Taron Egerton è lo sventurato protagonista di una rilettura insulsamente revisionista, tanto assurda quanto spudoratamente pressapochista, delle prime avventure del principe dei ladri
E’ quasi la fine di novembre, il che vuol dire che siamo vicini a tirare le somme di questo 2018 per quanto riguarda i film da dimenticare e quelli che nemmeno si ricorda di aver visto (sia perchè dopo un po’ si perde il conto, sia perchè la memoria selettiva aiuta a resettare dal disco fisso quelli indegni). Quando si pensava che il peggio – a volte il baratro – fosse alle spalle, a tendere quello che chi scrive si augura sarà l’ultimo infido tranello dell’anno è il regista britannico – esordiente al lungometraggio cinematografico – Otto Bathurst col suo Robin Hood – L’origine della Leggenda, imbarazzante versione revisionista delle avventure del mitico eroe di Sherwood di cui diventa complesso salvare anche un solo aspetto.
E’ vero, ci sono innumerevoli testimonianze a Hollywood e dintorni di film su Robin Hood ben poco felici, ma qui si raggiunge un nuovo apice, lambendo il ridicolo fin dai primi istanti, nonostante un moderato e malsano interesse per come potrebbe esser stata sviluppata la vicenda che trascende i poco rassicuranti trailer promozionali.
La prima evidenza è che l’approccio sovversivo all’eroe incappucciato è fondamentalmente quello di renderlo non tanto Harrow, ma Bruce Wayne / Batman, salvo dimenticarsi di dargli una backstory interessante. Interpretato dal 29enne Taron Egerton (Kingsman), Robin di Loxley è lo scapolo più bramato della contea di Nottingham. Orfano imbottito di soldi che vive in una fortezza che domina una città mineraria (si estrae carbone, già …), il giovane passa il suo tempo a perfezionare il suo costume da cosplayer di Assassin’s Creed mentre gironzola per le stalle del quartiere.
Più che gli averi, sembra soprattutto interessato a rubare i cuori – quello della ladra popolana Marian in particolare (Eve Hewson, lontanissima dai fasti della serie The Knick). Purtroppo, non appena la storia tra i due comincia a farsi seria, Robin riceve il foglio d’arruolamento – è letteralmente stampato a caratteri cubitali sopra il pezzo di carta inchiodato sulla porta … – per le temibili Crociate. È solo il primo di molti deplorevoli e inspiegabili tentativi con cui gli sceneggiatori Ben Chandler e David James Kelly e Otto Bathurst – già apprezzato per l’episodio pilota di Black Mirror e la prima stagione di Peaky Blinders – cercano di sovrapporre elementi alieni afferenti alla modernità a un contesto medievale.
Un pensiero carino e importante da rilanciare, se non fosse affrontato con un pressapochismo e una faciloneria disarmanti. Le cose peggiorano dopo che Robin è ritornato con disonore nella natia Inghilterra, portandosi con sé un clandestino, un guerriero saraceno a cui aveva cercato di salvare il figlio dall’esecuzione, che – conoscitore forbitissimo della lingua inglese – si auto rinomina John, per venire incontro alle limitate capacità verbali degli albionesi (Jamie Foxx),
Marian (niente affatto Lady), pensando che l’amato sia morto nelle Crociate anni prima, ha intanto trovato lavoro nelle miniere, dove si occupa di sfamare gli operai vestendo giacche in pelle direttamente dalla collezione primavera estate della Milano Fashion Week e abusando del mascara, forse per fare pendant coi visi anneriti dei disgraziati che scavano tutto il dì in previsione dell’arrivo del primo treno a vapore 500 anni più avanti.
Nel frattempo, il viscido e corrotto sceriffo di Nottingham (Ben Mendelsohn, che invece ha optato per lo stesso guardaroba di Rogue One: A Star Wars Story) cospira in associazione con alti esponenti della Chiesa cattolica alle spalle della gente comune, seminando il panico inneggiando a possibili invasioni di orde straniere sul sacro suolo britannico (i riferimenti a Donald Trump si sprecano anche qui).
Come anticipabile, Robin non solo si risistema nella sua cara vecchia Villa Wayne espropriata – ma poi per qualche ragione sconosciuta lasciata cadere in rovina – ma nel giro di un paio di stacchi di montaggio riservati al tipico addestramento alla Rocky Balboa in compagnia del Maestro Jedi John, diventa l’imbattibile leader indiscusso della Resistenza, rapinando i luoghi simbolo del potere e ridistribuendo i beni ai bisognosi. Viene presto soprannominato The Hood – cappucci vengono inchiodati ai muri della città, un po’ come le V cerchiate di V per Vendetta – e diventa il volto ignoto della rabbia sociale del sottoproletariato a furia di frecce scoccate a tre alla volta saltando a testa in giù dai palazzi verso tutto ciò che si muove.
Dovrebbero essere i punti di forza se non altro di Robin Hood – L’origine della Leggenda, ma queste scene action – spesso in slow-motion – sono non soltanto incorniciate da effetti speciali dozzinali, e soprattutto girate in modo tale da rendere incomprensibile quando iniziano e, peggio ancora, il motivo per cui stanno accadendo (prendete ad esempio principe l’inseguimento a cavallo nel quartiere minerario e poi sui tetti).
Non bastasse, Ben Chandler e David James Kelly si sono superati nel tentativo di gettare le basi per una saga vera e propria, magari un universo cinematografico, un locus amoenus dove Little John e Frate Tuck (Tim Minchin) – forse il personaggio più sconcertante del mazzo – possano fraternizzare amabilmente come vecchie canaglie pronte a ‘unirsi’ in battaglia. Più incredibile di questa sconsiderata fiducia – ma le proiezioni test le hanno fatte solo per The Predator? – è solo l’idea che qualcuno vorrà davvero vedere, dopo aver già gettato 120 minuti della propria esistenza, come proseguirà la storia.
In attesa di vederlo nei nostri cinema dal prossimo 22 novembre, di seguito trovate il full trailer italiano di Robin Hood – L’origine della leggenda: