Mimsy Farmer è la disturbata protagonista del sottovalutato thriller psicologico del 1974, memorabile anche per il truce e inaspettato finale
Con l’arrivo dell’ottimo Hereditary – Le Radici del Male di Ari Aster (la nostra recensione), torna in sala l’horror incentrato sui culti satanici e sui loro adepti. Al film, dalla realizzazione impeccabile ma che risente palesemente dell’influsso di diversi predecessori (come tranquillamente ammesso dal regista stesso), è stata riconosciuta – e da alcuni criticata – l’affinità con alcune pietre miliari del filone, primo tra tutti Rosemary’s Baby – Nastro rosso a New York di Roman Polański. Se il capolavoro del 1968 ha indubbiamente dei punti in comune con Hereditary, esiste però anche nella cinematografia italiana un titolo – probabilmente a molti sconosciuto – incredibilmente affine e sempre incentrato sul medesimo soggetto: Il Profumo della Signora in Nero, scritto e diretto da Francesco Barilli nel 1974.
Denso di tensione e con non poco sangue, Il Profumo della Signora in Nero (il cui titolo è un omaggio a Le parfum de la dame en noir di Marcel L’Herbier del 1931) tanto ha in comune con il già citato horror di Roman Polański, nella creazione della tensione, nella sospensione tra realtà e psicologico, nel delineare le tese dinamiche tra la protagonista / vittima designata di un’oscura congiura e coloro che contro di lei tramano, gli insospettabili vicini, gli amici, perfino il compagno. Se da un lato, dunque, è decisamente simile al predecessore, ci sono anche non poche differenze. Thriller psicologico dominato da uno sviluppo conturbante e allucinatorio, emergono nelle sequenze una serie di fantasmi dal passato di Silvia, di miraggi e di visioni funeste, che in parte ricordano per l’indefinibilità tra realtà e delirio A Venezia… un dicembre rosso shocking, ma con un epilogo meno surreale e al contempo più scioccante dell’omicidio con cui si concludeva solo un anno prima il film di Nicolas Roeg. Difatti, memorabile e particolarmente scabroso è il suicidio della protagonista, al culmine di una grave nevrosi che la porta a rivivere un evento traumatico dell’infanzia.
Ossessionata dalla visione di una bambina – proiezione di lei stessa -(Daniela Barnes, che reciterà poi ancora minorenne nel controverso Maladolescenza del 1977 con lo pseudonimo di Lara Wendel) e della madre mentre si spruzza un profumo e poi viene posseduta da un uomo viscidissimo, Silvia precipita lentamente nella follia, fino a buttarsi giù dal terrazzo della sua abitazione. Tuttavia, scoperta sconvolgente, una volta che la giovane è morta, assistiamo a un funesto sabba in cui tutti coloro che lei conosceva e di cui si fidava, Roberto, il sig. Rossetti (Mario Scaccia), una coinquilina e pure Andy, dopo averla brandito un grosso coltello, la sventrano e ne mangiano un organo o un brandello di carne. Il tutto è descritto con macabra minuzia, come se ciascun adepto attendesse il proprio turno in questo banchetto satanico che certo è la perversione della comunione cattolica, in cui i fedeli accettano il Corpus Christi.
Sovente Francesco Barilli ricorre all’inquadratura dell’immagine riflessa in una superficie specchiata, come nella scena topica dell’interrogazione di una medium (Nike Arrighi); tuttavia, si tratta di un inganno dello sguardo e della mente … Il pubblico è allora immerso in questo mondo tra materia e sogno, quello esperito dalla protagonista, che sempre più si tramuta in un incubo infantile che emerge crudele nell’età adulta. Cupamente nostalgico, ad acuire il senso di angoscia che dalla sventurata vittima designata si propaga allo spettatore è la colonna sonora di Nicola Piovani (che nel 1999 vincerà il premio Oscar per La vita è bella di Roberto Benigni), con le sue note melanconiche e a tratti stridenti di violino.
Il Profumo della Signora in Nero riesce così sino al finale, inaspettato e di certo ad effetto, a lasciare chi guarda in bilico sulla vera natura di ciò che è stato messo in scena. Sarà stato tutto un delirio di Silvia, o sarà invece realtà? Gli indizi di cui sono disseminati i dialoghi sibillini e alcuni momenti topici, gli sguardi e i gesti ambigui dei personaggi con cui la donna ha a che fare, fino alle vere e proprie allucinazioni, tutto concorre a creare questo stato d’incertezza, portata sapientemente avanti fino all’ultimo istante. A coronare la pellicola è la performance di Mimsy Farmer, inizialmente timida e stranita, quasi in balìa degli eventi, ma la sua recitazione presto cambia nettamente una volta dominata dalla pazzia, che la porta a compiere, almeno all’apparenza, una serie di efferati gesti e quindi a togliersi la vita.
Di seguito trovate la scena d’apertura: