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Voto: 5/10 Titolo originale: The Conjuring: Last Rites , uscita: 03-09-2025. Budget: $55,000,000. Regista: Michael Chaves.

The Conjuring – Il rito finale: la recensione dell’ultimo film dei Warren

03/09/2025 recensione film di Gioia Majuna

Un horror stanco e prevedibile, tra nostalgia, jump scare ripetuti e poca originalità

Vera Farmiga e Patrick Wilson in The Conjuring il rito finale (2025)

Conjuring – Il rito finale (The Conjuring: Last Rites) arriva come nono tassello della saga e porta con sé il peso degli anni. Più che un esorcismo, sembra un congedo: Ed e Lorraine Warren tornano in scena esausti, segnati dal cuore malandato di lui e da visioni che non scuotono più come una volta lei.

L’ambientazione nel 1986 funziona da cornice nostalgica, tra battute su “acchiappafantasmi” e sale universitarie semivuote, ma sotto la patina d’epoca si avverte la stanchezza di un impianto che ripete se stesso. La struttura bifronte è il primo nodo: da un lato la famiglia Smurl, terrorizzata da uno specchio intagliato che sembra un varco per il male; dall’altro la figlia dei Warren, Judy, ormai adulta, promessa sposa e chiaroveggente suo malgrado.

Due linee narrative che faticano a intrecciarsi e che divorano tempo: la durata gonfiata diluisce la tensione, i “salti sulla sedia” arrivano annunciati, l’attesa per l’ingresso dei Warren nel caso è eccessiva.

Sul piano tematico il film tenta l’azzardo più interessante: spostare l’ossessione dello sguardo dal “mostro in casa d’altri” alla minaccia che aggredisce la famiglia protagonista. È qui che Il rito finale prova a ricucire la propria identità: non più soli mediatori tra umano e demoniaco, ma vittime designate di un assedio che mette in discussione fede, memoria e ruolo genitoriale.

L’idea, però, rimane spesso teoria. Quando il racconto si concentra su Judy, il suo arco sembra oscillare fra damigella in pericolo e erede designata: Mia Tomlinson ha presenza, ma il personaggio è scritto per spingerla in situazioni rischiose più che per farla crescere davvero. Ne deriva uno slittamento d’asse paradossale: la coppia iconica resta a guardare mentre la loro eredità narrativa viene dichiarata, più che dimostrata.

The Conjuring Il rito finale wilson filmLa regia di Michael Chaves è funzionale ma raramente incisiva. Manca la scossa di messa in scena che, agli inizi, dava forma all’angoscia con movimenti di macchina e tempi del quadro sorprendenti: qui la grammatica del terrore è scolastica, la casa infestata è buia quando deve esserlo, la torcia ritaglia coni di visione prevedibili, gli spaventi a scatto arrivano puntuali ma senza invenzione. Una sequenza spicca: il camerino nuziale che si moltiplica in un labirinto di specchi, dove identità e riflessi si confondono.

Per il resto dominano corridoi, soffitte, scale – e le scale, nel finale, diventano quasi un’ossessione, metafora involontaria di un’ascesa faticosa verso un epilogo dovuto. L’immagine più onesta del film è forse la “stanza degli artefatti”: un museo di reliquie che vive di rimandi interni. Ci si torna spesso, si riapre la teca di Annabelle, si sollecita il ricordo: è la macchina della saga che alimenta se stessa, più che il presente del racconto.

Sul fronte attoriale, Patrick Wilson continua a trovare sfumature nel suo Ed, un uomo che crede perché ha scelto di credere, non perché vede. La sua testardaggine affettuosa regala umanità a un ruolo altrimenti meccanico. Vera Farmiga, invece, è penalizzata: Lorraine resta magnete emotivo ma le viene concesso poco da giocare, spesso ridotta a reagire con il volto mentre l’intreccio le passa accanto. La loro alchimia rimane il cuore della saga: due amanti contro il mondo, fedele ritornello che qui si canta ancora, con voce meno fresca.

Dal punto di vista della scrittura, The Conjuring – Il rito finale avanza tra strizzatine d’occhio al passato e ripetizioni. Il prologo del 1964—nascita di Judy e primo incontro con lo specchio maledetto—è efficace e ben recitato, ma resta un’isola. Il presente torna di continuo su figure e artifici iconici: bambole, giocattoli, riflessi, temporali, fulmini che punteggiano i picchi emotivi. Sono elementi che rassicurano il pubblico affezionato, ma che al tempo stesso rivelano la distanza dalla nuova ondata dell’horror, dove messa in scena e metafora cercano strade meno battute. Qui prevale la liturgia: preparazione, apparizione, scatto sonoro, fuga, benedizione. Da saga familiare dell’orrore a rito familiare dell’abitudine il passo è breve.

the conjuring il rito finale film 2025Eppure, proprio nell’intreccio tra melodramma domestico e demonologia, il film mostra la sua natura più autentica: una favola cattolica sul valore della fiducia e sulla trasmissione di un compito. Quando abbraccia senza pudore questo impianto – il pranzo in giardino, la benedizione, l’idea che il male si vince insieme – Il rito finale ritrova un’emozione semplice, magari ruffiana, ma coerente con l’immaginario che ha costruito in dodici anni. Quando, invece, cerca la vertigine con gli stessi strumenti di ieri, l’effetto è di deja-vu.

Vale la pena vederlo? Per chi cerca la chiusura del cerchio con Ed e Lorraine, sì: c’è una dolcezza di commiato, ci sono richiami, volti amici, la sensazione di congedarsi da personaggi entrati nell’iconografia pop. Per chi desidera terrore nuovo, la risposta è più tiepida: l’energia si è rarefatta, la paura si è fatta rituale. Come film della saga, The Conjuring – Il rito finale è un congedo affettuoso; come cinema dell’orrore, è un gesto di mantenimento. Se l’intenzione era passare il testimone alla nuova generazione, allora il vero esorcismo che resta da compiere è quello contro l’autocompiacimento: liberarsi del museo e tornare a rischiare. In caso contrario, più che un’ultima unzione, sarà un eterno ritorno.

Di seguito trovate il full trailer doppiato in italiano di The Conjuring – Il rito finale, nei nostri cinema dal 4 settembre: