Horror & Thriller

The Surfer: la recensione del film di Lorcan Finnegan con Nicolas Cage

L'attore affronta un delirio australiano sulla mascolinità e la perdita di controllo in un thriller psicologico tra cult e parodia

The Surfer di Lorcan Finnegan (Nocebo, Vivarium) si presenta come un’allucinazione psicologica travestita da thriller solare, una pellicola che mette in scena il lento disfacimento di un uomo borghese di ritorno alle origini, trasformando una spiaggia australiana in un inferno a cielo aperto.

Protagonista assoluto è Nicolas Cage, qui ancora una volta in stato di grazia parossistica, nei panni di un padre di mezza età tornato nella cittadina costiera della sua infanzia con due obiettivi: riscoprire il legame col figlio adolescente e riappropriarsi della vecchia casa di famiglia. Ma il viaggio si trasforma presto in un incubo di esclusione e umiliazione, quando una gang di surfisti locali – i Bay Boys – lo caccia brutalmente dalla spiaggia con il mantra “Don’t live here, don’t surf here”. Da quel momento inizia una spirale discendente fatta di stasi, paranoia, temperature roventi e smarrimento identitario.

Il film, pur ambientato in un contesto specificamente australiano (ma visto attraverso occhi irlandesi, quelli di Finnegan e dello sceneggiatore Thomas Martin), si colloca in una tradizione cinematografica che comprende titoli come Wake in Fright, Straw Dogs, Walkabout e The Swimmer, tutti accomunati dal tema del protagonista maschile che, messo alle strette da un ambiente ostile, viene costretto a confrontarsi con le proprie maschere sociali e il proprio crollo psichico.

A differenza di queste opere, però, The Surfer fatica a trovare una coerenza drammaturgica che giustifichi il suo delirio stilizzato. Se l’atmosfera iniziale – fatta di panorami abbaglianti, carrellate lisergiche e una colonna sonora ipnotica – promette una riflessione sul disorientamento esistenziale, col passare dei minuti il film si arena su una struttura episodica, dove ogni umiliazione subita dal protagonista viene reiterata senza evoluzione narrativa.

Cage, accreditato solo come “Il Surfista” del titolo, diventa progressivamente un’icona derelitta, ridotto a vivere nel parcheggio della spiaggia, circondato da cani feroci, detriti, escrementi e rituali notturni tra il pagano e il goliardico. La perdita progressiva di oggetti – il cellulare, l’auto, il denaro – simboleggia la disintegrazione del suo status sociale, mentre il rapporto con il figlio si frantuma senza possibilità di riconciliazione.

Il film sembra voler mettere in discussione la mascolinità contemporanea, tra nostalgia, fallimenti e la fragilità dell’uomo moderno che tenta, invano, di riprendere il controllo sul proprio passato e sul proprio spazio. Ma questa critica viene espressa con toni così urlati e semplificati – dal guru tossico Scally che incarna la mascolinità alfa, alla ritualizzazione della violenza tra maschi – da diventare parodia involontaria.

Nel ruolo di Scally, Julian McMahon offre una performance inquietante e caricaturale al tempo stesso, incarnando un mix tra Jordan Peterson da spiaggia e cultista di un’ideologia darwinista distorta. Il suo controllo psicologico sulla gang rende il film vagamente distopico, ma mai davvero perturbante. Gli inserti horror (il cappuccio rosso da inquisitore, i rituali notturni, i dialoghi oracolari) non riescono a sedimentare una tensione coerente. E nemmeno i frequenti flashback – tra lutti infantili, padri assenti e famiglie disgregate – riescono a dare profondità psicologica al Surfista: l’uomo resta una proiezione, una metafora, più che un personaggio.

Ciò che regge The Surfer è ancora una volta Nicolas Cage, vero baricentro espressivo della pellicola. Il suo percorso dalla compostezza impacciata al delirio ferale è un viaggio attoriale che rasenta l’autoparodia per scelta, ma che conserva una vena tragica, quasi beckettiana. La celebre scena in cui “parla con un topo morto” – o meglio, decide di non mangiarlo – va dritta nel pantheon cageiano come nuovo meme cult, ma porta con sé anche un dolore surreale, un grottesco che sfiora il sublime. Tuttavia, il film si affida troppo a lui, trasformandolo nel suo unico elemento identitario. Il rischio, in questi casi, è che Cage diventi un effetto speciale umano, un catalizzatore di bizzarria che permette alla regia di non sporcarsi davvero le mani con la follia che mette in scena.

In confronto con altri film recenti con Cage – Pig, Mandy, Longlegs – The Surfer è meno compatto e meno centrato tematicamente. Dove Mandy sublimava l’eccesso in opera visionaria e Pig costruiva una parabola minimalista sull’elaborazione del lutto, qui la forma psichedelica si sgretola in un’orgia di umiliazioni gratuite e simbolismi troppo espliciti. Anche i momenti di comicità involontaria (le citazioni da Ratatouille, il surf come metafora di vita, le scenette col barista che non lo riconosce) sembrano appoggiarsi su un’ironia che il film non sa gestire fino in fondo.

Il problema centrale di The Surfer è che non sa scegliere se essere una parabola esistenziale sulla crisi del maschio postmoderno o una discesa allucinata nella psicosi da sole e solitudine. E nel tentare di essere entrambe, finisce per sacrificare la forza narrativa di entrambe le direzioni. La messa in scena è affascinante, la fotografia è coerente nel suo stile ipersaturo, e la colonna sonora di François Tétaz gioca bene con il contrasto tra epica surf e tensione astratta, ma tutto questo non basta a tenere in piedi una sceneggiatura che gira a vuoto.

Il finale – incerto tra vendetta sanguinaria e redenzione ironica – è l’ennesima dimostrazione di un’ambizione non sorretta da decisioni formali forti. L’impressione è che il film voglia insieme esaltare e criticare la figura di Cage, omaggiarla e decostruirla, ma senza mai scegliere un punto di vista. The Surfer è allora un’opera metacinematografica solo a metà: è un film che parla dell’essere “outsider”, ma fatto da outsider (irlandesi) su un contesto australiano che resta esotico, mai realmente interrogato, né storicizzato (l’assenza totale di riferimenti alle popolazioni aborigene è significativa in tal senso).

In conclusione, The Surfer è un film che promette molto e mantiene poco. È visivamente intrigante, interpretato con dedizione assoluta da Nicolas Cage, ma narrativamente disarticolato, concettualmente confuso e privo del coraggio politico o simbolico che l’avrebbe reso un vero cult. È un’onda di possibilità che si infrange troppo presto, lasciando solo la schiuma del potenziale sprecato.

Di seguito trovate il trailer internazionale di The Surfer:

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Published by
Marco Tedesco