Il diario da Venezia 77 | Episodio 1: tra Lacci e il contagio, il festival del disagio
06/09/2020 news di Giovanni Mottola
Pochissimo convinti dai manifesti programmatici di gruppo e dal film di Daniele Lucchetti con Rohrwacher / Lo Cascio / Morante / Orlando
Agli occhi del mondo, la Mostra del Cinema di Venezia del 2020 si sta svolgendo (quasi) come quello degli anni passati: presentazioni di film in anteprima e sfilate di divi sul tappeto rosso, con la sola differenza di qualche posto vuoto nelle sale per garantire le distanze tra gli spettatori. Questa è l’immagine che si vuole vendere della presente edizione, pensata infatti più a beneficio di chi non c’è rispetto a quello di chi c’è, anche per dimostrare che è possibile organizzare grandi eventi in sicurezza e che il cinema è pronto a ripartire.
Addirittura, nella serata inaugurale, hanno dato mostra di fronte comune i sette Direttori dei principali festival cinematografici d’Europa (Cannes, Berlino, Locarno, Rotterdam, Karlovy Vary, San Sebastian e Londra, con la sola responsabile di quest’ultimo assente per motivi familiari), per anni consumati da acerrime rivalità, i quali hanno letto un documento da essi stessi redatto a sostegno della settima arte e di chi la realizza. Per accorgersi che si trattava di una solidarietà soltanto di facciata e pretestuosa basterebbe ricordare il gesto del Direttore artistico di Cannes Thierry Fremaux, che ha apposto una sorta di “bollino qualità” a tutti i film da lui selezionati per l’edizione dello scorso maggio del suo festival, poi non realizzatosi causa pandemia.
In questo modo Fremaux ha impedito che quei film venissero presentati in altre rassegne, Venezia in primis, e ha difeso una rendita di posizione dalle caratteristiche esattamente antitetiche rispetto a quello del discorso pronunciato al Lido. La situazione contingente avrebbe potuto fornire l’occasione per organizzare una manifestazione fuori dall’ordinario, frutto di una alleanza una tantum Cannes-Venezia, che offrisse al pubblico uno spettacolo dal vivo con il meglio del cinema prodotto in questo anno disgraziato. Allora sì che i reciproci Direttori avrebbero fatto la figura dei due storici rivali Coppi e Bartali nella famosa foto della borraccia, dove non si sa di preciso chi aiuta chi, ma sono chiari la lealtà e il beneficio di entrambi: Cannes avrebbe trovato una vetrina di lusso dove proporre i “propri” film e Venezia avrebbe potuto fornire un programma di maggior qualità rispetto alla deficitaria rassegna di quest’anno.
Il gesto comunque sarebbe potuto partire solo da Thierry Fremaux, mentre ad Alberto Barbera non può essere imputata alcuna colpa al riguardo. Tutti questi sforzi per offrire al mondo questa immagine della Mostra del Cinema, anche come concetto generico, trovano il loro simbolo nel muro di transenne innalzato davanti al red carpet, allo scopo di tenere lontani i cacciatori di autografi, in passato capaci addirittura di accamparsi la notte precedente per conquistare i posti migliori. Ottenendo così un effetto paradossale: chi è a casa vede quindi ora quelle passerelle che ai presenti al Lido sono precluse.
Chi è venuto di persona tocca invece con mano, oltre a questo, anche tutte gli altri disagi dovuti ai nuovi protocolli di sicurezza: prenotazione obbligatoria per ogni film, con assegnazione rigorosa del posto; divieto di ingresso in sala a proiezione iniziata anche da pochi secondi (per l’impossibilità di raggiungere agevolmente il proprio posto e al tempo stesso di sedersi in un altro rimasto vuoto, data la necessità del tracciamento); mascherina obbligatoria non solo all’ingresso in sala ma anche durante la visione, con gran fastidio di chi porta gli occhiali, perché si appannano in continuazione. Precauzioni sacrosante, anche se è bene ricordare che l’unico sistema per evitare ogni rischio sarebbe adeguarsi a quel pensiero di Blaise Pascal, secondo il quale tutti i guai del mondo derivano dal fatto che le persone non se ne stiano a casa propria (anche se ormai, con il computer, possono far danni anche da lì).
È evidente infatti che venire in una manifestazione come un festival del cinema equivale a correre qualche rischio. Basti pensare che ai varchi d’ingresso della “cittadella” del cinema viene misurata la febbre, con divieto d’ingresso per chiunque abbia più di 37,5°, ma che quasi la metà dei contagiati non presenta alcun sintomo. All’Hotel Excelsior la temperatura viene misurata non soltanto all’ingresso ma persino in uscita, per via della possibilità di contagiarsi sulla spiaggia sottostante che comunica con le altre. Pare che chi abbia la febbre in uscita venga trattenuto all’interno in attesa di tampone e forse addirittura anche per una quarantena a cinque stelle lusso. Su quest’ultimo punto però non ci giureremmo.
Insomma, quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia procura inevitabili rischi, che gli irriducibili appassionati si caricano in spalla con un fatalismo degno di Van Eyck e la sua poesia “Il giardiniere e la morte”. Il problema vero è che tutti questi disagi appena elencati sono compensati solo in parte da un programma non proprio sfavillante per il momento e infatti in giro si vede molta meno gente del solito. I numeri diramati dalla Biennale parlano di una riduzione del numero di accrediti pari alla metà: dai circa 12.000 degli scorsi anni si è passati ai 6.000 del 2020, con i soli giornalisti, cioè la categoria che deve esserci per motivi professionali, calati da tre a duemila.
Certo, il fatto che il ‘biglietto da visita’ di Venezia 77 sia stato un film come Lacci di Daniele Luchetti, tratto dall’omonimo libro di Domenico Starnone, deve aver scoraggiato molti. Era dal 2009, con Baaria di Giuseppe Tornatore, che un film italiano non apriva la Mostra di Venezia e, se Lacci è stato il migliore tra tutti quelli visionati da Barbera e il suo staff, si è capito il perché. È il racconto di anni di vita in comune di una coppia di coniugi (Alba Rohrwacher e Luigi Lo Cascio da giovani, Laura Morante e Silvio Orlando da vecchi): dalla separazione, avvenuta quando lui confessa di aver preso una sbandata per una collega, alla riunificazione, complici l’ignavia anche sentimentale di lui e la presenza di due figli in giovane età, per concludersi con uno scampolo di vecchiaia, tempo di rimpianti e bilanci fallimentari. In quel matrimonio non ha funzionato nulla, marito e moglie sono entrambi insopportabili, seppur per diverse ragioni, e sono tornati insieme solo per disperazione, i figli hanno pagato da adulti i problemi tra i genitori, diventando persone irrisolte.
Daniele Luchetti affronta un tema già ampiamente trattato da Ingmar Bergman con Scene da un matrimonio, quello della coppia che finisce per stare insieme per pigrizia, noia e convenienza nonostante l’assenza di amore, rendendolo ancor più pesante e tedioso per la presenza della naturalmente isterica (Sci)Alba Rohrwacher. Il film non ha un momento di leggerezza nè di ironia e non riesce ad oltrepassare gli stereotipi tipici del cinema italiano nel racconto di dinamiche familiari e sentimentali. Impreciso anche il casting, dal momento che la Morante non può impersonare la Rorhwacher vecchia, salvo che per la comune tendenza alla nevrosi, né Orlando appare credibile come Lo Cascio anziano, salvo che per la propensione di entrambi a farsi scivolare tutto addosso passivamente. Irriconoscibile l’ingrassata, non si sa se per il film o di suo, Giovanna Mezzogiorno nella parte della figlia. A chi si chiedesse la ragione del titolo, bisogna rispondere che ‘lacci’ è l’unico strumento che potrebbe evitare allo spettatore di scappare dal cinema dopo i primi cinque minuti.
Di seguito il trailer ufficiale di Lacci:
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