Voto: 6/10 Titolo originale: Lady Bloodfight , uscita: 11-11-2016. Regista: Chris Nahon.
[recensione] Lady Bloodfight di Chris Nahon
16/01/2017 recensione film Lady Bloodfight di Martina Morini
Lotta al femminile senza esclusioni di colpi per trovare un senso al film con Amy Johnston
Scritto e prodotto da Bey Logan, massimo esperto di cinema di azione asiatico, e diretto da Chris Nahon (The last vampire: creature nel buio, 2009) il reboot al femminile di Senza esclusione di colpi (classico del 1988 con Jean Claude Van Damme) doveva inizialmente essere una produzione low cost di Hong Kong con attrici autoctone. Con l’intervento di Hollywood, nello specifico della Voltage Pictures (Dallas buyer’s club, 2013) e della stuntgirl Amy Johnston (Captain America – The Winter Soldier, Iron man 3) Lady Bloodfight è diventato invece la rivincita delle bionde, aprendo il mercato anche all’occidente.
La Johnston, vera e propria colonna portante del film, interpreta Jane, una ragazza americana che parte alla volta di Hong Kong per partecipare al più spietato e letale torneo di arti marziali di tutto il mondo: il famigerato Kumite. Jane è spinta dal desiderio di scoprire cosa sia successo a suo padre, scomparso mentre partecipava allo stesso torneo e di riscattare la sua vita e quella della madre. Giunta a destinazione si imbatte subito in alcuni malviventi e grazie all’intervento di Shu (Muriel Hofmann) riesce a salvarsi, ma le rubano la borsa con l’unica fotografia che aveva in ricordo del padre. In seguito scopre che la sua salvatrice è una maestra di Wudang, che la recluta per partecipare al Kumite in sua vece. All’inizio della pellicola infatti Shu era arrivata allo scontro finale, risultato in pareggio, con la sua ex amica – ora nemesi – Wai (Kathy Wu), esperta di shaolin. La rivincita si sarebbe dovuta disputare al successivo Kumite tra due apprendiste scelte dalle rispettive contendenti. Wai decide di allenare Ling, interpretata da Jenny Wu (Drown, 2015), una ragazza cinese che vive di espedienti, a cui i soldi del premio farebbero molto comodo. Parte del film si sviluppa successivamente sulla dualità dei due addestramenti, quello di Jane più introspettivo e meditativo e quello di Ling più spietato e letale. Al torneo si presentano ragazze da tutto il mondo che rappresentano differenti stili di arti marziali. Tra di esse spiccano l’australiana Cassidy, portata sullo schermo da Jet Tranter (Thor Ragnarok, 2017) e la russa nerboruta Svietta, interpretata da Mayling Ng (Wonder Woman, 2017). Questi due personaggi si distinguono dal sottobosco secondario delle altre partecipanti al torneo e la Tranter aggiunge anche un tocco comico, a tratti comunque inspiegabile e fuori luogo, al susseguirsi di round cruenti che culminano a volte addirittura con l’eliminazione fisica delle contendenti. Prevedibile il decorso del torneo, per non parlare del colpo di scena finale.
Citando una delle frasi del film: “non ti serve saper scrivere per combattere“, probabilmente il vero difetto sta nella sceneggiatura e nella scarsità dei dialoghi, le frasi degne di nota sono al massimo tre e tutte banali. Non esiste un vero e proprio leitmotiv di fondo, la trama si sgretola nel clichè dell’Occidente che incontra l’Oriente. Jane è la classica americana che non si “guarda dentro” ed è spinta da motivazioni sbagliate come rancore e vendetta, figlia di un consumismo superficiale e schiava del junk food. Forse omaggio o scopiazzatura della Beatrix Kiddo di Kill Bill, la barbie del wushu ne esce come lo stereotipo dello stereotipo, rimanendo confinata nei bordi di uno script debole ed effimero. Tuttavia Amy Johnston riesce a tenere in piedi un film che andrebbe KO al primo round, cresciuta a pane e arti marziali, figlia di un campione di kick-boxing, mette a frutto tutta la sua competenza regalandoci dei combattimenti fluidi e credibili, riuscendo a creare una bella intesa con le colleghe. Sulla scia di Zoe Bell, che è tra l’altro controfigura di Uma Thurman proprio in Kill Bill, incarna la fisicità e l’irruenza occidentali contrapposte alla fluttuante eleganza orientale. Il film rimane sospeso a metà tra il wuxiapan e i picchiaduro americani sull’onda dei film di Gina Carano e Ronda Rousey, non trovando però una sua dimensione ed equilibrio. Tutto ciò potrebbe derivare dal fatto che nessuna delle coprotagoniste asiatiche è esperta di arti marziali – formula che comunque aveva funzionato con Michelle Yeoh in La Tigre e il Dragone – e inoltre la carenza di guizzi narrativi ostacola la possibilità di dare spessore ai personaggi.
Occasione sprecata anche quella di approfondire il confronto tra diversi stili di combattimento, come la scena a filo d’acqua dello scontro tra la muay thai di Toni Jaa e la capoeira di Lateef Crowder (The Protector), che avrebbe aggiunto interesse ai duelli invece troppo brevi e poco coinvolgenti, salvo rare eccezioni. Sarebbe stato interessante vedere magari in azione la campionessa di muay thai Yanin Jeeja (Chocolate). Ad assistere ai combattimenti, che si svolgono in scantinati su un tatami, troviamo le uniche presenze maschili di tutto il film, una dozzina di uomini che scommette sugli incontri. Non si percepisce l’atmosfera dei film di Van Damme in cui la folla diventava fondamentale per incoraggiare l’eroe e permettergli di sferrare il colpo finale. In Lady Bloodfight lo spettatore non riesce a empatizzare, non si crea una forza trainante che spinge a tifare per la protagonista ed è tutto molto prevedibile. Difficile insomma trovare un senso a un prodotto che non offre stimoli per spunti di riflessione e non dice nulla di nuovo. Il recente Ghostbusters al femminile ha dimostrato che il gender swap a quanto pare non risulta molto vincente negli ultimi tempi: per riprendere classici apprezzati serve una solida sceneggiatura e, in questo caso, personaggi in grado di sostenere il ritmo incalzante dell’azione, o si rischia di rimanere al tappeto e non rialzarsi in tempo alla conta dell’arbitro. Proprio come in questo caso.
© Riproduzione riservata