Continua la disamina del percorso personale del regista, cercando di capire perché il film del 1995 sia uno dei più importanti film sci-fi usciti negli ultimi 25 anni
L’esercito delle 12 scimmie (12 monkeys, 1995 è, insieme a Paura e delirio a Las Vegas (1998), il film più conosciuto di Terry Gilliam, uno dei suoi pochi “blockbuster”. Nonostante ciò, il regista angloamericano non si piega alle regole del mercato o alla moda degli action anni Novanta: anzi, fa tutto quello che reputa necessario a rendere la pellicola personale, oltretutto mettendo in scena uno script non suo, ma di Janet Peoples e sopratutto di David Webb Peoples, già sceneggiatore dei capolavori Blade Runner (1982) di Ridley Scott e Gli Spietati (1992) di Clint Eastwood (il soggetto invece viene dal cortometraggio fantascientifico, vincitore di numerosi premi, La Jetée di Chris Marker del 1962, composto da una successione di foto, ritmata dalla colonna sonora).
Tutte le prove di colpevolezza portano a un gruppo ecologista, l’esercito delle 12 scimmie appunto, che avrebbe diffuso il contagio per liberare la Terra dagli esseri umani, responsabili di immani catastrofi. Le vicende si susseguono sballottando il protagonista tra diversi piani temporali, portandolo prima in un manicomio nel 1990, nel quale incontra gli altri personaggi fondamentali nella pellicola, ovvero Jeffrey Goines (Brad Pitt), uno dei malati e futuro fondatore delle 12 scimmie, e la dottoressa Kathryn Railly (Madeleine Stowe), psichiatra ed esperta di malattie mentali.
Successivamente verrà mandato nel 1996, pochi mesi prima dall’inizio dell’epidemia: inizialmente convincerà con la forza la dottoressa a collaborare insieme a lui, ma poi lei stessa si renderà conto di credergli, mettendo in moto una catena di eventi che condurranno ad un finale struggente.
Le prime immagini ci dicono subito una cosa: il mondo dopo il virus è peggiorato. La comunità che abita sottoterra, l’1% dell’umanità, è una dittatura governata da pochi scienziati, nella quale la popolazione comune non viene mostrata. Vengono messi in scena solo gli estremi: i capi da un lato e i detenuti dall’altro. I prigionieri sono cavie, privati di qualsiasi volontà, costretti a essere volontari (qua sta il primo paradosso, come in Brazil, di un comparto governativo assolutamente senza umanità) di missioni pericolose, sia in superficie, sia nel passato.
I carcerati vengono prelevati da celle tutte ammassate, in un ambiente metallico e ostile, opprimente, claustrofobico, sperando di non essere scelti per gli incarichi di recupero informazioni, fatto che potrebbe comportare nella maggior parte dei casi la morte. I luminari invece sono imperscrutabili, non vengono caratterizzati psicologicamente, se non in qualche tratto, proprio per rendere al meglio quella sensazione di ineffabilità e misticismo derivata dalla loro conoscenza e posizione.
Se Stanley Kubrick componeva una sequenza geometricamente perfetta, anche a livello di luci, mettendo in evidenza l’armonia tecnica dell’astronave, Gilliam opta per un “corridoio” malridotto, sporco, in evidente stato di semi-abbandono, nel quale i pannelli che lo tengono in piedi sembrano solo rattopparlo.
Nel 2035 gli animali sono padroni del mondo esterno: leoni, elefanti, orsi e molti altri gironzolano liberamente per le strade deserte, dove sui muri campeggiano simboli delle 12 scimmie e la scritta “We did it” (Gilliam e Roger Pratt, di nuovo scelto come direttore della fotografia, si focalizzano ancora una volta, come in Brazil, su loghi e frasi, cercando di mettere lo spettatore davanti a tutta la loro potenza espressiva), e per i palazzi, ormai disabitati e fatiscenti.
Qui, sottoposto ad analisi, viene considerato malato dai dottori, visti i suoi continui riferimenti alla fine del genere umano, e gli vengono quindi somministrati ripetutamente dei medicinali. L’unica a nutrire qualche dubbio è la dottoressa Railly che, pur confermando la sua malattia, ha il sentore di aver già visto o conosciuto il protagonista. All’interno dell’istituto James incontra Jeffrey, un vero malato di mente, portatore di teorie bislacche e tendenze omicide.
Gilliam critica i manicomi, vedendoli come dure prigioni dove i pazienti sono trattati malissimo, mentre invece sarebbero bisognosi di attente cure, e non semplicemente di sedativi fatti ingurgitare a forza, senza tentativi di migliorare le loro condizioni. A questo lega un altro giudizio: il danno della televisione. Le immagini trasmesse, e viste contemporaneamente da personaggi e spettatori, sono sempre collegate alla trama e in qualche modo punzecchiano una società profondamente dimessa e assuefatta alla non-verità (simbolo di tutto ciò è la vicenda tracciata durante lo spazio temporale del 1996, in cui un bambino che sembra essere scomparso in un pozzo mobilita ogni media, che rimbombano ovunque la notizia con continui aggiornamenti, ma si rivelerà essere nascosto in un granaio per scherzo).
Il continuo ricorso a inquadrature sghembe, soprattutto nelle sequenze del manicomio, alimenta l’instabilità dell’azione dei vari soggetti, sia fisica che mentale: Gilliam dimostra una manualità certosina, che rasenta la perfezione, per la composizione dell’immagine con questa tecnica e già in Brazil, infatti, ne aveva dato prova (lo stesso discorso si potrebbe fare per l’uso del grandangolo, sempre enfatizzato al momento giusto).
Interessante notare il parallelismo, puramente visivo, fatto tra James e il colonnello Kurtz di Marlon Brando di Apocalypse Now (1979) di Coppola, scena in penombra, nella quale parla e si passa la mano sulla testa. E’ la stessa scena, riproposta in modo diverso, con diverse luci, diversa atmosfera: una bella citazione per gli amanti del cinema.
Tornato nel futuro, viene interrogato sulla natura delle sue possibili scoperte e, visto il fallimento, viene costretto a ritornare nel passato, stavolta sperando che la macchina del tempo funzioni a dovere. In queste poche scene si nota il rientro di (forse sarebbe meglio dire l’ossessione per) un certo retro-futurismo, ormai marchio di fabbrica della fantascienza gilliamiana.
Itavoli, dietro i quali sono seduti gli scienziati, sono costituiti da ingranaggi e sopra di essi sono presenti strumenti appartenenti allo scorso secolo, mettendo in scena un chiaro gusto steampunk, anche grazie all’intera atmosfera della stanza, piena di tubi, valvole e schermi datati. Anche l’ “occhio indagatore” fatto di piccoli display fa constatare un certo feticismo di Terry Gilliam, ma anche un certo incubo, come dirà lui stesso, per la tecnologia del Novecento.
Il dipartimento artistico è riuscito a fare in modo che tutte le location ambientate nel 2035 presentassero esclusivamente tecnologie precedenti al 1996, per dare la sensazione di un futuro misero e cupo. Inoltre il regista e gli scenografi si sono recati personalmente a mercati e magazzini per reperire materiali adatti ad allestire i vari set.
Dopo vari avvenimenti, tra cui la scoperta che Jeffrey è figlio di un noto virologo e il capo dell’esercito delle 12 scimmie, movimento ecologista estremista, James decide di fare il possibile per rimanere nel passato, visto che l’amore che prova per la dottoressa è corrisposto.
Ricercati entrambi dalla polizia, perché identificati come assassino e complice, si travestono e si dirigono verso l’aeroporto. Sul taxi vengono a scoprire che l’esercito delle 12 scimmie ha liberato tutti gli animali dello zoo e la scritta “We did it” si riferiva a quel fatto. Tirano un grande sospiro di sollievo e si comportano da coppia normale, spensierata, pronta in qualche modo alla tranquillità.
Arrivati all’aeroporto James viene avvicinato da un suo compagno di cella del futuro, mandato indietro nel tempo anche lui, che gli intima di trovare il vero responsabile e prendere il virus. Questi è un biologo dipendente dal padre di Jeffrey, fervente religioso, sicuro di essere stato mandato da Dio per sterminare il genere umano. Nel tentativo di fermarlo James corre oltrepassando ogni controllo con una pistola in mano. Prima che possa però sparargli viene ucciso con un colpo di pistola da un agente della sicurezza, e tutto ciò davanti a se stesso da bambino: è la stessa scena che viene mostrata all’inizio della pellicola durante un sogno di James, che ricorda appunto quell’episodio accaduto quando era piccolo.
Il tempo è trattato in maniera anticonvezionale rispetto all’uso medio che ne fa il cinema attuale, infatti il presente non può essere modificato agendo nel passato, perchè tutto ciò che è avvenuto è immodificabile. James ha solo il compito di studiarlo, in modo da trovare dati utili per il futuro da cui è stato inviato.
A coronamento di tutto questo il regista decide di inserire una breve riflessione sulla settima arte. Un film rimane sempre lo stesso, eppure cambia: ogni volta che si guarda sembra diverso perchè dentro si notano dettagli diversi, così come il passato.
Ancora una volta l’ex Monty Python colpisce con un’opera destinata ad entrare nell’immaginario collettivo e di diritto tra i migliori film di fantascienza degli ultimi 25 anni.
continua …
Il trailer di L’esercito delle 12 scimmie: