Anche con l'aiuto di Veronica Croce, esperta di usi e costumi del paese asiatico, cerchiamo di comprendere le difficoltà intrinseche che l'Italia ha nei confronti di prodotti che non hanno origine anglofona e perchè invece farebbe bene ad aprirsi di più
Parlare di Cinema è sempre arduo, soprattutto quando si vanno a toccare stilemi narrativi lontani dalle blasonate pellicole statunitensi. Ogni persona ha gusti diversi e una sensibilità che detta emozioni e sensazioni differenti a seconda del momento in cui fruisce di una produzione audiovisiva. Oltre a questo c’è un background di conoscenza che, per la maggior parte delle persone, è legato quasi esclusivamente al cinema statunitense, con qualche accenno ai film nazionali (i cinepanettoni campioni di incassi e qualche pellicola storica della commedia all’italiana). Eppure esiste un universo a noi quasi sconosciuto, una meravigliosa realtà di celluloide che dona emozioni da circa un secolo, un insieme di appassionanti vicende che spazia in numerosi generi, se non proprio tutti: è il cinema coreano, o meglio, sudcoreano.
Quel poco di Cinema asiatico che giunge da noi è visto con grande scetticismo e anche con una punta di superficialità. Questo non riguarda solo il cinema asiatico; paradossalmente in Italia non arriva – sul grande schermo – neanche molto cinema tedesco o spagnolo. Ovviamente questo scetticismo del pubblico ricade sulle case di distribuzione che non vogliono rischiare di perdere soldi distribuendo prodotti che solo in pochi andrebbero a vedere. Inoltre, visti i prezzi quasi proibitivi dei biglietti dei cinema nostrani, chi non ha un minimo di interesse verso il cinema asiatico difficilmente sarà attratto da una pellicola coreana. Il principio è semplice: se una persona deve spendere 8 o 10 euro per vedere un film, sceglierà qualcosa che conosce o che lo stimola. Su questo aspetto le case di distribuzione non possono far molto, ma è anche vero che secondo questo principio non è facile rischiare di perdere dei soldi distribuendo prodotti “di nicchia”; è un circolo vizioso ma con molta calma qualcosa si sta muovendo. Con la distribuzione anche solo per pochi giorni, in poche sale, forse qualcosa cambierà.
A differenza dell’Italia, in Inghilterra e in Germania, le case di distribuzione e il pubblico affrontano la cinematografia estera in maniera diversa. L’Inghilterra è uno dei paesi europei che per primo si è aperto al cinema coreano e ancora oggi, in molte sale minori, arrivano numerosi film prodotti a Seoul. Tutto questo è stato possibile grazie al London Korean Film Festival (medesima organizzazione del London East Asia Film Festival), che spinge il cinema coreano nelle sale tutto l’anno e non solo durante il periodo del Festival.
Il Far East Film Festival di Udine e il Florence Korea Film Fest di Firenze (dal 22 al 30 marzo 2018) sono stati di grandissimo aiuto per far conoscere la cinematografia coreana al pubblico italiano. Il FEFF ha una grandissima rilevanza mediatica e spinge con forza il cinema asiatico in generale, mentre il FKOFF, arrivato alla sua sedicesima edizione, ha fatto sì che molte persone venissero in contatto non solo col cinema ‘commerciale’ coreano, ma anche con la cinematografia indipendente che nei primi anni 2000 ha consacrato un regista come Hong Sang Soo, oggi riconosciuto in tutto il mondo e amato dai festival internazionali. Il pregio di questi festival è quello di avvicinare il pubblico a una cinematografia diversa, anche grazie a ospiti illustri. Queste kermesse crescono anno dopo anno e il cinema coreano sta godendo di una spinta in avanti: è merito loro se, per esempio, la RAI ha proposto cicli dedicati al cinema dell’Estremo Oriente.
Un film di guerra epico, strepitoso e magistralmente orchestrato dalle abili mani del regista, unico (quasi) nel suo genere, forse ancor più drammatico e intenso di Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg. Una pellicola più che coraggiosa, poiché obbliga il fruitore a immergersi veramente nel periodo in cui è ambientata la storia (la seconda guerra mondiale) dovendo fare i conti con ben quattro differenti lingue. Perché è sì un film coreano, ma per tre quarti della storia si parla giapponese (all’epoca la Corea era sotto il dominio dell’impero nipponico) poi in russo, in tedesco e infine anche qualche parola in inglese. Se questa vicenda fosse stata narrata dagli americani avrebbe vinto almeno cinque Oscar e sarebbe stata distribuita in tutto il mondo. Ma, ahimè, il suo destino è stato segnato dalla sua provenienza.
A questo punto sovviene allora spontanea una domanda: perché mai dovremmo riscoprire il cinema coreano? Sebbene il suddetto sia una realtà sin dal 1928, solo negli ultimi vent’anni ha saputo farsi largo nel mondo dell’intrattenimento globale, raggiungendo mete ambite come i festival europei di Venezia, Cannes e Berlino. Per molti sarà dunque una sorpresa scoprire che la Corea del Sud non produce solo smartphone, tecnologia varia e automobili impeccabili: a questa nazione va riconosciuta anche una splendida storia cinematografica! Sarebbe d’uopo redigere un saggio interamente dedicato alla sua cinematografia, poiché uno striminzito articolo come questo non può certo mirare a dare molte informazioni, tuttavia cercherò, anche se in poche righe, di dare una spinta alla curiosità delle persone maggiormente aperte di mentalità e gusti.
Qualche esempio? Il tremendo, ma ipnotico Old Boy (Park Chan-Wook, 2003, l’approfondimento) di cui ne è stato girato un remake dagli Stati Uniti da Spike Lee: non è per tutti, certo, ma ha aperto nuovi orizzonti a registi visionari (Quentin Tarantino incluso); l’intenso e diretto A girl at my door (2014) dell’esordiente July Jung, che andrebbe considerato per la sua strabiliante energia narratologica; oppure il noir che lascia col fiato sospeso a titolo Memorie di un assassiono (Bong Joon-Ho, 2004, la recensione); anche il poliziesco Cold Eyes di Cho Ui-seok e Byung-seo Kim(2013, remake di un film cinese a titolo Eye in the Sky), che ci propone un ritmo serrato e ben strutturato; lo spionaggio che mette a confronto le due Coree in un teatro europeo come quello tedesco col film The Berlin file di Ryoo Seung-wan (2013); A Hard Day di Kim Seong-hun (2014), intensa narrazione ove a un ufficiale di polizia capitano una serie di sfortunate circostanze, tutte nell’arco di una notte (che deve risolvere a rischio della propria carriera).
Ma è sempre stato così il cinema coreano?
Dagli anni novanta c’è stata una sorta di rivoluzione nel cinema di Seoul, poiché le pellicole americane, cinesi e giapponesi occupavano il 90% delle proiezioni locali. Un salto di qualità, un maggior coraggio e una spinta data dalla lungimiranza pregna di speranza per il nuovo millennio ha spinto quindi le case di produzione a investire in generi diversi: poliziesco, thriller, dramma, commedia, horror e azione. Alcuni film hanno poi carpito l’attenzione del pubblico e della critica locale (citiamo Nowhere to hide del 1999 e JSA del 2000), sfociano nella nascita di un nuovo modo di intendere e produrre cinema d’intrattenimento. Tutto questo ha portato a un risultato insperato: nel 2006 le pellicole locali erano in numero superiore a quelle straniere. Come mai Qui mi sono rivolto nuovamente alla conoscenza di Veronica Croce:
Nel 2006 i film coreani assunsero una quota di mercato del 64%, a dimostrazione dell’affetto del pubblico per le produzioni locali. Quell’anno ha visto anche l’abbassamento delle ‘Screen Quote’, ovvero i giorni in cui i film locali potevano essere distribuiti in sala: passarono da 146 a 76, questo credo abbia spinto il pubblico ad andare a vedere gli stessi film anche più di una volta. C’è anche da sottolineare che il prezzo del biglietto del cinema è molto più basso rispetto all’Italia e molti cinema hanno convenzioni molto favorevoli, quindi il pubblico è spinto ad andare a vedere (e rivedere) un film. Tre esempi lampanti molto recenti sono “Train To Busan”, “A Taxi Driver” e il nuovissimo “Along With The Gods”, che sono stati campioni d’incassi con una media di pubblico altissima per proiezione, a dimostrazione che in molti sono andati a rivedere i film più di una volta.
Netflix, citato sovente in questo articolo, è stato un veicolo importante per le produzioni coreane (e non solo). Nel catalogo sono stati inseriti lungometraggi e serie televisive. Commenta Veronica:
Non solo, Netflix ha dato anche il via all’acquisto e alla distribuzione di serie TV coreane che non avrebbero mai visto la luce in altre nazioni. Uno dei fenomeni indiscussi di quest’operazione è senza ombra di dubbio Stranger della TVN (che in verità, in originale, ha un altro titolo, ossia Secret Forest) che, lanciato la scorsa estate, ha avuto un seguito insperato che prevede ora un seguito prodotto dalla stessa piattaforma (sono rumor al momento, ma noi speriamo siano veri!). Il catalogo italiano però non dispone dei titoli presenti in altri paesi europei come Francia o Belgio, ma ci aspettiamo prossimamente una vera e propria ondata di nuovi audiovisivi made in South Korea.
Quindi non rimane altro da fare che sostenere i nostri festival nazionali e sperare che i distributori elargiscano più pellicole sudcoreane, che come qualità non hanno spesso niente da invidiare alle produzioni statunitensi. Che altro dire? Buona (ri)scoperta del Cinema coreano!
Di seguito alcuni trailer per ‘ingolosirvi’: