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Voto: 7/10 Titolo originale: 東京フィスト , uscita: 21-10-1995. Regista: Shinya Tsukamoto.

[Imago Nipponis] Tokyo Fist di Shinya Tsukamoto

09/05/2017 recensione film di Attilio Pittelli

Con il film del 1995 l'autore annienta l'albero gauguiniano della Visione, inglobando così, definitivamente, reale e surreale, attraverso il barocco cinematografico

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Ascesi Una delle sequenze iniziali di Tokyo Fist (Giappone; 1995), ovvero il momento in cui l’agente assicurativo Tsuda Yoshiharu (Shinya Tsukamoto) si trova su una scala mobile in controluce, può essere presa in considerazione come metafora di ciò che rappresenta questo film all’interno della filmografia dell’autore. E’ l’ascesi agostiniana del regista all’interno del suo stesso cinema1, in cui egli si confessa attraverso i propri personaggi, sconfessando il contesto sociale in cui vivono.

La volontà di presentare un “altro” cinema, esasperando espedienti ottici al fine di creare un continuo stato di dinamismo angoscioso negli occhi dello spettatore, proprio come lo aveva proposto in Tetsuo, ha permesso l’annichilimento della realtà da parte del surreale. Ed è quest’ultimo a essere ciò che aspetta Shinya Tsukamoto alla fine della scala mobile: lo sguardo gorgonico di Tsuda a filo macchina conscio del fatto che il reale altro non è che una prigione del grottesco.

tokyo fist filmVedere. Sprofondare nelle buie curve di Gino Galli. Squarciarle come fece Lucio Fontana. Questo è Tokyo Fist. La velocità, il filtro freddo esasperato, la camera a mano; gli elementi per una trasformazione plastica di una pellicola proiettata su uno schermo bidimensionale.

La technè del regista nipponico anticipa già nella prima sequenza la trasformazione dei personaggi: la vita monotona e insoddisfacente della coppia protagonista, che verrà ribaltata dall’entrata in scena di un giovane pugile, vecchio compagno di scuola dell’uomo, subirà una trasformazione, sì, coniugale, ma anche gerarchica, la quale andrà completamente a scomporre e ricreare l’idea di donna all’interno della società giapponese.

La donna, intesa come oggetto, non del desiderio, ma da possedere, inizierà ad avvicinarsi alla boxe, divenendo così sempre più un modello androgeno. La trasformazione, seppur lenta, di Hizuru (Kahori Fujii) distruggerà, finalmente, la presunta virilità, ormai scontata, di una società presumibilmente testosteronica; così come il punk2, lei, da morigerata e ambita da Tsuda e da Kojima (Kôji Tsukamoto), diverrà sempre più homo3, fino ad annientare i due contendenti.

L’espressione e il suo fisico, che si fà via via tatuato e ricco di piercing4, sono i primi tatti somatici di un pro-filmico percepito dallo spettatore, finché la ragazza stessa sentirà il bisogno di essere picchiata, aldilà di una banale ossessionale sessuale psicoanalitica. Questa è la pennellata finale del decadimento del patriarcalismo. Tokyo Fist rappresenta quindi l’ultimo stadio della metastasi del “re su tutte le bestie più superbe5 e al tempo stesso la possibilità di un innesto di carattere surrealistico all’interno del reale: le penombre, le proporzioni barocche, i combattimenti splatter e il time lapse sono tutti segni di una rivoluzione iniziata nel 1989 con Tetsuo.

1 La scala mobile

2 Intesa come volontà di estraniarsi da una alienazione sociale, per scoprire una remota possibilità di superare il confine del buoncostume, appunto, sociale per ,finalmente, emarginarsi.

3 Non inteso come motore del capitalismo maschilista, ovvero un pensiero monogamico e fallocentrico, bensì la nascita di un emarginato: fenomenicamente uomo, ma noumenicamente donna.

4 Il desiderio di assimilare del metallo nel proprio corpo, considerata come una latente volontà di trasformazione, è il minimo comune denominatore all’interno della filmografia di Shynia Tsukamoto.

5 Si riferisce alla descrizione biblica del mostruoso Leviatano.

Il trailer di Tokyo Fist: