Titolo originale: ビジターQ , uscita: 17-03-2001. Budget: $60,400. Regista: Takashi Miike.
[Imago Nipponis] Visitor Q di Takashi Miike
10/04/2017 recensione film Visitor Q di Attilio Pittelli
Il film del 2001 è l’esempio di come un’etichetta, quale horror o azione, sia una convenzione critica, al fine di semplificare la complessità di un capolavoro
Takashi Miike, nella sua messa in scena, sfocia verso gli ultimi minuti di Visitor Q in uno splatter, che comunque avviene fuori campo, per abbracciare una perversione non sessuale, bensì visiva, in cui la moltitudine di significati è una chiave di lettura fin troppo banale.
Il modernismo di Miike: dal deus ex machina al surrealismo
Attraverso Visitor Q, il regista giapponese distrugge completamente quell’elemento di salvificazione, tipico del teatro classico occidentale, come il deus ex machina, per avvicinarsi molto di più a una figura spirituale, e in certi versi anche divina: il visitatore non è l’elemento di salvezza all’interno del film, ma il vero e proprio moto di rivoluzione, che, parafrasando Camus, diventa un divenire rivoluzionario, presente senza alcuna motivazione di scrittura, il quale compito è il suo annichilirsi di fronte alla presa di coscienza del suo essersi e inoltre alla possibilità di un nuovo ordine, in cui il matriarcalismo non ha la necessità di costruire nuove leggi e gerarchie, ma condividere la propria umanità con coloro che prima hanno ostacolato tale rivoluzione.
Se l’amatorialità dell’inquadratura di Adieu au langage – Addio al linguaggio di Jean Luc Godard denotava un’ asciugatura quasi molecolare, l’estasi di una madre allattante permette, attraverso il grottesco e l’innalzarsi di una società matriarcale, rimasta sottoterra, scorci di un nuovo linguaggio visivo, in cui la fantasia annienta la tecnica.
È attraverso un raggiungimento di una langue cinematografica1 che Visitor Q utilizza tale passaggio come metafora e come comprimario di una società patriarcale fino a una sequenza finale, in cui è con una domanda retorica, posta da una teen prostituta, che assistiamo alla nascita linguistica precedentemente accennata: alloggianti presso una camera colma di specchi, la giovane e Kiyoshi (Kenichi Endo) si filmano reciprocamente durante un atto incestuoso, finito con un’eiaculazione precoce e quindi uno svirilimento dell’emblema del patriarcalismo. La giovane continua la trattazione sul proprio prezzo, durante e alla fine dell’atto, per portare l’uomo a una sorta di decadimento in quanto maschio; gli stessi campi e controcampi si concentrano più che sulla parte dialogica, quasi totalmente fuori campo.
L’amore consanguineo viene così visto dallo spettatore attraverso un continuo passaggio da uno specchio a un altro, al fine di manifestare una violenza intrinseca da parte di Kiyoshi, consumata in una camera piccola, in cui i pregiudizi morali dell’uomo vengono profondamente scavalcati dai desideri, fondamenta del patriarcalismo reazionario.
Le domande retoriche continuano nella messa in scena, permettendoci di assistere a una sorta di trasfert dai personaggi alla macchina da presa, che, silenziosa, riprende le violenze domestica da parte di un ragazzino verso sua madre; questo processo, prima di arrivare alla camera di Takashi Miike, passa attraverso ogni singolo personaggio, come il visitatore che ama scagliare sassi sulla nuca a chiunque, oppure la madre, la quale, vittima, preferisce violentarsi attraverso un abuso di eroina.
Tramite tutte queste azioni, il regista riprende i muri di una casa ormai deturpata, in cui i protagonisti cenano tranquillamente, fra una frustata a Keiko (la madre, Shungiku Uchida) e urla fuori campo. Ed è proprio in queste mura distrutte, metafora dell’ovvio contesto, che la camera del giovane Takuya si presenta come un universo a parte: ordinata, con un armadietto per i diversi battiscopa con cui picchia sua madre, vicino ai suoi fumetti preferiti, ospita inoltre una maschera per filtrare l’aria, denotando quasi a livello psicanalitico come la cagionevole salute sia la causa del suo io violento.
Contrapposto a una perversione scolastica del giovine, la madre decide di consumare eroina, comprata in un parchetto, in una camera semi buia, in cui le tende coprono il suo corpo martoriato e civilmente provocante, intento a godere dell’effetto inebriante della droga. L’auto abuso del corpo femminile avviene quindi tramite delle dinamiche femministe, in cui la stessa protagonista sorride, finalmente, uscendo da quel contesto.
Ed è proprio quando la lettura critica psicanalitica si crede essere l’unica chiave di lettura del film che Takashi Miike inserisce, attraverso la figura del padre, elementi aldilà dell’inconscio, in cui il surrealismo diviene il miglior alfabeto per poter comprendere quest’opera. Kiyoshi, abusato sessualmente da dei passanti, decide di realizzare un documentario, nel quale riprende atti di bullismo da parte di ragazzini nei confronti di suo figlio e al fine di spiegare le proprie sensazioni e responsabilità di essere padri, dopo l’abuso subito.
Il genitore lascia così che il figlio venga ripetutamente vessato dalla combriccola e decide anche di riprendere ogni atto di violenza da lui compiuta, al fine di essere il più veritiero possibile con lo spettatore. Si passa così da un femminicidio alla necrofilia e all’estasi del maschio in grado di condurre un atto sessuale fino “all’eternità”; nelle mura di casa, invece, Keiko scopre la propria femminilità attraverso l’allattamento, aiutata dal visitatore, che la porterà verso orgasmi mai avvenuti e quindi diventa una scheggia impazzita, desiderante di libertà, all’interno del triangolo patriarcale.
L’amatorialità del regista si trasforma attraverso il montaggio, frenetizzandosi e mostrando frame in b&n, che ricordano Tetsuo (Shin’ya Tsukamoto; 1989; 67’; Giappone), e attraverso la videocamera tenuta dal visitatore, che diventa celebrazione di un surrealismo, riprendendo un pavimento innaffiato da latte materno, oppure una moglie intenta a estrarre il membro del marito da una ragazza morta, in un contesto di risate inaspettate.
Il patriarcalismo è ormai al declino, nel momento in cui la camera si concentra sulle azioni e le espressioni di Keiko, che sono essenziali per far risorgere Kiyoshi dal suo stato di inetto; qui, il ragazzino, mentre i suoi genitori sono intenti a squartare i bulli, che come delle furie lo hanno perseguitato nel corso di Visitor Q, andando anche a distruggere la sua cameretta “sterile”, decide di accasciarsi sul pavimento innaffiato dal latte materno e ringraziare il visitatore, che alla fine di questo dialogo scomparirà. Finalmente Miike svela l’identità del visitatore: un deus, non ex machina, ma portatore della macchina da presa, che sarà l’elemento schizofrenico deleuziano, in grado di ribaltare l’ordine costituito.
Il visitatore è poligamia2, è cinema3 ed è donna4. Scomparso l’elemento spirituale e moto del film, la giovane Miki tornerà nella sua casa, ormai insensibile al denaro e alla virilità, per ritrovare il proprio Io di madre allattante da sua madre, all’interno di una busta di plastica semi aperta, che ricorda il feto orbitante di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, a cui si unirà anche lei.
Attraverso questo piano americano, Takshi Miike abbandona in Visitor Q lo sperimentalismo obsoleto dell’amatorialità al fine di trovare un’inquadratura statica, che non solo rappresenta la rinascita di una società matriarcale, fino ad ora rimasta sottoterra, ma costruisce attraverso questa scelta, che quindi spezza la figura degli attori, un nuovo universo visivo simbolico, che si costituisce come corpo nonostante esso stesso vada a “tagliare” altri corpi.
1 Nella teoria linguistica di F. De Saussure (1857-1913), termine, contrapposto a parole, che designa il sistema lessicale e delle strutture grammaticali e sintattiche, cui si può per induzione risalire, partendo dagli atti di linguaggio individuali, concreti o contingenti.
2 La madre solo attraverso il tradimento riuscirà a liberarsi dallo schiavismo matrimoniale.
3 Aiuterà Kiyoshi a riprendere le sue geste violente, al fine di trovare se stesso nella sua impotenza civile, per scorire un io incivile, stupratore, maniaco omicida e necrofilo,
4 Non è un caso che il visitatore alloggi per tutto il film nella camera della giovane prostituta Miki, annoiata dal capitalismo. Ed proprio tramite questo abitare lo spazio della figlia perduta, che potrà assorbire l’amore mancato di Keiko e divenire neonato, poiché il suo tatto permettere l’incessante allattamento.
Il trailer di Visitor Q:
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