Voto: 7/10 Titolo originale: Crash , uscita: 17-07-1996. Budget: $9,000,000. Regista: David Cronenberg.
Rivisti Oggi | Crash di David Cronenberg (1996)
31/01/2018 recensione film Crash di Valeria Patti
Pulsione di morte e pulsione di vita, un'eterna lotta che esplode
Le strade. Traffico. Motori. Cinture di sicurezza. Sedili. Parcheggi. Sono tutti dettagli e posti che ci riportano in un unico luogo allegorico e non, motivo tornante e ritornante di un glossario visivo-emotivo che si associa nell’insieme dei dettagli: l’automobile. Una storia d’amore, una coppia che si presenta a noi, delineando le sue “ambigue” abitudini contornate da ossessioni e desideri. Ossessioni che causano ogni movimento, ogni dettaglio, ogni parola e dialogo tra questi personaggi alienati che compongono la pochezza del vuoto che circonda ogni elemento in uno spaccato di realtà quasi del tutto assente. Una storia d’amore. Non banale, non classica.
Capiamo sin da subito che la coppia composta da James Ballard (James Spader) e Catherine Ballard (Deborah Kara Unger) vive il matrimonio in modo aperto. Entrambi hanno storie di sesso con colleghi del proprio contesto lavorativo. Tutto scorre, forse con un po’ di indifferenza, noia e pochezza di spirito; questo scorrere inesorabile del tempo ci dà la sensazione che tale relazione sia un continuo ripetersi con gli stessi eventi occasionali, contornati da domande di rito come “sei venuto?”, domande e risposte inserite in una quotidianità in continua ripetizione.
La routine sulla routine. Necessario qualcosa di estremo e violento per dare una scossa al grigiore apatico. Così, improvvisamente, il signor Ballard ha un incidente d’auto piuttosto violento: lui sopravvive e il secondo interessato muore post incidente, ma in ospedale rimane incuriosito dalla vedova dell’uomo, una certa Dott.ssa Helen (Holly Hunter).
I due si sentono quasi immediatamente attratti uno dall’altra, instaurando un rapporto che non dà troppo spazio alle presentazioni. Helen prenderà per mano James fino a fargli conoscere un gruppo di individui (una specie di setta), capitanati da un personaggio ambiguo e inquietante che risponde al nome di Vaughan (Elias Koteas), un fotografo ossessionato dagli incidenti stradali e dalla gestione del traffico computerizzata, reduce da un brutto incidente che lo ha segnato e che vive quell’esperienza come una sorta di rinascita, le cui cicatrici sono diventate parte della sua persona. Le vive, le enfatizza e quindi le accetta. Queste cicatrici lo identificano divenendo un biglietto da visita e presentando loro, presenta se stesso rendendo omaggio a tutto ciò che lui stesso rappresenta.
Vaughan vive la sua vita in una macchina e spesso è preso a interpretare senza finzione incidenti stradali rimasti impressi nella storia come ad esempio quello di James Dean: noi stessi ne siamo spettatori e come il pubblico pagante coinvolto all’interno della sequenza, diveniamo noi stessi parte dello spettacolo.
L’incidente e gli incontri con queste persone porteranno nella coppia una spasmodica ricerca ossessiva tra sesso e pericolo, piacere e rischio, dove il corpo può trovare l’apoteosi dell’estasi sessuale attraverso il rischio di morte. Un connubio tra macchina e corpo dove è possibile, o almeno i personaggi lo auspicano, fondersi, fino a cedere il controllo alle pulsioni primordiali legate però a uno strumento moderno che tangibilmente fa parte della vita di tutti.
Con queste premesse troviamo uno dei concetti più importanti di Sigmund Freud, messi in atto da David Cronenberg con vigile attenzione al dettaglio: Eros e Thanatos. La pulsione di vita e la pulsione di morte. Nella prima troviamo la libido e la pulsione di autoconservazione, la tendenza armoniosa a costruire un ruolo nella comunità; nella seconda tendenze distruttive il cui senso principale è l’odio e il disfacimento del tutto.
Una profonda lotta che costituisce l’essere umano e che in Crash entra in collisione continuamente. Uno scontro che implode nella sua massima esposizione con gli incidenti brutali, negli scontri frontali che lasciano spazio solo al continuo distruggere. Non esiste altro.
Legato a tutto questo è inevitabile associare il concetto di sublimazione: quel meccanismo per cui spostiamo su un altro oggetto la pulsione per qualcosa che ci sfugge (in tal caso le macchine), da cui si può collegare la continua insoddisfazione esistenziale che attanaglia ognuno di loro, anche se per motivi diversi non importa, ciò che spinge questi esseri sono moti silenziosi insiti nella psiche. I personaggi che si delineano con lo scorrere della storia sono schiavi di loro stessi. Essi si muovono nell’illusione di essere vivi solo attraverso la pulsione e il desiderio riflesso nelle loro fantasie, le stesse che li nutrono fino a farli logorare.
Il film del 1996 – ispirato all’omonimo romanzo di James Graham Ballard del 1973 – è sicuramente un’esperienza visivo-emotiva estremamente forte, l’intensità che smuove i personaggi è palpabile fin fuori dallo schermo. Hanno un’esistenza dualistica che li divide, ma nulla è parallelo, sono due direzioni che inevitabilmente si uniscono alla fine del percorso.
Da una parte combattono contro una realtà che da quel che si evince essere quasi assente, non vediamo mai cosa c’è intorno, esistono solo le strade, le luci e le macchine, mentre dall’altra la voglia degli stessi di abbattere tale dimensione conducendo in prima persona senza remore gli obiettivi per la spasmodica ricerca del piacere e da tutto ciò che ne concerne. Un’unione tra sesso e tecnologia. Non rimaniamo sconvolti dalla brutalità degli eventi, dalla violenza e dal sesso, rimaniamo sconvolti per ciò che ci racconta a riguardo.
Un coraggio raro che David Cronenberg usa conducendo l’intera storia con freddezza, aiutato da una fotografia il cui tono dominante è il blu. Non gli interessa mettere in scena i sentimenti o le dinamiche dei rapporti, gli interessa ciò che lega i personaggi.
Incastrati da nodi impossibili da slegare, stretti da un unico filo conduttore, narcotizzati, riescono a connettersi solo col desiderio. Perché l’ossessione e il sesso sono le uniche cose che li rende illusionisticamente liberi, perso il contatto con una realtà che ci appare standard ma che potrebbe essere ambientata in un futuro prossimo dove le persone ambiscono a fondersi con le macchine, trovando in esse l’appagamento finale.
E’ importante capire che nonostante tutto, ciò che rimane fondamentale ai fini della storia è la psicologia dei personaggi, seppur complessa e spesso respingente, ed è necessario rendersi conto che sono loro il fulcro della vicenda e non le macchine. Sono i meccanismi psicologici che li spingono in ogni loro azione.
Le macchine sono il mezzo, lo strumento che viene usato, aderito con un’eccellenza sporca e mutabile verso il continuo degenerare di ognuno di loro. Gli incidenti raccontati sono brutali. Mai romanzati, non esiste una sola sequenza del film che ne ritrae l’impatto in rallenty, sono diretti, veloci.
Non perde tempo a raccontare il dramma dell’incidente, usa la velocità allo scontro per poi dare spazio alle reazione emotive che da esso ne possono scaturire. Lo stesso fa con i rapporti sessuali, quasi mai i personaggi si guardano in faccia, sono più coinvolti dall’atto e da ciò che ne rappresenta, non è importante chi fa cosa e con chi, ma il perché e come.
E’ difficile comprendere il discorso che David Cronenberg riesce a fare; è difficile, ma soprattutto non immediato. Noi stessi ci troviamo divisi tra la morbosità e il dovere etico di respingere il connubio tra violenza e sesso. Arriviamo però a un punto in cui non ci interessa più giudicare ‘eticamente’ quel che vediamo, arriviamo a un punto in cui ci interessa principalmente capire fin dove queste persone riusciranno a spingersi.
Spesso il cinema del regista canadese è fatto di immagini forti che sollecitano le fantasie insite in ogni essere umano, utilizza il torbido proibito per raccontare spaccati di realtà imperfette giocando con alterazioni visive, portando all’estremo i concetti instaurando un rapporto particolare con lo spettatore. Lo mette alla prova. Superare tutto ciò significa essergli complice e quindi arrendersi a un cinema affascinante, intelligente, ed esistenziale.
Astrazioni angoscianti con tematiche nichiliste e spesso surreali. La relazione tra i concetti latenti e le immagini forti entrano in collisione, il non detto si completa con quel che vediamo, perché spesso nelle sue storie la forma visiva diviene più di impatto, rispetto alle tematiche che non sono mai semplici.
E’ un cinema fatto di contenuti silenziosi, non immediati, che ci lasciano frastornati ed estraniati. Il body horror che esplora il terrore e lo sgomento umano attraverso la mutazione fisica del corpo, dando spazio a elementi psicologici contrastanti. Anche in Crash è presente seppur in forma meno “spettacolare”: usa i dettagli, le forme, le cicatrici (la cosa più esplicitamente cronenberghiana è la ferita vaginoforme di Rosanna Arquette che interpreta Gabrielle, una donna che compone il gruppo-setta), i respiri affannati dinanzi a un auto, che imperfetta e ammaccata regala in loro tumulti ancor maggiori, perché lesa, distrutta e quindi vissuta. Non è un corpo meccanico indistruttibile.
La macchina come massima proiezione della psiche, che altro non è che il fittizio e la fragilità dell’essere.
Di seguito il trailer di Crash:
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