Il regista costruisce con maestria un ritratto grottesco della società e insieme un horror altamente disturbante
Concept non esattamente originalissimo, uno spirito perito in circostanze violente che iracondo inizia a uccidere nei modi più truci, si pensi solo alla prolifica saga di The Ring giunta ora al cinema con il suo terzo capitolo (la nostra recensione); ugualmente già nota è poi la trama di un uomo, condannato a pena capitale, che torna dal mondo dei morti per vendicarsi dei suoi boia. Wes Craven, seppur in modo non proprio impeccabile, aveva già proposto quest’idea nel 1989 in Sotto shock (Shocker). Eppure se dunque inedito non è, ma più la somma di spunti già visti, Johnny Frank Garrett’s Last Word di Simon Rumley mostra ugualmente qualcosa di nuovo, non tanto nel contenuto ma nella forma, nel modo di narrare, che per la maggior parte dello svolgimento è decisamente valido.
Da questo assunto, con una buona dose di verve critica peraltro, prende piede Johnny Frank Garrett’s Last Word, che unisce a una satira acuta e visionaria un tocco di horror. Il regista immagina infatti che lo spirito del giovane condannato (incarnato da Devin Bonnée), una volta defunto torni a perseguitare coloro che ne hanno deciso il destino, prendendo di mira anche le famiglie. A confermare tale funesto proposito è il morituro stesso che, sul punto di morire urla la sua incolpevolezza, la sua maledizione (contenuta in una lettera scritta ossessivamente per essere certo che arrivi a destinazione), “kiss my living ass!“. Da qui iniziano i sinistri decessi dei giurati e uno di loro, Adam Redman (Mike Doyle) si troverà a indagare sulla verità per evitare che anche il figlio subisca le conseguenze delle loro colpe.
L’efficacia descrittiva non si limita però alla sola componente antropica; in un minimalismo d’impatto il regista riesce a concretizzare in sequenze davvero disturbanti le successive morti per cause sovrannaturali. Senza le esagerazioni a effetto che certi horror più commerciali contengono, mobilio che vola, indemoniati che levitano e si esprimono in idiomi antichi, fantasmi posticci dagli occhi corvini, qui il male è senza fronzoli. È qualcosa di ruvido e concreto, l’immagine filmica non ha quella falsificazione che spesso edulcora la violenza rendendola meno reale. per questo più tangibile. Immediato e reale, un dolore fisico intride i fotogrammi, dall’urlo lancinante e innaturalmente esteso di Garrett, poco prima di essere colto da convulsioni, sputare un denso cumulo di sangue e morire, alla maestrina con malsane occhiaia che per i corridoi ripete come un’ossessa le ultime parole del suddetto (“kiss my living ass”) poi entrata nell’aula con una grafia instabile riempie la lavagna; lo spettatore non riesce a vederlo subito, sono inquadrati solo piccoli frammenti, successivamente la donna intima, urlando, a una bimba bionda di leggere, questa incerta inizia, si allontana l’occhio della camera e finalmente abbiamo una visione d’intero: sulla superficie nera la frase è ripetuta fino a riempire l’ultimo angolo, quasi un insieme di geroglifici. D’improvviso, l’insegnante si ficca tremante due matita nelle narici e forte batte il capo sulla scrivania in una lobotomia auto-indotta, il tutto in un susseguirsi fulmineo che non lascia il tempo per transigere sui particolari, solo si può udire il suono secco delle punte lignee che s’inficcano nelle pareti molli.
Purtoppo, qualche piccola incongruenza soprattutto avvicinandosi all’epilogo, nonchè un finale fin troppo buonista e lacrimevole stridono con il resto dello sviluppo, rivelandosi non esattamente all’altezza delle premesse e compromettendo in parte il risultato finale. Nonostante questo, però nel suo complesso JFGLW è sicuramente un film riuscito, Rumley dà sfoggio di ottime doti registiche e, soprattutto, è in grado di regalarci un’atmosfera inquietante e grottesca, degna del miglior Rob Zombie.
Di seguito il trailer ufficiale di Johnny Frank Garrett’s Last Word