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Voto: 7/10 Titolo originale: 13 Ghosts , uscita: 16-05-1960. Regista: William Castle.

Dossier: 13 Ghosts, la casa infestata interattiva di William Castle

01/11/2025 recensione film di Francesco Chello

Dalle celebri gimmick di una carriera geniale al film che alza l’asticella dell’esperienza cinematografica immersiva e del marketing emozionale, col pubblico che diventa parte attiva della visione

13 ghosts film 1960

Dirò una cosa scontata, ma il periodo che porta alla notte di Halloween è evidentemente (e particolarmente) indicato per quelli con i nostri gusti. E’ proprio il mood che si respira, in cui poi si incastra naturalmente la fortissima quota cinefila. L’altro giorno in redazione, nel mentre del nostro annuale sacrificio umano dello stagista in nome di Pazuzu, si ragionava su quale titolo del passato riesumare per celebrare l’occasione. Sono partito dall’idea di un bel bianco e nero. Di una atmosfera spooky come (spesso) solo quelle d’annata sanno essere. E dalla voglia di parlare di William Castle. Un signore che ha legato il suo nome all’horror in generale, ma che ho notato menzionare spesso proprio nel periodo di Halloween quando si tratta di stilare liste, maratone a tema, challenge giornaliere e via discorrendo.

Se si parla di horror americano anni ’50 e ’60, il nome di William Castle è sinonimo di intrattenimento puro e di marketing geniale, regista/produttore capace di trasformare un semplice prodotto di genere in un evento da non perdere. Nato nel 1914 a New York, Castle iniziò la sua carriera come produttore e sceneggiatore, ma è alla regia che – dopo aver esplorato diversi generi, tra cui svariati western – lasciò un segno indelebile nel cinema popolare grazie a una miscela di horror, humor nero e trovate promozionali senza precedenti. Il suo tratto distintivo? La capacità di trasformare la sala cinematografica stessa in parte integrante dell’esperienza del film. Non bastava la storia, il pubblico doveva sentire fisicamente e psicologicamente l’horror.

Castle lo definiva ‘shock to entertain’, la sua filosofia era semplice: più la visione spaventava, più il pubblico ne parlava e tornava al cinema. Ogni proiezione era concepita come un evento, non solo un film; Castle riteneva che l’orrore dovesse essere un’esperienza totale, dalla porta del cinema fino al cuore dello spettatore. La paura non è solo ciò che si vede sullo schermo, ma ciò che si percepisce, si immagina e si condivide con gli altri spettatori. Una filosofia che poi trovava concretezza nelle sue celebri gimmick.

In quell’era cinematografica in cui il pubblico americano iniziava a conoscere l’orrore soprattutto in bianco e nero, William Castle capì una cosa che molti registi dell’epoca ignoravano: la paura non è esclusiva del solo schermo, comincia in platea. E costruire intorno a quella consapevolezza un intero spettacolo, mescolando marketing, teatro e psicosi collettiva con una genialità che oggi rasenta la leggenda. Il sapere che il vero orrore non sta nel sangue, ma nell’attesa, nell’atmosfera. Le sue trovate, tra il circo e l’ipnosi di massa, trasformavano la proiezione in un rito di gruppo.

Donald Woods in 13 Ghosts (1960)La sua eredità è enorme, ogni volta che il cinema horror cerca di coinvolgere fisicamente il pubblico – dal 3D agli esperimenti sensoriali contemporanei – c’è un po’ del suo spirito in gioco. Ma il filmmaker non si limitava alle tecniche visive, era un vero showman anche nei dettagli più piccoli: dai manifesti che promettevano maledizioni al pubblico, alle conferenze stampa platealmente teatrali, fino alle promesse che sfidavano apertamente la paura dello spettatore. Tutto serviva a creare un alone di mito intorno ai suoi film, un modo per rendere il nome di William Castle sinonimo di garanzia con ogni proiezione che diventava una piccola festa dell’orrore.

Tutto inizia nel 1958 con Macabre (Macabro), il film che inaugura l’idea di legare la paura alla realtà. Castle offrì agli spettatori una vera polizza assicurativa dei Lloyd’s di Londra contro la morte per spavento, nel caso qualcuno non avesse retto le emozioni della visione. I partecipanti ricevevano un badge con scritto ‘I’m no chicken. I saw Macabre’, infermiere in divisa presidiavano i foyer, carri funebri stazionavano davanti al cinema, pronti – si diceva – a trasportare eventuali deceduti. L’anno successivo è la volta di House on Haunted Hill (La Casa dei Fantasmi, 1959) e di Emergo, il primo grande colpo scenico, vale a dire uno scheletro di plastica illuminato che compariva da una scatola nera di fianco allo schermo e che, durante il film, svolazzava sopra le teste del pubblico grazie ad un filo teso dal palco alla cabina di proiezione. L’effetto era rozzo ma funzionava, le urla si mescolavano alle risate.

Castle sapeva che stava inventando qualcosa di unico. Non a caso, lo stesso anno perfeziona la formula con The Tingler (Il Mostro di Sangue) introducendo Percepto; alcuni sedili delle sale erano stati modificati con piccoli dispositivi vibranti, che entravano in azione durante le urla del film, facendo letteralmente sentire il terrore sulla pelle degli spettatori. Il cinema non era più solo visione, ma esperienza fisica.

Del 1960 parliamo tra poco, mentre nel 1961 arriva Homicidal, che includeva un ‘Fright Break’ di sessanta secondi prima del climax finale in cui Castle compariva su schermo per annunciare che chi non se la sentiva di proseguire poteva uscire e ottenere il rimborso. Nei cinema, però, c’era un’area chiamata Coward’s Corner, l’angolo dei codardi, dove i pavidi dovevano attendere la fine firmando una dichiarazione di autenticità della codardia. Pochi ebbero il coraggio — o la vergogna — di andarci davvero. A distanza di pochi mesi, Mr. Sardonicus offrì un’altra forma di interattività: il pubblico veniva chiamato a votare il destino del villain in un ‘Punishment Poll’. Un vero e proprio sondaggio in cui ogni spettatore riceveva una piccola mano fluorescente da sollevare in alto o in basso per decidere se il cattivo dovesse essere perdonato o punito. In realtà, pare che Castle abbia sempre girato un solo finale, ma la trovata bastò a far parlare di lui per mesi.

Con Zotz! del 1962 alleggerì i toni, distribuendo monete di plastica a tema come gadget promozionali. Lo spirito ludico di Castle esplose di nuovo in 13 Frightened Girls (L’Incredibile Spia, 1963), dove gli spettatori ricevevano biglietti della lotteria ‘leccabili’ che permettevano di partecipare ad un concorso a premi. Nel 1965, con Strait-Jacket (5 Corpi Senza Testa) decise di omaggiare (e sfruttare) la sua star Joan Crawford distribuendo al pubblico asce di cartone, replica innocua dell’arma brandita nel film. Nello stesso anno, I Saw What You Did (Gli Occhi degli Altri) introdusse le ‘Shock Sections’: le ultime file dei cinema erano dotate di cinture di sicurezza per evitare che gli spettatori, sobbalzando per la paura, cadessero dalle sedie.

13 ghosts film 1960 castleUna cosa voglio precisarla. L’aneddotica delle sue imprese promozionali merita di essere raccontata, approfondita e tramandata. Ma non è assolutamente l’unico punto di forza degli horror e dei thriller di William Castle, che il più delle volte denotano una piacevolezza narrativa e/o d’atmosfera che esula dalle trovate di marketing. Banalmente basterebbe fare il mio esempio da spettatore, per ovvi motivi (anagrafici) non ho avuto la fortuna di vivere gli eventi in sala, eppure questo non mi ha impedito di godermi o affezionarmi all’autore ed ai suoi film. Che poi tante gimmick extra screen ma non solo, visto che Castle amava giocare anche dentro l’immagine e le sue estrose trovate si estendevano allo schermo, espedienti che fossero di natura visiva e/o narrativa che diventavano particolarità creativa di visioni per le quali erano (e sono) assolutamente funzionali.

Penso alla rottura della quarta parete in House on Haunted Hill o lo split screen (a forma di occhi) di I Saw What You Did; il metacinema di The Tingler (probabilmente il mio preferito della sua filmografia) in cui Vincent Price si trova a parlare col pubblico di un cinema – parlando, di fatto, col pubblico vero – fondendo realtà e finzione, senza dimenticare il rosso del sangue che ad un certo punto in una sequenza fondamentale tinge vigorosamente il bianco e nero della pellicola. Un autore che ci metteva letteralmente la faccia, considerando che spesso compariva in video per presentare i suoi prodotti alla maniera di Rod Serling o Alfred Hitchcock. E non mi dilungo in altri esempi, anche per lasciarvi il piacere della scoperta qualora abbiate intenzione di recuperare qualche titolo.

Ma torniamo a quel buco del 1960 che avevo volutamente lasciato in sospeso, per riempirlo col film scelto per il nostro approfondimento halloweeniano. Mi riferisco a 13 Ghosts / I 13 Fantasmi, uscito nelle sale esattamente 65 anni fa. Una scelta non casuale, considerando che è l’opera attraverso cui William Castle porta il concetto di gimmick al cosiddetto next level, legando a doppio filo l’espediente della sala alla visione stessa. Dopo il successo di House on Haunted Hill e The Tingler, l’intenzione di Castle era quella di alzare ulteriormente l’asticella con un progetto che è tanto un horror quanto un esperimento di marketing e interattività cinematografica. Un’idea quasi visionaria, con lo spettatore che diventava parte del film grazie al fantomatico Illusion-O: un visore a due filtri, rosso e blu, che permetteva di scegliere se vedere o meno i fantasmi.

Questo portò diversi a ritenere erroneamente che la pellicola fosse stata originariamente proiettata in 3D, i ghost viewer contenevano i due filtri ma, a differenza degli occhiali 3D, entrambi gli occhi guardavano attraverso lo stesso colore. Le sequenze incriminate mostravano istruzioni in sovraimpressione, ‘use/remove viewer’ a seconda dei casi; guardando attraverso il filtro rosso, gli spiriti diventavano più visibili; con quello blu, svanivano. Ogni scelta dello spettatore cambiava la percezione del film, un modo ingegnoso per rendere il pubblico parte attiva racconto e, al tempo stesso, giocare con la tecnologia del 3D (come detto, non in senso stretto) che stava conquistando Hollywood.

i 13 fantasmi film 1960Trasformando ogni proiezione in un’esperienza personalizzata e interattiva. Una trovata che mescolava tecnologia, marketing e showmanship, rendendo l’horror di Castle unico nel suo genere. Un’altra trovata pubblicitaria prevedeva che i primi 20 milioni di spettatori che acquistavano un biglietto ricevessero una chiave, una di queste avrebbe dovuto aprire una presunta casa infestata che Castle sosteneva di aver comprato in Francia. Lo spettatore in grado di aprire la porta ne sarebbe diventato il proprietario, anche se non è noto se il premio sia mai stato effettivamente reclamato.

Do you believe in ghosts?”. Dopo gli sfiziosi titoli di testa animati, lo stesso William Castle presenta il film nel suo prologo con questa domanda perentoria, cogliendo poi l’occasione per consigliare agli spettatori di conservare il ghost viewer per la propria abitazione… caso mai ci fosse qualche strana presenza!

Si parte da una trama semplice che vede un uomo ricevere in eredità dallo zio una splendida casa a patto di viverci. Il dettaglio non trascurabile è che la casa è infestata. Lo zio era un appassionato dell’occulto ed aveva effettuato degli studi riguardanti i fantasmi rimasti imprigionati sulla Terra, spiriti che aveva trovato il modo di scovare attraverso dei particolari occhiali – ancora una volta metacinema, coi protagonisti che vivono esperienze simili a quelle degli spettatori – e addirittura di collezionare. I fantasmi sono 12, ma il peggio deve ancora venire: gli spettri sono in cerca del tredicesimo…

Il concetto dei tredici fantasmi non è solo narrativo, ma parte integrante dell’esperienza di Castle. Gli spiriti presenti nel film sono tutti legati a morti violente o tragiche, e ognuno contribuisce a creare l’atmosfera di tensione e terrore che caratterizza la casa del dottor Zorba. La possibilità di vedere o nascondere i fantasmi tramite i ghost viewer trasformava ogni spettacolo in un’esperienza unica: chi desiderava la paura piena vedeva tutti i fantasmi, chi preferiva un approccio più cauto poteva limitare l’orrore sullo schermo. Un’idea geniale, quasi ante litteram, di interattività cinematografica.

Dal punto di vista puramente cinematografico, 13 Ghosts è quello che può essere definito il classico film sulla casa infestata, con tutte le sue tradizionali caratteristiche ed i suoi tipici particolari realizzati ad arte. Un adeguato campionario di presenze, rumori, voci, oggetti che si spostano da soli, apparizioni di spiriti, strani marchingegni, scatole misteriose, passaggi segreti, tavole ouija e sedute spiritiche. Gli effetti speciali sono discretamente buoni, specie considerando la natura low budget.

Gli spiriti hanno un look intrigante e ci vengono mostrati attraverso tecniche di dissolvenza e sovrapposizione delle immagini, all’altezza anche la realizzazione di tutti gli effetti meccanici. Il versante tecnico si distingue per la cura dei costumi dei fantasmi, i trucchi ottici e gli effetti speciali pratici, tutti concepiti per creare suspense e stupore. L’effetto della fiamma rotante mostrata come fantasma venne usato nella mitica Star Trek TOS (1966/1969) per rappresentare un essere alieno incorporeo. L’approccio artigianale di Castle, che spesso testava personalmente ogni meccanismo, garantisce una precisione per certi versi rara per un film di questo tipo. Il regista era noto per essere ossessivo nei dettagli, supervisionava personalmente gli effetti ottici degli Illusion-O e spesso testava i ghost viewer in sala per assicurarsi che l’esperienza fosse coerente.

fantasma in 13 Ghosts (1960)Durante le riprese, alcuni fantasmi venivano mossi con fili quasi invisibili o meccanismi artigianali, creando movimenti fluidi e inquietanti. Si racconta che, durante i test, gli attori dei fantasmi si spaventassero tra di loro quando gli occhiali venivano usati in anteprima, provocando urla genuine da registrare come effetti sonori. Anche la regia, pur lineare, sfrutta la composizione visiva per amplificare il senso di claustrofobia e minaccia della villa, dai corridoi stretti alle luci fredde e giochi d’ombra che contribuiscono a creare un’atmosfera inquietante senza ricorrere a violenza gratuita. Scenografie, score accattivante ed un’indovinata illuminazione completano quindi un quadro sinistro alquanto suggestivo a cui il bianco e nero dona il suo seducente contributo.

Ogni fantasma viene progettato con cura da Castle e dal suo team di costumisti e truccatori, in modo da rendere immediatamente riconoscibile e memorabile la propria presenza. Alcuni erano truccati con tecniche da teatro macabro, altri con effetti pratici innovativi per l’epoca, sfruttando luci, ombre e movimenti meccanici. Spiriti che andrebbero menzionati uno ad uno, puntualmente cadenzati nel corso delle varie scene clou: dal cuoco italiano dotato di affilatissima mannaia al domatore senza testa con tanto di leone al seguito, da uno bizzarro scheletro al fantasma del dottor Zorba, la cui apparizione sarà tra le più particolari con lo spettro dell’eccentrico parente che fa la sua comparsa in seguito ad una memorabile seduta spiritica con tanto di possessione ai danni del malcapitato nipote.

Il personaggio umano più pittoresco è senza ombra di dubbio quello dell’inquietante Elaine Zacharides, la governante della casa nonché medium fidata dello scienziato defunto. Affidata al volto spigoloso di Margaret Hamilton, una sorta di Carlo Delle Piane al femminile. Fin dall’inizio (e più volte nel corso degli eventi), gli altri pensano si tratti di una strega – lei che una strega (quella cattiva dell’Ovest) l’aveva interpretata in The Wizard of Oz (Il Mago di Oz, 1939); alla fine del film rompe la quarta parete, afferra la scopa e rivolge alla macchina da presa un’espressione complice, con le sopracciglia alzate e un sorrisetto significativo.

William Castle riuscì a convincere il popolare attore bambino Charles Herbert a interpretare Buck offrendogli il top billing; Herbert faceva parte di un piccolo gruppo di attori bambini (come Richard Eyer, Billy Mumy, Tommy Kirk, Susan Gordon e Billy Gray) scelti per numerosi film fantasy e serie TV negli anni ’50 e ’60, 13 Ghosts è l’ultimo lungometraggio in cui appare (dopo altri due nello stesso anno), per poi passare ad una serie di ruoli televisivi prima di chiudere la carriera ancora in giovane età.

Complessivamente positiva la prova del cast. Tra i volti noti anche quello del Leone fantasma, interpretato da Zamba ovvero lo stesso esemplare felino che compariva in The Addams Family (La Famiglia Addams. 1964/1966) nel ruolo di Kitty Kat; il suo vero addestratore, Ralph Helfer, compare nei panni di Shadrack, lo spettro del già citato domatore decapitato. L’intrusione di una mosca che infastidisce Hilda nello studio dell’avvocato è probabilmente un riferimento al famoso classico di fantascienza The Fly (La Mosca) in cui Charles Herbert aveva recitato due anni prima.

Il finale si concede anche un piccolo twist, magari ad un certo punto intuibile, che nel mezzo di un prodotto di intrattenimento veicola un accenno di riflessione sull’avidità, il raggiro, il tradimento della fiducia e su quanto portino inesorabilmente a niente di buono.

13 Ghosts fa il suo debutto nei cinema americani il 24 giugno del 1960. Viene distribuito anche come parte di un double bill insieme a titoli come 12 to the Moon, The Electronic Monster o Battle in Outer Space, a seconda del mercato in cui veniva proiettato. Da quello che mi risulta, in Italia è arrivato con molto ritardo, qualcuno parla addirittura di anni ’90 ma l’informazione andrebbe verificata su più fonti. Io so di averlo beccato quasi vent’anni fa, in lingua originale, su uno dei canali del pacchetto cinema di Sky che ai tempi rispolverava chicche dimenticate, per poi aggiungerlo in collezione qualche anno dopo grazie al dvd targato Sinister.

Charles Herbert in 13 Ghosts (1960)L’eredità di 13 Ghosts è duplice. Da un lato, il film consolidò Castle come maestro delle gimmick: molti registi horror degli anni successivi trassero ispirazione dal suo approccio al marketing esperienziale, dai poster provocatori agli eventi speciali in sala. Dall’altro, influenzò direttamente il modo in cui il pubblico interagisce con l’horror; Castle dimostrò che la paura diventa più intensa quando lo spettatore può giocare con essa, scegliendo quanto vedere e quanto subire.

Non sorprende che il titolo in questione abbia ispirato remake, giochi interattivi e perfino attrazioni da parco a tema, continuando a vivere oltre il semplice schermo cinematografico. A proposito di eredità in senso ampio, come non citare la Dark Castle Entertainment, casa di produzione che prende il nome proprio dal visionario regista, fondata tra il 1998 ed il 1999 da Joel Silver, Robert Zemeckis e Gilbert Adler, che ha scelto di rendere omaggio al suo cinema inaugurando la propria attività con i remake dei suoi film. Nel 1999 l’esordio con House on Haunted Hill di William Malone, seguito nel 2001 proprio da Thir13en Ghosts diretto da Stephen Beck.

Criticamente, 13 Ghosts ha diviso la platea. Alcuni storici del cinema lo considerano un espediente più commerciale che narrativo, altri lo elogiano come precursore dell’interattività cinematografica moderna. Quel che è certo è che Castle riuscì a trasformare un horror non eccessivamente articolato in un fenomeno culturale, anticipando strategie di marketing che oggi appaiono sofisticate e studiate, ma che allora erano pura genialità individuale.

13 Ghosts è più di un film sui fantasmi: è un esempio di come il cinema possa essere spettacolo totale, una fusione di narrazione, tecnica e coinvolgimento diretto dello spettatore. In un certo senso, è il manifesto del cinema-evento di William Castle. La sua forza non risiede tanto in una trama abbastanza semplice quanto nella capacità di trasformare l’horror in un’esperienza sensoriale completa. William Castle, con la sua ossessione per il brivido e il divertimento, dimostrò che il vero orrore non risiede solo nelle immagini sullo schermo, ma nella capacità di sorprendere, spaventare e intrattenere allo stesso tempo.

In poche parole, Castle non era solo un regista di quelli che qualcuno definisce B-movie (termine che non amo particolarmente), era un maestro della psicologia dello spettatore e del marketing emozionale, capace di trasformare un film da semplice intrattenimento in un’esperienza totale, sensoriale e memorabile. Con 13 Ghosts, portò tutto questo a un livello superiore, lasciando il segno e ispirando generazioni di cineasti horror.