Il regista torna sulle scene con un'opera che riflette sulla paura di guardarsi dentro, sorretto dalla prova di Dakota Fanning
Il cinema di Bryan Bertino torna a bussare alla porta con Vicious – I tre doni del male: un horror psicologico da camera che riattiva il suo tema-firma – mai aprire a chi non conosci – e affida quasi tutto a Dakota Fanning, magnete drammatico in un racconto a orologeria.
La trama di Vicious è essenziale e crudele: una donna sola riceve da un’anziana sconosciuta (Kathryn Hunter) una scatola “maledetta” e un’ora di sabbia; per sopravvivere alla notte dovrà offrirle tre cose: qualcosa che odia, qualcosa di cui ha bisogno, qualcosa che ama. Il dispositivo è insieme rompicapo morale e tritacarne emotivo, un rito che costringe la protagonista – e noi con lei – a dire la verità su se stessa.
Rispetto a The Strangers e The Dark and the Wicked, Bertino conserva le virtù di messa in scena: tensione a nastro, uso intelligente del fuori campo, composizioni che comprimono gli spazi domestici finché la casa diventa trappola mentale. Il suono lavora come una lama (ronzii, sibili, voci al telefono), la fotografia scava nei corridoi, negli specchi, nelle soglie; l’arredo racconta una vita interrotta (piante secche, lavello colmo, progetti abbandonati), così che ogni oggetto possa farsi arma o indizio. La Fanning regge il film con un corpo in costante allarme: il fiato corto, i tremiti, gli scoppi di rabbia e vergogna rendono Polly più vera del suo profilo biografico. Quando il racconto precipita – telefonate dall’aldilà, doppi ingannevoli, apparizioni – l’attrice tiene insieme il delirio e gli dà un peso umano.
Il confronto con i titoli precedenti e con la tradizione del “patto col demone in salotto” rivela però i limiti. L’idea della scatola-regola è forte, ma la mitologia resta sfocata: da dove viene il male? quali sono i confini della pena? quanto valgono davvero le tre offerte? Questa indeterminatezza può essere letta come scelta (una macchia di Rorschach che chiede allo spettatore di metterci del proprio), ma spesso si traduce in ambiguità non governata. Nei passaggi cruciali, Bertino cerca rifugio nel colpo di paura e nel sangue: efficaci nell’immediato, meno nel costruire senso. Il finale è divisivo: per alcuni un esito speranzoso sullo spezzare i cicli depressivi, per altri un epilogo confuso che lascia fili penzolanti. Anche il contesto natalizio – lampi, brani d’epoca, addobbi come candele votive – promette un contrappunto simbolico che non sempre viene capitalizzato.
Dove Vicious convince è nel gioco etico che impone: cosa odi davvero? di cosa hai davvero bisogno? cosa ami davvero? Il film mastica l’ipocrisia quotidiana (odiare il vizio “per dovere”, non per verità) e spinge il personaggio a scelte irreparabili. Qui Bertino ritrova la postura dei suoi lavori migliori: non sermone, ma esperienza; non metafora esplicitata, ma urto sensoriale che ti costringe a misurarti con la tua parte buia. Dove zoppica è nella tenuta drammaturgica: qualche allungamento nel terzo atto, svelamenti telefonati, un paio di soluzioni che sembrano più necessità di messa in scena che necessità interne al mondo narrativo. Ne risulta un film potente a tratti, che alterna momenti da brivido autentico a passaggi derivativi.
Nel bilancio, Vicious di Bryan Bertino è un horror da piattaforma (uscita dritta su Paramount+) che meriterebbe lo schermo grande per come costruisce l’angoscia e per la prova di Dakota Fanning, ma che paga l’irrisolutezza del suo impianto. Chi cerca un’esperienza viscerale troverà paura, dolore e scelte impossibili; chi pretende una geometria narrativa nitida resterà insoddisfatto. Forse è il prezzo della sincerità: quando l’orrore coincide con l’atto di guardarsi dentro, le regole saltano. E la scatola – come il film – funziona meglio quando non la capiamo del tutto.
Di seguito il trailer internazionale di Vicious: I tre doni del male, su Paramount+ dal 10 ottobre: