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Voto: 7/10 Titolo originale: Il Mostro , uscita: 22-10-2025. Stagioni: 1.

Il Mostro: la recensione dei 4 episodi della serie true crime italiana di Netflix

21/10/2025 recensione serie tv di Marco Tedesco

Stefano Sollima racconta la pista sarda come “Rashomon” seriale, dando centralità a Barbara Locci tra etica dello sguardo, atmosfera e qualche limite drammaturgico

Il Mostro di Stefano Sollima è una miniserie che sceglie la via più scivolosa e insieme più fertile: raccontare il caso più ingovernabile della cronaca nera italiana senza pretendere di risolverlo. In 4 episodi asciutti e tesi, la serie Netflix abbandona la pista più popolare e si inoltra nella cosiddetta pista sarda, costruendo un mosaico di versioni inconciliabili e di narratori inattendibili.

Non è un semplice true crime, ma un esercizio di messa in scena della memoria: frammentaria, contraddittoria, necessariamente parziale. È anche, però, un racconto che divide, perché la stessa coerenza d’intenti che lo rende affascinante è ciò che, talvolta, lo rende sfuggente.

La trama, per quanto possibile, si dispone attorno a un nocciolo: il duplice omicidio del 1968 di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco a Signa, che anni dopo lega balisticamente i delitti del Mostro. Ogni episodio sposta il fuoco su un sospettato diverso – Stefano Mele, Francesco Vinci, Giovanni Mele, Salvatore Vinci – ribaltando di volta in volta la prospettiva e riscrivendo micro-dettagli di scene chiave.

Ne risulta un “Rashomon” seriale: porte che si aprono e si chiudono in modo diverso, tragitti che cambiano, parole che slittano. Il montaggio usa ripetizione e variazione come grammatica del dubbio: non per confondere lo spettatore, ma per costringerlo a vedere il caso come una stratificazione di desideri, menzogne, omissioni.

il mostro miniserie netflix 2025La scelta più netta, e più discussa, è quella di fare di Barbara Locci il filo rosso. Non solo vittima fondativa, ma figura che “tiene” la serie: donna desiderante e contraddittoria che catalizza intorno a sé violenza, gelosie, rancori. È un’operazione che restituisce centralità femminile in una vicenda dominata da sguardi maschili, e che dialoga con l’oggi quando lascia affiorare – senza proclami – il tema del femminicidio come orizzonte culturale, non solo criminale. Il rischio, semmai, è che la reiterazione della violenza sul corpo femminile, pur trattata con rigore e pudore formale, diventi stremante: la serie sfiora a tratti la linea sottile tra denuncia e spettacolarizzazione, soprattutto quando affida l’avanzamento narrativo alla visione di soprusi reiterati più che alla riflessione sulle loro cause.

Sul piano stilistico, Sollima rallenta il respiro. Chi ricorda la furia cinetica di Romanzo Criminale o Gomorra troverà qui una regia che sa “aspettare”: camera discreta, movimenti minimi, tempi lunghi che fanno nascere la tensione dagli spazi e dai silenzi. L’aderenza ai verbali, soprattutto nei dialoghi cruciali, produce un’intonazione “strana”, non cinematografica in senso classico: frasi irregolari, cadenze non levigate, come se la lingua rifiutasse la spettacolarità. È una scelta coerente con l’impianto, ma non sempre amica della fruizione: la precisione documentaria obbliga spesso a raccontare per ellissi, delegando a sguardi, ambienti e micro-gesti ciò che la parola non può o non vuole dire.

La fotografia cava neri e grigi da interni spogli, case poverissime, cortili scavati nel fango: uno squallore radicale che è anche politica dell’immagine. In questo paesaggio, i rari cromatismi (un abito appena comprato, una tenda bucata dagli spari) funzionano come ferite nella retina. La musica lavora per contrappunti: canzoni popolari trasformate in presagi, classici italiani che diventano sinistri, improvvise citazioni filmiche che scartano il senso – l’eco del monologo di Blade Runner prima di un’esecuzione – per parlare dell’immaginario di un paese oltre che del suo buio.

Dove la serie convince di più è nella creazione di atmosfera e nella gestione del punto di vista. L’omicidio della coppia tedesca, il camper crivellato, i fari che accendono nel buio decine di voyeur nascosti tra le fratte: sono immagini che condensano una poetica del fuori-campo, dove il mostro è sempre “dietro” qualcosa, forse dentro qualcuno. L’ultimo delitto agli Scopeti, la traiettoria dei proiettili che fioriscono sulla tela, l’orrore delle escissioni lasciate in parte fuori quadro: qui la regia rivendica un’etica dello sguardo, non negando l’atrocità ma impedendole di farsi compiacimento.

Dove, invece, Il Mostro paga pedaggi è nella costruzione drammaturgica complessiva. Lo spostamento continuo di focalizzazione, la marginalità programmatica dell’indagine ufficiale (magistrati e inquirenti come comparse impotenti), l’assenza di un vero protagonista empatico – che poteva essere la stessa Locci o il figlio Natalino – generano un senso di rarefazione emotiva.

il mostro sollima serieL’impianto è coerente con l’idea di caso irrisolto, ma il prezzo è un coinvolgimento a scatti: tanta eccellenza formalista, meno progressione narrativa. In quattro episodi si avverte sia l’ambizione di compattezza sia la necessità di rimandi a una probabile seconda stagione: il “cliffhanger” su Pietro Pacciani chiude più per stasi che per climax, lasciando sospesa la domanda se il formato abbia davvero il tempo di far sedimentare personaggi e conflitti.

C’è poi il nodo della “politica” del racconto. L’opzione di leggere la pista sarda come trama di maschilità violente – padri, mariti, amanti, fratelli che comprimono e puniscono – è potente e contemporanea, ma a tratti didascalica: alcune linee di dialogo sembrano voler “spiegare” ciò che l’immagine già mostra. La serie, insomma, è più forte quando lascia che le case parlino, che gli sguardi mentano, che le versioni si contraddicano; più fragile quando cerca una tesi. Eppure quella fragilità è l’altra faccia del coraggio: prendere posizione senza chiudere il senso, mettere in scena l’Italia che fu – patriarcale, provinciale, intrisa di controllo sociale – senza consegnarle l’alibi del folklore.

Nel confronto con altri racconti del Mostro, questa versione rinuncia al magnetismo del processo spettacolo, allo “show” paccianesco, all’idea di un colpevole da incarnare. È una rinuncia che libera e spiazza. Libera perché toglie al pubblico l’illusione della soluzione; spiazza perché, senza un centro carismatico, richiede di abitare i margini, le voci basse, i dettagli. Chi cerca il brivido del whodunit potrebbe restare frustrato; chi accetta l’ipotesi che il vero tema sia ciò che rende possibile il male – una società, un’epoca, uno sguardo – troverà un’esperienza compatta, spesso magnetica.

Il Mostro è dunque una miniserie di straordinaria coerenza formale e notevole ambizione etica, capace di reinventare il true crime italiano come teatro delle versioni. È anche un’opera che paga lo scotto della sua stessa lucidità: a forza di contenere, asciugare, sottrarre, rischia di raffreddare il pathos e di lasciare alcuni nodi tematici nel limbo tra intuizione e tesi. Resta, però, l’impressione di un lavoro necessario: non per risolvere, ma per ricordare; non per mostrare il mostro, ma per farci domandare dove e come continuiamo a fabbricarlo.

Di seguito trovate il full trailer di Il Mostro, a catalogo dal 22 ottobre:

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