Voto: 6.5/10 Titolo originale: Witte Wieven , uscita: 25-01-2024. Regista: Didier Konings.
Heresy (Witte Wieven): la recensione del folk horror che viene dall’Olanda
17/07/2025 recensione film Witte Wieven di Francesco Chello
CG Entertainment distribuisce una piacevole sorpresa che mescola le suggestioni del folklore olandese e di creature leggendarie a tematiche contemporanee ed un’anima femminista. Didier Konings costruisce un’atmosfera inquietante attraverso un’estetica intensa e curata a cui abbina tocchi di violenza funzionale al racconto

Fa sempre piacere quando un distributore e/o una piattaforma scovano qualche titolo interessante nel sottobosco del cinema indie. E’ il caso di CG Entertainment che dal 17 luglio porta in Italia l’olandese Witte Wieven che per il mercato internazionale trova un titolo anglofono in Heresy.
Il film sarà disponibile a noleggio grazie al rinnovato servizio di CG TV Streaming, mentre dal 20 luglio verrà incluso nella library riservata agli abbonati, oltre che distribuito sulle principali piattaforme attive in Italia.
Ad incuriosirmi è stata già la genesi del mediometraggio (durata compatta da 61 minuti) che nasce come sesto episodio della serie Koolhoven Presentert, un progetto partorito dalla mente del regista e sceneggiatore Martin Koolhoven – e prodotto per la tv olandese da Make Way Films, VPRO ed NPO – allo scopo di supportare il cinema di genere e far emergere nuovi registi.
Una sorta di talent development show in cui ogni partecipante riceve autonomia creativa e produzione televisiva, per la realizzazione di un corto/medimetraggio. Koolhoven si rende presto conto che Heresy ha quel qualcosa in più che può portarlo ad ambire anche ad una distribuzione diversa, innesca un circuito internazionale che include una serie di festival come le edizioni 2024 di International Film Festival di Rotterdam, Fantastic Fest, Jakarta Filmweek, GrimmFest, Sitges Noves Visions, Scream Fest Horror Film Festival, e l’edizione 2025 dell’HARD:LINE Film Festival.
Witte Wietten è anche l’esordio alla regia di un film per Didier Konings, che prima di allora aveva diretto solo corti ed un video musicale ma può vantare un curriculum in gran parte hollywoodiano come concept artist ed esperto di effetti visivi con esperienze in grosse produzioni come Pirates of Caribbean: Dead Men Tell No Tales, Wonder Woman, Rampage, Tomb Raider, The Conjuring 2, Ghostbusters: Legacy, Kingdom of the Planet of the Apes.
Ed è proprio grazie a questo background che Konings riesce ad ovviare a quello che in gergo qualcuno chiama shoe string budget, dimostrando di essere pronto per uno step successivo. Malgrado le limitazioni, il regista ha saputo trasferire la sua sensibilità estetica nel film e sfruttare la sua esperienza nel campo dei VFX per ottenere un risultato visivamente intenso e curato su cui poggiare un’atmosfera impattante, intensa ed opprimente.
Partiamo proprio dal titolo originale, mi rendo conto meno comprensibile ma sicuramente più evocativo ed efficace. Le Witte Wietten sono figure leggendarie del folklore olandese e tedesco antico, legate a miti precristiani dell’Europa settentrionale. Il loro nome significa letteralmente ‘donne bianche’ (nel senso di purezza) o ‘donne sagge’, a seconda delle interpretazioni linguistiche. Spiriti femminili che abitano le foreste, le colline, i tumuli – soprattutto le colline sacre nel Gelderland e Overijssel, spesso associate a nebbia, bruma, luci fluttuanti, si manifestano soprattutto all’alba o al tramonto.
Si riteneva proteggessero le donne oppresse, i neonati, gli amanti traditi, e punissero i peccatori, i violenti, gli uomini ingiusti. In alcune storie erano viste come guaritrici e levatrici ovvero spiriti benigni che curavano malattie e aiutavano nei parti, in altre diventano vendicatrici e custodi con caratteristiche di figure terrificanti che rapivano o facevano impazzire chi osava disturbare i loro luoghi sacri, in altre ancora fungevano da guide spirituali aiutando le anime dei morti a trovare pace.
Con l’arrivo del Cristianesimo ed annessa repressione, le Witte Wieven furono demonizzate come streghe o spettri pericolosi, relegate a superstizione da eliminare, assimilate in racconti morali di peccato e punizione. Il folklore locale, però, le ha mantenute vive sotto traccia, spesso associate a culti della fertilità o spiriti ancestrali femminili. Insomma, un bel potenziale. Heresy riprende la tradizione delle Witte Wieven in un contesto horror femminista; la creatura salva Frieda dalla violenza maschile, agisce come forza naturale ed atavica che protegge, trasforma, punisce, quasi non fossero mostri ma l’eco di un sapere arcaico che viene rifiutato e represso dal patriarcato cristiano.
Il contesto ambientale è da collocare nell’Alto Medioevo, in un villaggio contadino dell’attuale Olanda, in una fase storica in cui il Cristianesimo stava soppiantando i culti pagani locali. L’ambiente è bagnato, fangoso, nebbioso, silenzioso quasi a sottolineare la tensione tra natura e dogma. Luoghi cupi e rigorosi all’interno di una zona rurale indefinita ma fortemente evocativa delle campagne e di quei posti in cui la leggenda delle Witte Wieven ha origini reali. Una duplice location, come fossero due facce della stessa medaglia. Il villaggio in cui domina l’oppressione religiosa e la superstizione, e la foresta che assume un ruolo mitico: rifugio, tempio pagano, luogo della metamorfosi.
Il film è recitato in basso sassone orientale (in olandese, Nedersaksisch), un dialetto regionale antico parlato in alcune province dei Paesi Bassi, tra cui Overijssel e Drenthe. Una scelta coraggiosa, volutamente filologica e anticonvenzionale che mira a rafforzare la credibilità storica, dare al film un’aura arcaica e rituale, richiamare le radici etniche e linguistiche del mito delle Witte Wieven. Scelta che pare sia stata molto apprezzata nei festival, anche perché inconsueta nello stesso cinema olandese che di solito opta per la lingua nazionale standard. Ambientazione e lingua che quindi sono elementi centrali dell’identità del film, non solo background ma struttura simbolica. Heresy non si limita a raccontare una leggenda ma intende trasportare lo spettatore in quel mondo, permettendogli di viverla nella sua forma originale.
L’influenza più o meno dichiarata sembra essere quella di The Witch di Eggers. La sceneggiatura di Marc S. Nollkaemper è minimalista ma incisiva, non c’è superfluo, scava direttamente nel conflitto spirituale ed emotivo di Frieda – interpretata da Anneke Sluiters con intensità fisica e emozionale, il suo viso trasmette forza e sofferenza senza mai perdere la compostezza richiesta. Una vicenda costruita sul folk horror che trova il suo sfogo in un soprannaturale viscerale che non si limita al suggerito ma mostra la creatura ed i suoi atti di violenza in tutta la loro concretezza.
Una componente del film che si intreccia con un’anima femminista che intende veicolare argomenti tanto importanti quanto tristemente attuali. Femminista nel senso buono del termine e per chi ama le etichette, perché in realtà si tratta di tematiche che in un mondo utopisticamente giusto non necessiterebbero di essere attenzionate ma che nel nostro diventano battaglie che meritano di essere combattute.
Mi riferisco alla donna oppressa dalla società patriarcale, dalle convenzioni (e le convinzioni), dalla violenza sia fisica che psicologica, ma anche la strumentalizzazione della gravidanza (e la colpevolizzazione della sterilità), la misoginia, il peso specifico che l’estremismo religioso può avere non solo in tutte queste situazioni ma sulla società tutta. Frieda è una protagonista femminile sufficientemente complessa, non è una vittima passiva ma una donna con personalità e forza di volontà, che raggiunge la propria presa di coscienza attraverso l’apertura mentale nei confronti del soprannaturale.
La visione si chiude su un finale volutamente ambiguo, una scena sospesa tra estasi ed orrore, l’unione tra vittima e natura, tra trauma e rinascita. Frieda si spoglia dell’identità imposta (donna, sterile, peccatrice) e assume quella di forza antica e primordiale che precede e sfida il Cristianesimo patriarcale del villaggio. Un’ultima inquadratura fissa ed ipnotica, accompagnata da suoni naturali e respiri per lasciare lo spettatore in sospeso tra i due mondi, un finale simbolico in cui la foresta non è solo rifugio ma nuova carne, il ciclo continua con la comunità che ha perso una donna ma ha risvegliato qualcosa che non potrà più controllare.
Witte Wieven ricorre ad un’estetica pittorica, all’uso di chiaroscuro ed inquadrature evocative. La fotografia di Luuk de Kok allestisce un medioevo austero e umido fatto di nebbia densa, luci fioche, contrasti claustrofobici in modo da esaltare le sensazioni orrorifiche. Il montaggio è funzionale alla tensione aiutato da una durata compressa che non favorisce momenti morti, mentre il sonoro ricorre all’utilizzo di grida, silenzi e rumori naturali per amplificare l’atmosfera inquietante. Effetti visivi e pratici sono sorprendentemente maturi ed hanno una resa superiore al budget effettivo, sia per quanto riguarda l’entità nella foresta che risulta grottesca e dettagliata, che in momenti di sangue e violenza dal sapore di body horror, in sostanza il low budget non tradisce ma anzi rende ancora più credibile la scia artigianale.
Ricapitolando. Heresy è una piacevole sorpresa che pesca nel folklore (e persino nel linguaggio) olandese ma vestendosi di un taglio, di un’eleganza ed un’estetica internazionale. Denso, viscerale, femminista. Gioca su un’atmosfera scura e angosciante in cui mito ultraterreno e trauma femminile finiscono col fondersi, così come tocchi di violenza potente ma mai gratuita fanno da sfondo a rilevanti tematiche contemporanee.
La densità narrativa e visiva dimostra buone capacità di ottimizzazione delle poche risorse a disposizione, la durata compressa lo rende efficace come cortometraggio esteso che quindi evita momenti filler e noia, un tempo sufficiente ad imprimere nello spettatore un mix di terrore e riflessione sociale.
Di seguito trovate il trailer di Heresy (Witte Wieven):
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