Esclusivo | Intervista a Enki Bilal: da Goscinny a Besson, passando per Annaud, Lucca, il colore e il marketing nell’arte
26/10/2017 news di Alessandro Gamma
Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con l'artista francese, spaziando dal fumetto alla politica, dal cinema al nuovo libro e al futuro
Nato nella ex-Jugoslavia ma naturalizzato francese nel 1967 e acclamato autore di fumetti fin dai primi anni’70 (ricordiamo soltanto i famosissimi Fins de siècle e la Trilogia Nikopol), Enki Bilal resta ancora oggi un corpo estraneo perfino in patria, lontano dall’elite culturale del paese d’oltralpe, nonostante il suo talento e la levatura sia stati consacrati addirittura da due recenti esposizioni personali al museo del Louvre di Parigi e al Musée des Arts et Métiers. Nato nel Belgrado durante il periodo comunista di Tito da una madre cattolica ceca e da un padre musulmano bosniaco, si può capire bene – visto quanto accaduto in seguito – come sia diventato un attento osservatore delle tensioni globali, anticipando di anni nei suoi immaginifici lavori la fine dell’Unione Sovietico e il terribile attacco al World Trade Center dell’11 settembre 2001.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Bilal alla Galleria Nuages di via Del Lauro a Milano, dove fino al 21 ottobre sono stati esposti alcuni dei suoi ultimi lavori.
Il regista Denis Villeneuve l’ha recentemente menzionata – nel corso della conferenza stampa di presentazione del suo Blade Runner 2049 – tra gli artisti che leggeva da bambino e che probabilmente lo hanno in qualche modo ispirato.
E’ stato molto molto ben ispirato. Ho apprezzato molto il suo lavoro come autore. Fa parte di quegli autori che hanno avuto la chance di poter esprimere questo tipo d’immaginario ambizioso nel cinema. E’ una generazione in Francia molto particolare, perché gli artisti non hanno la possibilità di fare lo stesso, poiché in Francia il cinema è basato sulla parola, sul reale, il cinema della realtà, sul realismo della società, ma c’è poca immaginazione. In Francia si ha paura dell’immaginazione. Questa è una parentesi: ci sono stati progetti di film che speravo di riuscire a realizzare, ma è davvero difficile in Francia.
Villeneuve, come me, come Ridley Scott e come buona parte dei disegnatori francesi, quelli di Métal Hurlant per esempio, hanno questa cultura dell’immaginario, e non solo un immaginario semplicemente visivo, ma un immaginario al servizio di svariati interessi, di un’analisi della prospettiva del mondo, della società, della politica, della geopolitica, qualcosa che pertiene a un reale potenziale, plausibile, un reale legato al futuro. Per me è questa la vera creatività nella pittura, come nel cinema, di parlare di noi nel prossimo futuro. E’ una dimensione essenziale soprattutto oggigiorno, perché ci troveremo in un mondo in totale sfacelo.
Che cosa ne pensa di Valerian e la città dei mille pianeti, il film di Luc Besson tratto da un noto fumetto francese di Jean-Claude Mezieres e Pierre Christin? Lo ha già visto?
No, purtroppo non sono ancora riuscito a vederlo, perché non mi trovavo a Parigi quando è uscito nelle sale, ma lo vedrò sicuramente presto. [I realizzatori del fumetto] mi hanno parlato molto del film e sono molto contento della maniera con cui Besson ha lavorato al film, è andata molto bene, poiché Luc ammira davvero la serie a fumetti da quando era bambino, e loro l’hanno lasciato fare, in modo tale che lui gli donasse la sua visione.
Parlando della pellicola, del risultato, so che è costato davvero molto e che Besson finanziandolo si è preso un grosso, grosso rischio. E la reazione, il blackout degli americani, ha rappresentato un rifiuto della nostra visione … in generale gli americani non accettano l’immaginario europeo nel mondo del cinema di fantascienza, non accettano altre visioni eccetto la propria. E penso che Luc Besson sapesse già di questo fatto, e sono un po’ sorpreso della sua ingenuità.
Una curiosità: so che da ragazzino ha avuto un incontro folgorante con René Goscinny. Può raccontarci quel momento?
La prima volta che l’ho incontrato avevo 15 anni, gli ho mostrato alcuni miei disegni e mi ha detto: ‘Sono molto buoni, continua, sono ottimi’. E così ho continuato a disegnare. L’ho poi rivisto cinque anni dopo, a un concorso dove ho vinto il primo premio e dove mi disse: ‘Sei bravo, continua, portami delle proposte delle storie, proponimi qualcosa e sarai il ben venuto‘.
E’ così ho fatto. In seguito l’ho incontrato ancora durante le riunioni della redazione della rivista Pilote tutte le settimane, quando veniva preparato il numero, in cui compariva una serie di pagine d’attualità, e Goscinny era colui che dirigeva il consiglio di redazione, con il suo spirito, la sua passione, Il suo humour. E’ un bellissimo ricordo ed è stato un periodo molto importante per me.
Il suo lavoro nel cinema è iniziato nel 1989 con Bunker Palace Hôtel, di cui ha curato la sceneggiatura e la regia personalmente. Quali sono i suoi ricordi dell’esperienza e come guarda a quello e ai suoi due film successivi, Tykho Moon del 1996 e Immortal Ad Vitam del 2004, dopo oltre vent’anni?
No, Non li guardo. Ma li conosco. Però, è interessante. Alcuni anni fa ho lavorato per La Géod a Parigi, che è questo palazzo del cinema, simile a un Imax, e mi hanno commissionato un lavoro sui miei film e sulla musica e ho realizzato un montaggio dei miei tre film, ma non per intero, ne ho selezionate alcune parti. E ho creato un montaggio di un’ora e dieci minuti di questi tre film completamente intrecciati e integrati; e con Goran Vejvoda, un bravo musicista e mio amico, abbiamo fatto dei concerti alla Géod e abbiamo proiettato questo montaggio remix nelle sale cinema e nei teatri.
Goran interveniva con dei suoni originali, dando vita a un’improvvisazione sonora, mentre io mi trovavo dall’altro lato e avevo un apparecchio con cui intervenivo inserendovi delle immagini proiettate (VJ-ing). E lo show non si è fermato qui, ma è andato in giro per una cinquantina di date anche per l’Europa e per il mondo. Così sono arrivato a conoscere a memoria i tre film, facendo questo lavoro di montaggio mixato dei tre. Il mio ricordo di questi film li associa più alla pittura, al disegno, sono più una pratica artistica: più si fa pratica, più esiste un’evoluzione di detta pratica, più si impara, ma è anche vero che tre film sono insufficienti per manifestare il senso di evoluzione. Ecco perché vorrei girarne un quarto.
E’ un progetto molto ambizioso, spero di poter iniziare già l’anno prossimo. Il cinema per me è una forma di rottura che mi è necessaria, è una forma di rottura collettiva, nella mia quotidianità dedicata alla creazione solitaria legata al disegno, alla pittura, al disegno, alle altre arti, mentre il cinema è un lavoro collettivo. E ho bisogno di avere altri soggetti che mi migliorano; penso a nomi quali Denis Villeneuve, Ridley Scott e Micheal Mann, che ho conosciuto e con cui ho lavorato. Tutti sanno bene che un artista, da solo, è più libero rispetto a un autore che lavora nel cinema, mentre questo dipende da un lavoro basato su una macchina collettiva. La pittura e il disegno sono invece solitari, avendo una libertà che per forza di cose è maggiore, mentre un film dipende dal denaro, dal ritorno economico, dagli aspetti finanziari, dal pubblico. Per me invece sono due sfere complementari.
Il suo nome compare tra quelli non accreditati della trasposizione cinematografica di Il nome della rosa del 1986 ad opera di Jean-Jacques Annaud. Può confermarci il suo coinvolgimento nel progetto?
Non è proprio così. Ci sono cinque disegnatori, me incluso, a cui Jean-Jacques Annaud ha proposto di rappresentare dodici scene, o sequenze del film, e dovevamo sceglierne due a testa – quindi due io, due Moebius, due Jean-Michel Nicollet ecc. Ci ha detto di disegnarle come desideravamo, secondo la nostra ispirazione, e sarebbero poi state inserite in un dossier preparatorio per cercare i finanziamenti per il film.
Quindi abbiamo realizzato questo book davvero molto bello composto di disegni d’artista, che era parte del materiale che serviva per ottenere i fondi per la produzione. Era davvero un bell’oggetto e ci ha permesso di produrre il film. Quello che Annaud ha fatto è stato di scegliere un disegno per ciascuno tra quelli che avevamo fatto e basare quelle scene – inquadrature, composizione – sull’immagine disegnata nei bozzetti. Questo è stato il mio contributo.
Tornando alla sua attività di disegnatore e di pittore, questa sua duplice natura prevarica in qualche modo il suo lavorare in un medium differente come il cinema?
La vita di pittore, di disegnatore, è troppo intensa, troppo emotivamente provante, ho bisogno di pause, di evasioni, come il cinema. Come in Italia, anche in Francia lo spirito è il medesimo, ci sono delle barriere, quando realizzo dei film per il cinema, lo faccio per me. Il mondo anglosassone è più aperto di quello francese o italiano, in Francia è molto chiuso, il cinema ha dei “guardiani del tempio” [chi pensa che il proprio bagaglio culturale costituisca una proprietà privata, da condividere unicamente con una cerchia ristretta di persone e considerata sacra al punto da decidere di escludere chi non ne reputano degno], è il Loro tempio. Ci sono certi media, certi giornali che non ti considerano, ed è come se non esistessi. Questa è l’assurdità del sistema. Da parte mia, io miro solamente a fare ciò che desidero fare.
Guardando i quadri esposti qui intorno alla Nuages, è evidente che il blu e il rosso siano ancora molto importanti per lei, quasi una firma distintiva. Cosa significano questi due colori per lei?
L’importanza è quella che lei, che chiunque guarda l’opera, gli conferisce, ciò che ciascuno percepisce come importante. Il mondo è costituito di colori infiniti. E’ possibile che il blu che io uso non corrisponda per nulla al blu che lei vede, che non sia il medesimo blu. Dunque il mio blu è un elemento strutturale, tanto quanto lo è il rosso, di una struttura chiara e netta. Ritengo che siano colori assimilabili alle forme e alle linee, che concretizzano l’idea del quadro, la filosofia della composizione artistica. Si tratta per me di mistero, non gli ho mai dato una spiegazione a parole e non ho mai dato una spiegazione alla natura e ai suoi colori.
Lei è certo celebre per la sua visione del futuro, ma la realtà potrebbe essere il peggiore incubo. Riesce a vedere qualcosa di peggio di ciò che accade ora?
Si può certamente immaginare di peggio. Il peggio è ciò che sta preparando Kim Jong-un, che è un bambino, un bambino che gioca, come Donald Trump. Sono due bambini che dovremmo mettere in una vasca di sabbia, così che possano giocare con le loro bombe. Non mi interessa dire “so immaginare di peggio della realtà”, non è questo che mi motiva. Per esempio, nel 1997, quando è uscito Le Sommeil du Monstre [Il sonno del mostro] ho predetto e ho messo in scena un oscurantismo religioso che di quei tempi voleva dominare sul pianeta.
Dopo una riflessione di qualche anno ho realizzato che, ad esempio, riguardo ciò che stava accadendo in Yugoslavia. I media occidentali, americani ma anche europei, parlavano solo di nazionalismo e di una guerra di nazioni contro nazioni, ma si trattava invece già di una guerra tra religioni. Io questo lo sapevo, perché conoscevo bene la realtà di quei paesi, essendoci nato, perciò già consideravo tale oscurantismo religioso che si stava abbattendo sul pianeta qualcosa di assolutamente possibile, e plausibile. Dopo quattro anni purtroppo abbiamo visto cosa successe con le Torri Gemelle a New York, Al Qaeda, e gli eventi che hanno segnato l’inizio della graduale ascesa dell’islamismo radicale. Dunque io ho sempre creduto molto in questo tipo di previsioni, e adesso quello che mi interessa di più è la visione globale nel contesto del 21° secolo, cruciale per noi, e che determinerà la vita o la morte dell’umanità.
E’ semplice. Concerne tutti gli aspetti, da quello ambientale, a quello ecologico, a quello “planetologico” [ndt: forse un suo modo per includere una sfumatura più sociopolitica rispetto a quella puramente ambientale], e soprattutto l’ influenza del nostro comportamento nei confronti di queste questioni, e la nostra capacità di gestirle. Dovremo fare i conti con l’evoluzione incredibile del digitale, che ci separa in qualche modo dai riferimenti del passato, e ci costringe a ripartire da una “tabula rasa”; così ci troviamo di fronte un nuovo mondo in cui dovranno essere affrontati passaggi ineluttabili come il trans-umanesimo, l’intelligenza artificiale, tutti aspetti già ai blocchi di partenza, pronti a esplodere come in una gara dei 100 mt.
Dunque il mio prossimo libro, che uscirà a novembre, parla un po’ di ciò che potrebbe essere questo mondo se all’improvviso il digitale sparisse: tutto sarebbe paralizzato perché tutto dipende dal digitale, a cui noi abbiamo affidato la nostra vita. Nel 2040 sarà ancora più così e in quell’anno, all’inizio del libro, ci sarà un Bug [il probabile titolo] generale, non ci sarà più nulla da nessuna parte, non è una visione cupa e noir, ma è storia piuttosto verosimile e realistica, in qualche modo classica, e penso di farne una serie televisiva, poiché è un soggetto assolutamente incredibile.
Lei è stato premiato a Lucca nel 1976, prima manifestazione ad aver riconosciuto l’importanza del suo lavoro. Segue ancora l’evento?
Non mi reco quasi più ai festival, ho smesso. Ammiro la tradizione della scena italiana, perché a suo tempo era stata concepita da veri artisti, e veri autori, come Hugo Pratt, Guido Crepax e molti altri. E sono veri autori ed artisti prima che disegnatori. In Francia e in Belgio invece, gli artisti e gli autori sono arrivati tardi sulla scena del fumetto: prima erano solo disegnatori professionisti, appassionati amatori e artigiani. Solo dall’inizio degli anni ’70 alcuni artisti cominciarono ad arrivare sulla scena.
Ciò che mi ha fatto piacere del premio di Lucca è stato che mi sia stato conferito da un paese la cui scena dell’arte del fumetto purtroppo non si è poi evoluta in epoche più recenti, ma che a suo tempo era stata creata su valori fondamentali vicini all’autore e artista, quindi con una prospettiva più viscerale rispetto ad altri paesi.
La mostra organizzata dalla Galleria Nuages è piuttosto eterogenea nelle opere esposte. Può dirci qualcosa a riguardo?
E’ effettivamente un ibrido, ma tutto è ben collegato. Prendiamo ad esempio la litografia, che è una tecnica molto antica e straordinaria in cui si lavorava direttamente sulla pietra e poi l’immagine veniva impressa sulla carta. E’ un procedimento utilizzato solo da veri artisti. In seguito la pietra viene pulita e lisciata nuovamente, i disegni che vi sono realizzati sopra svaniscono, per fare spazio ad altri che verranno.
La pietra che vede lì – l’ho lasciata per mostrarla al pubblico, poiché è il negativo dell’ultimo disegno che è collocato lì a fianco – viene dalla Biennale di Venezia dove avevo un’installazione, è la decostruzione di un’installazione. Questa pietra è stata al servizio del disegno per molto tempo. Potrebbe essere che Pablo Picasso abbia disegnato su questa pietra, perché Picasso ha lavorato nell’atelier dove io ho lavorato e tuttora lavoro, e dove attualmente lavora anche David Lynch. Quando io non ci sono, lui occupa l’atelier e viceversa. Dunque è piena di emozioni, poiché probabilmente da questa pietra, nel tempo, sono stati “grattati via” disegni di Marc Chagall, di Picasso, di tutti gli artisti che sono venuti prima. La base comune dell’arte è il disegno, il disegno sulla pietra.
E’ necessario non dimenticarsi che le prime tracce di arte pittorica risiedono nelle grotte, sulla pietra. Questa invece è la bozza di un fumetto, quindi disegni monocromi. C’è poco colore. Sono narrativi, e sebbene decontestualizzati, sono parte di una storia. Per i dipinti, invece, provengono da una serie che mi è stata commissionata carta bianca per Chanel a Tokyo. Dunque ho realizzato 15 tele, di cui qui abbiamo solo 5 o 6 esemplari, che hanno poi hanno esposto in una location meravigliosa, la Nexus Hall di Tokyo, ed in seguito in luoghi ancora più grandi, sempre in Giappone. Mi era stata data carta bianca, allora ho ripreso il simbolo di Chanel – possiamo riconoscere le due C là in alto – e ho inserito quelle che sono alcune delle mie tematiche centrali, ossia l’umanità, la sensualità del corpo. Sono presenti alcuni dei miei personaggi, lì è presente il Monte Fuji, etc. Ci sono poi tavole in cui traspare il tema della sopravvivenza del pianeta nel 21° secolo, su come noi viviamo e interagiamo sul nostro pianeta sia tra uomini che nel nostro rapporto con il mondo animale.
Come vive le sue due anime di fumettista e pittore e l’essere considerato sul mercato come uno degli artisti più quotati d’Europa?
Lo vivo in modo lucido e sereno. Sono stato sorpreso riguardo all’esplosione delle mie quotazioni nel 2007 e in seguito, nel 2012-13. Mi hanno detto che c’è solo un pittore francese vivente che le supera, Pierre Soulages, e io vengo subito dopo. Per me è qualcosa di astratto, però è una realtà che accetto, che mi fa piacere, mi rassicura, ma che mai mi ha impedito di continuare ad essere ciò che sono.
E piuttosto che essere forzato a continuare solo la pittura, mi dedico ad essa a periodi, nel frattempo seguo quelli che sono i miei interessi, come per esempio dedicarmi a questo album “Bug”, che tratta un argomento che come abbiamo detto mi interessava. Sto inoltre preparando un film, ma senz’altro è qualcosa che mi dà sollievo. Prima ero felice del riconoscimento critico e artistico, ma oltre a quello ho realizzato di avere anche un riconoscimento del mercato dell’arte.
Sono molto consapevole e lucido sul fatto che tale situazione possa essere fluttuante, sono fenomeni effimeri e incomprensibili. Jean-Michel Basquiat ora non c’è più, è stato un caso eclatante, il modo in cui le sue quotazioni sono esplose, ma è qualcosa che ancora per me può essere considerata “normale” nel mondo dell’arte. Sono più dubbioso su Jeff Koons, quello lo comprendo meno, anche se lo rispetto. Credo che l’arte oggi sia un po’ dappertutto, che non sia più quella dell’artista creatore, ma quella dell’uomo di marketing. Andy Warhol era un re del marketing, senz’altro un artista che ha segnato il suo tempo, ma soprattutto un grande uomo marketing.
Il suo stile sta in qualche modo evolvendo e/o ha intenzione di sperimentare nuove tecniche in futuro?
Potrei fare cose differenti, ho disegnato in modo molto realistico, ho disegnato diversi tipi di personaggi. Tecnicamente lo potrei tranquillamente fare, ma non mi interessa. I miei personaggi, sono realisti, ma non sono davvero realisti, le loro caratterizzazioni non lo sono del tutto. Così nella pittura cerco di evitare l’aneddotico, cerco di creare una rappresentazione di uomini e donne ibrida, c’è un po’ di ibridismo.
Lo stesso vale per le storie, in cui continuo a guardare a un futuro prossimo. Avrei potuto raccontare la mia vita, ho avuto una vita straordinaria, e adesso va di moda l’autobiograficità e si adatta bene al medium del fumetto, ma non mi interessa farlo. Credo sia anche una forma di pudore. Avrei potuto raccontare la guerra del ‘14 o il XX secolo, che mi appassiona per tutto ciò che è accaduto, la rivoluzione sovietica, la guerra, che è terribile, ma anche un argomento appassionante.
Non lo rappresento perché penso che il mio sguardo sia attirato verso il futuro, ma verso l’idea di un futuro plausibile. Non posso immaginare un’opera spaziale, come Valerian o La guerra dei mondi – che adoro, ma che non è la mia visione, che è proiettata a venti, trenta anni. Non è così lontano, ma abbastanza per poter continuare a essere uno specchio del contemporaneo.
Visto che si è parlato di cinema e bei film, ultimamente è uscito Dunkirk di Christopher Nolan, che è stato tra l’altro girato in Francia …
Non sono riuscito a vederlo perché ero in Corsica a lavorare sul mio libro. Mi piace molto il cinema, anche le commedie francesi, il cinema d’autore francese. Mi piacciono tutti i generi, i film storici come Barry Lyndon, i film di guerra mi affascinano, come quello di Mel Gibson [La battaglia di Aksaw Ridge], che è un film affascinante, è un film di folli e Mel Gibson è folle. Ma il film, che in molti pochi conoscono e che è il mio favorito di guerra, è uno russo del 1985, e il titolo francese è Requiem pour un massacre [in italiano ‘Va’ e vedi’ di Elem Klimov], un film eccezionale.
Qui sotto un video del Making Of di Cinémonstre e più sotto una gallery con alcune delle altre opere esposte alla Galleria Nuages:
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