propri fallimenti. In un genere spesso relegato a cliché e isterie, Nakata firma un’opera di rara coerenza tematica, visiva ed emotiva. Un film che, come l’acqua che lo pervade, non si dimentica: ti rimane addosso, ti si insinua sotto pelle, e poi trabocca, quando meno te lo aspetti.

Il trailer di Dark Water: