Matthew McConaughey e America Ferrera sono i protagonisti di cinema d’azione civile di grande impatto, zavorrato però da un prologo melodrammatico e da poca incisività sulle responsabilità sistemiche
Il punto di forza de The Lost Bus è la sua capacità di farci respirare la stessa aria irrespirabile dei protagonisti. Paul Greengrass riprende la sua grammatica del caos controllato – macchina a mano, montaggio nervoso, prossimità fisica ai corpi, suono che schiaccia – e la applica a un disastro reale in cui il vento sembra un regista invisibile e il fuoco un personaggio dotato di volontà. In questo, il film trova un consenso quasi unanime: la messa in scena dell’inferno è avvolgente, spietata, quasi ipnotica.
Le lingue di fuoco, i tizzoni trasportati dalle raffiche, il cielo che si fa curcuma e poi notte in pieno giorno: l’immagine lavora non per “spettacolarizzare” ma per far percepire come una città diventi trappola nel giro di pochi minuti. È il cinema come esperienza sensoriale, e qui Greengrass resta un maestro. Peccato vederlo su Apple TV+.
Quando si sposta dal macro al micro, il discorso si fa più divisivo. La scelta di concentrare il racconto sulla corsa di un autista scolastico e di un’insegnante che proteggono una classe di bambini ha un’evidente forza drammaturgica: offre un punto d’ancoraggio emotivo e un dispositivo narrativo chiaro (uscire vivi, insieme, da un labirinto in fiamme). Matthew McConaughey incarna un uomo in frantumi che ritrova un’etica pratica nella cura degli altri; fa parlare il corpo, la voce, i silenzi più delle parole. America Ferrera porta calore, fermezza, dignità operosa: è il contrappunto che umanizza la tensione, la figura che protegge i piccoli mentre non nega la propria paura. Le due prove funzionano in parallelo: lui come barometro dell’urgenza, lei come scudo morale.
Lì, quando l’autobus entra nel vortice – traffico bloccato, visibilità azzerata, calore che sfianca, deviazioni che si chiudono – il film ritrova la propria misura: il montaggio diventa respirazione affannosa, il suono martella, i punti di vista oscillano tra l’abitacolo e il fronte del fuoco, la geografia si fa minacciosa. Una sequenza su tutte – l’insegnante che scende a cercare acqua mentre l’aria si fa cenere – mostra come l’azione possa restare leggibile pur nella confusione, e ferire senza compiacimento.
Sul piano visivo, gli effetti digitali non sono tutti allo stesso livello: alcune immagini in pieno giorno e i primi tentativi di contenimento tradiscono l’artificio; quando però l’autobus è inghiottito da fumo e fiamme, la resa diventa impressionante e l’illusione pienamente credibile. Anche qui, Greengrass lavora a strappi: alterna segmenti di “attesa tesa” a fughe disperate, fino al passaggio in cui la strada è un corridoio di brace e le carcasse d’auto sembrano pietre miliari dell’apocalisse.
Il film sfiora – senza affondare – la responsabilità sistemica. La scintilla che accende la tragedia è evocata, la presenza dell’ente elettrico appare goffa e tardiva, ma la vera inchiesta sui perché resta sullo sfondo. È una scelta deliberata: privilegiare l’immersione e la cronaca minuto per minuto, cioè l’impatto, a scapito dell’analisi del “prima” (prevenzione, infrastrutture) e del “dopo” (ricostruzione, giustizia). Alcuni spettatori sentiranno questa mancanza come un limite: nelle storie di disastri collettivi, l’eroismo individuale è necessario ma non sufficiente a esaurire il senso politico. D’altro canto, con una sola battuta di un capo squadra che ammette l’esaurimento dei mezzi e la priorità di salvare vite, dice molto sul presente: l’emergenza è la nuova normalità, e le risposte non sono all’altezza della frequenza e della scala degli eventi.
Laddove The Lost Bus eccelle è nella gestione dello spazio e dell’attenzione. L’atrio della scuola, il piazzale, le strade che si trasformano in imbuto, i parcheggi invasi: ogni ambiente diventa un test di decisione, ogni deviazione un azzardo calcolato. La regia non perde mai il filo del tragitto, e questo permette di mantenere chiara la posta in gioco: il tragitto è la trama. L’alternanza con la sala operativa dei vigili del fuoco, tra mappe, ordini urlati e linee che cadono, offre il contrappunto strategico: anche lì, l’azione è azzoppata da un contesto più grande (vento, siccità, ritardi) che non si governa.
Resta il bilancio: virtù grandi e limiti evidenti. Virtù: un cinema fisico che restituisce l’angoscia del tempo reale; due protagonisti di rara empatia; un uso del suono e dell’immagine che traduce il disastro in sensazione; il fuoco elevato a antagonista senza perdere radici nella realtà. Limiti: un primo atto prolisso e compassato nella sfortuna programmata del protagonista; una timidezza nell’indicare con chiarezza le responsabilità strutturali; qualche crepa nella verosimiglianza visiva alla luce del sole.
Eppure, quando il film prende la strada, il resto sfuma: ciò che resta è la corsa di un autobus in cui si decide il senso stesso del cinema d’azione civile, la sua capacità di farci condividere una paura reale e, insieme, un’ostinata volontà di salvezza.
Di seguito trovate il full trailer internazionale di The Lost Bus, a catalogo dal 3 ottobre: