Azione & Avventura

Last Samurai Standing: recensione della serie survival drama giapponese (su Netflix)

Un’action-story tesa e spettacolare che rinnova il “gioco mortale” in chiave storica

Ambientata nel 1878, in un Giappone che sta smantellando l’antico sistema dei samurai per abbracciare la modernità, Last Samurai Standing si inserisce in un territorio narrativo che unisce brutalità marziale e tensioni politiche. La serie, diretta da Michihito Fujii, Kento Yamaguchi e Toru Yamamoto, prende avvio da un punto storico preciso: la fine della ribellione di Satsuma e la definitiva marginalizzazione di una classe sociale considerata ormai superflua.

Alla base del progetto c’è però un testo fondativo: il romanzo Ikusagami di Shōgo Imamura, vincitore del Premio Naoki, un’opera che affronta con lucidità epica e dolore la dissoluzione del ceto samuraico, poi rielaborata dallo stesso autore anche in versione manga seinen.

In questo vuoto identitario si muove Shujiro Saga, interpretato da un intensissimo Junichi Okada – anche produttore e principale responsabile delle coreografie – che dà volto a un uomo spezzato, privato del proprio ruolo e messo in ginocchio dalla malattia che travolge la sua famiglia.

L’invito a un misterioso torneo, noto come Kodoku, appare allora come un’ultima chance di sopravvivenza. A Kyoto, al tempio di Tenryu-ji, si radunano 292 combattenti: ex-samurai, arceri, mercenari, giovani disperati, figure coperte di cicatrici visibili e invisibili. Il gioco è semplice e crudele: per proseguire verso Tokyo occorre sottrarre i “tag” agli avversari, sapendo che perderli significa morire. È una struttura che richiama inevitabilmente una tradizione già codificata nel cinema e nelle serie moderne, ma che Last Samurai Standing rielabora con una prospettiva profondamente radicata nel contesto della Restaurazione Meiji, coerente con la visione originale del romanzo di Imamura.

È qui che l’opera dialoga indirettamente con modelli come Battle Royale, il film di Kinji Fukasaku che vent’anni fa teorizzava la competizione mortale come strumento politico, e con i meccanismi psicologici e sociali di Squid Game, dove la lotta per la sopravvivenza si intrecciava con la critica a una società disumana e indebitata. Nel caso della serie giapponese, il massacro non è però un’allegoria del capitalismo contemporaneo, bensì il risultato di un trauma storico ancora pulsante: la perdita di potere dei samurai, la violenta transizione verso uno stato moderno, la sensazione di essere diventati uno scarto sociale. Il gioco del Kodoku diventa così uno specchio deformante, ma credibile, delle convulsioni di un Paese che sta cambiando pelle.

È proprio questo radicamento storico, già centrale in Ikusagami, a distinguere la serie: la violenza non è stylisation, ma memoria culturale trasformata in spettacolo.

Su questa cornice si innestano personaggi che la sceneggiatura – firmata da Fujii, Yamaguchi e Risa Yashiro – tratteggia con rapidità e precisione. Accanto a Shujiro emergono figure come Futaba (Yumia Fujisaki), fragile ma determinata; Iroha (Kaya Kiyohara), guerriera dalle abilità impressionanti; Kyojin Tsuge (Masahiro Higashide), stratega tanto ambiguo quanto affascinante; e il terrificante Bukotsu (Hideaki Ito), incarnazione della violenza cieca. Le loro traiettorie si incrociano e si scontrano, sostenute da flashback che illuminano i legami pregressi, le ferite, le ragioni per cui accettare un gioco che ha quasi la struttura di una condanna collettiva.

Ma Last Samurai Standing nei suoi 6 episodi trova la sua vera forza nell’azione. Okada, che guida personalmente la progettazione delle scene di combattimento, confeziona duelli che sono al tempo stesso coreografi e brutali, girati con chiarezza e senza abusi di effetti digitali. Le spade vibrano in lunghi piani sequenza, le frecce sfiorano i volti, gli scontri esplodono in ambienti sempre diversi: boschi, ponti, villaggi, sentieri che qui non sono mai cartoline ma luoghi in cui la storia lascia sangue e decisioni irrevocabili.

Il lavoro di Okada prosegue idealmente la componente marziale già presente nel romanzo: la fisicità diventa linguaggio, gesto politico, residuo di una tradizione sul punto di svanire.

Se Battle Royale costruiva tensione attraverso la regia claustrofobica e se Squid Game utilizzava l’estetica del gioco infantile per rendere atroce la violenza, Last Samurai Standing sceglie una via propria: il duello come linguaggio dell’onore perduto, come memoria di una tradizione che il nuovo Giappone vuole cancellare. La spettacolarità è al servizio di un lutto collettivo, più che della sorpresa o del colpo di scena.

Sul fondo si muove un’altra presenza: un gruppo di ricchi oligarchi che osserva e scommette sulla morte degli altri. Non è semplicemente un richiamo alle élite voyeuristiche viste altrove, ma la proiezione storica di ciò che diventeranno i grandi conglomerati del Giappone moderno. È un dettaglio che arricchisce la serie senza appesantirla, intrecciando intrattenimento e contesto, in linea con il sottotesto politico già presente in Ikusagami.

Quando si arriva all’episodio finale, la serie sceglie la strada più rischiosa: un intero capitolo quasi privo di tregua, dominato dall’azione pura. Per alcuni spettatori sarà una mancanza di chiusura, per altri un gesto coraggioso che dichiara apertamente cosa vuole essere questa prima stagione: un’opera concentrata sulla fisicità, sulla disperazione e sulla simbologia del combattimento, più che un dramma politico di ampio respiro.

Il merito di Last Samurai Standing sta nel riuscire a prendere un’idea che, in astratto, suona familiare – guerrieri costretti a uccidersi a vicenda – e a farla sentire nuova grazie alla cura visiva, alla ricostruzione storica e all’impegno totale del cast. Junichi Okada, Yumia Fujisaki, Kaya Kiyohara, Masahiro Higashide, Hideaki Ito e gli altri trasformano un semplice “gioco di morte” in un mosaico di motivazioni umane che emergono mentre il Giappone cambia per sempre.

E soprattutto, grazie alla profondità della materia narrativa di Shōgo Imamura, la serie conserva un’anima letteraria anche quando esplode nel puro cinema d’azione.

La serie non è un manuale di storia, né un trattato di sociologia, né un manifesto contro la disuguaglianza: è un racconto sull’estinzione di un mondo, sulla necessità di trovare un posto dentro uno nuovo e sull’idea che l’onore, una volta calpestato, può trasformarsi in disperazione o salvezza.

Ed è proprio in questa complessità – sostenuta dal lavoro di Fujii, Yamaguchi e Yamamoto – che Last Samurai Standing trova il suo spazio fra le narrazioni contemporanee: un titolo che guarda agli archetipi del genere, dialoga con i suoi predecessori e tuttavia resta, nel profondo, una storia sull’ultimo respiro dei samurai e sul costo della sopravvivenza.

Una reinterpretazione audiovisiva che, pur dialogando con Battle Royale e Squid Game, conserva la fedeltà alla voce di Ikusagami e al mondo creato da Imamura.

Di seguito trovate il teaser trailer internazionale di Last Samurai Standing, su Netflix dal 13 novembre:

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Published by
Gioia Majuna