Horror & Thriller

Gwen | La recensione del folk horror di William McGregor

Maxine Peake e Eleanor Worthington-Cox sono le protagoniste di un cupo dramma famigliare dalle derive soprannaturali ambientato nelle campagne del Galles del XIX secolo

Gwen, notevole debutto alla regia di un lungometraggio del britannico William McGregor (che ne ha scritto ance la sceneggiatura) è uno di quegli horror peculiari, che non cerca l’effetto spettacolare, ma indaga l’incubo insito nel tangibile, nel quotidiano, più che nel soprannaturale. Certo, se di quotidianità si può parlare, è una sua declinazione lontana, indietro in un tempo cupo, in un XIX secolo sul finire della rivoluzione industriale, collocato in una sfera rurale e scabra, popolata di oscuri presagi.

Si tratta di una sinistra storia familiare e protagonista ne è proprio la Gwen (Eleanor Worthington-Cox) del titolo, un’adolescente che vive con la rigidissima e algida madre Ellen (Maxine Peake) e la sorella minore Mari (Jodie Innes) in una fattoria dispersa nelle campagne del Galles. L’esistenza è difficile, ancor più per il fatto che il padre sia lontano e non accenni a fare ritorno. La giovane è costantemente sgridata veementemente dalla genitrice, le sue mansioni sono molteplici e non c’è spazio per alcuno svago; tutto è all’insegna della frugale austerità. Tutto ciò traspare subito dall’ambientazione stessa; in particolare gli interni non trasmettono alcun calore, anzi ci comunicano subito tutta la durezza della vita condotta da Gwen, quasi in una propagazione della natura anaffettiva della matriarca. La casa di pietra che la notte s’illumina alla luce fioca delle candele, i toni spenti del grigio, del tortora e dei marroni, lo spoglio mobilio: tutto è gelido, inospitale. Il notevole lavoro alla fotografia di Adam Etherington riesce a materializzare nei colori e nelle ombre l’intangibile.

Eppure, i maltrattamenti a cui la ragazza è sottoposta non sono neppure la nota più fosca. Ellen è contraddistinta da qualcosa di ancor più inquietante. Sul filo del soprannaturale, la donna è afflitta da una misteriosa malattia che le causa convulsioni simili ad attacchi epilettici durante il lavoro a cui instancabilmente si dedica. I sintomi sono agghiaccianti. Gli occhi torvi e stralunati, gli arti immobili in innaturali torsioni, l’autolesionismo, la visione angosciante insinua in noi che assistiamo – e in Gwen che viene infatti perseguitata da incubi terribili – il dubbio che non il male non abbia solo origini naturali … Che una causa immateriale, diabolica, abbia determinato l’aggravarsi sempre più repentino delle condizioni fisiche della malata? D’altronde, si tratta di una forza distruttrice (fisica o soprannaturale che sia) che sembra essere dilagata per tutta la zona circostante, avendo già esteso i suoi atri tentacoli sul vicinato e incombendo alle porte della fattoria.

Sospeso tra realtà e tenebra, all’infelice condizione della capofamiglia si aggiungono una serie di eventi nefasti, che aggravano la situazione già di per sé drammatica. Una moria di animali, uova danneggiate e altri fatti funesti affossano le disastrate economie del nucleo famigliare monco. A ciò si aggiunge la necessità di medicine e le spese annesse, facendo sempre più sprofondare Gwen nell’angoscia. E noi ne percepiamo ogni sfumatura grazie anzitutto all’ottima interpretazione di Eleanor Worthington-Cox (Maleficent), che riesce a comunicare tutta la gamma dei sentimenti, dalla preoccupazione al terrore cieco, dalla volontà disperata di combattere alla rassegnazione e al dolore più estremo che denota la chiusura senza speranza, in cui un primo piano sul suo volto attonito non può che suscitare empatia nello spettatore.

D’altra parte, Maxine Peake (La teoria del tutto) non è certo da meno: la sua performance decisamente rimarchevole oscilla in maniera terrificantemente naturale tra stati di aggressività e di pura follia. Madre e figlia diventano così due epicentri contrastanti in dialogo tra loro, due poli opposti che sprofondano in un circolo vizioso che conduce anche noi fin negli abissi della più bieca e totale disperazione. È una discentio ad inferos sospesa tra l’emisfero della mente, il propagarsi del maligno (che sia una concreta minaccia o che sia solo un’allucinazione) e la pressione di una società iniqua e spietata.

Terzo polo dell’azione è difatti la comunità con cui Gwen, Ellen e Mari vengono a contatto. Una plutocrazia retta da un baronato decisamente poco caritatevole preme perché i più deboli (una donna da sola che alleva le due figlie certo ne è un esempio emblematico) soccombano alle logiche espansionistiche del ceto dominante, nella fattispecie, alla vendita della proprietà da parte di Ellen. In uno scenario claustrofobico, senza possibilità di salvezza, le protagoniste sembrano non avere scampo da un destino inevitabile, in cui il diabolico è forse solo metafora dell’operato maligno dell’umano, della collettività, a cui non è possibile in alcun modo sottrarsi. Desolante ritratto di un’altra epoca in cui dominano abusi, ingiustizie e superstizione, in Gwen vige un orrore che prescinde la mera – e a volte ritrita- iconografia della paura fatta di effetti speciali già visti e presenze innaturali posticce, per andare a toccare i più profondi lidi dell’animo umano.

Il folk horror – costato 2 milioni di sterline – sta decisamente vivendo una rinascita negli ultimi tempi, dopo l’uscita di Apostolo di Gareth Evans (la recensione) lo scorso anno e l’imminente Midsommar – Il Villaggio dei Dannati di Ari Aster (la recensione).

Ora, alla lista va aggiunto Gwen, di cui potete farvi un’idea nel trailer internazionale di seguito, in attesa che si trovi una data d’uscita per l’Italia:

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Published by
Sabrina Crivelli