Voto: 7/10 Titolo originale: The Killing of a Sacred Deer , uscita: 20-10-2017. Budget: $3,000,000. Regista: Yorgos Lanthimos.
Il Sacrificio del Cervo Sacro: la recensione del film diretto da Yorgos Lanthimos
07/10/2017 recensione film Il sacrificio del cervo sacro di Sabrina Crivelli
Il regista greco ci immerge in angosce ancestrali, concretizzando un'arcana minaccia che pervade il reale in cui si muovono Colin Farrell e Nicole Kidman
Yorgos Lanthimos è senza dubbio capace di creare inquietanti suggestioni che proiettano nel filmico angosce ancestrali, cristallizzate in un’immagine limpida, freddamente perfetta, e in dialoghi banali e paradossali allo stesso tempo. Lo fece con il bellissimo e distopico The Lobster nel 2015, replica oggi con l’altrettanto ansiogeno e minuzioso Il Sacrificio del Cervo Sacro (The Killing of a Sacred Deer), che di molto si discosta dalla pellicola antecedente per ambientazione, allora avveniristica e latamente fantascientifica, qui attuale e realistica, ma ne mantiene il medesimo senso di latente e ineffabile minaccia.
Come la misteriosa trasformazione che nel precedente lavoro toccava a coloro che non riuscivano a trovare un partner, anche in Il Sacrificio del Cervo Sacro un’arcana malia è il perno centrale della narrazione, densa di inquietudine, che però stavolta s’incentra su una famiglia all’apparenza normale.
La vita di Steven Murphy (Colin Farrell), un chirurgo di primo acchito irreprensibile, sembra infatti realizzata da ogni punti di vista, professionale e soprattutto personale, con l’incantevole e sagace moglie Anna (Nicole Kidman), un’oftalmologa, e due figli esemplari, Kim (Raffey Cassidy) e Bob (Sunny Suljic). La quotidianità sembra felice, almeno in superficie, seppur paia sottendere una certa freddezza nei rapporti che sin da subito ci vengono presentati tra i vari personaggi: quasi un approccio chirurgico alla vita domestica, aleggia un’affabile anaffettività in ogni gesto e in ogni parola.
Cede l’armonia, sin troppo affettata, del focolare, quando il capofamiglia introduce ai suoi cari un adolescente problematico, Martin (Barry Keoghan), il cui padre si scopre essere stato un suo paziente, deceduto sul tavolo operatorio. Ne consegue una sinistra successione di eventi inspiegabili: prima Bob, poi Kim non riescono più a muovere le gambe, vengono escluse tutte le cause fisiologiche, sembra una paralisi di origine psicosomantica, poi succede l’inappetenza; tutto è inspiegabile con la logica o la scienza e i molti luminari interpellati brancolano nel buio.
Tutto è ammantato da una incipiente ambiguità. La narrazione potrebbe addirittura definirsi metafisica, quale bivalenza tra riconoscibile ed enigma, tra verisimile e misterico, come se nel tessuto del rassicurante mondo che conosciamo siano occultate mille ombre, remote vestigia di oscuri poteri, di terribili maledizioni. L’ermetismo di Yorgos Lanthimos è certo palese nell’inintellegibilità delle cause dei fatti, come delle motivazioni dei personaggio.
Così lo spettatore non cessa mai d’interrogarsi sulle azioni di Steven, che, terribilmente razionale e volitivo in ogni aspetto della sua esistenza, è fin troppo illogicamente conciliante nel suo rapporto con Martin, la cui remissività è all’opposto una forma passivo aggressiva per affermare la sua volontà con un’assiduità via via sempre più irritante.
Rimane imperscrutabile, ancor prima, la cagione di tanta sollecitudine verso quello che dovrebbe essere uno sconosciuto; ancor più, visto che questi è terribilmente invadente con il dottore, che invece sembra in più passaggi incapace di particolare trasporto emotivo, perfino i suoi stessi figli. Molto abile è Colin Farrell a portare sullo schermo la complessa psicologia del personaggio, mantenendosi sempre algido e imperscrutabile.
Altrettanto indecifrabile è Martin, sospeso tra un fosco fascino, maniere urbane e eccessi socialmente inaccettabili. Parte del suo essere profondamene inquietante è proprio questa sua duplice parvenza e da estremamente servizievole in principio diviene progressivamente sempre più intimidatorio e non solo … Nell’estrema ordinarietà del ragazzo è racchiuso un potere maligno ed immenso, ma non ci viene dato sapere quale. Incredibilmente riuscita nel difficilissimo compito è allora la performance di Barry Keoghan.
Decisamente ambiguo è altresì lo sviluppo della diegesi, che rimbalza indistintamente tra medicina e forze occulte, ma non viene fornita alcuna chiave di lettura, nemmeno sul finale, aperto e paradossale, lasciando chi guarda sgomento; d’altro canto il regista greco non è avvezzo a risposte edificanti o possibili catarsi.
Al mistero si accompagna poi un’idea di colpa di matrice classica per cui l’adolescente è, per qualche arcana ragione, latore di una crudele e forzosa espiazione. Secondo un principio impietoso di ereditarietà tipico degli antichi greci, a scontare le nefandezze dei padri possono essere perfino i figli innocenti, che si trovano a dover estinguere un’immeritata quanto terribile punizione, ossia una perentoria legge del taglione. Un congiunto per un congiunto.
L’ipocrita superbia che impediva a Steven di ammettere un imperdonabile errore, vanità che peraltro è suo tratto distintivo per buona parte del film, lo conduce a un destino terrificante, a una scelta paradossale, quasi veterotestamentaria, o tragica in senso teatrale: un sacrifico purificatore, come d’Isacco o d’Ifigenia, a cui rimanda il titolo stesso; d’altronde l’Ifigenia è perfino citata in un dialogo nelle sequenze in relazione alla resa scolastica di Kim, fornendo una chiave di lettura tra le righe. La hybris è punita quanto il misfatto, con la più terrificante delle scelte.
Allegorico e sibillino, il messaggio contenuto in Il Sacrificio del Cervo Sacro sfida ancora una volta il razionalismo post-contemporaneo, concretizzando incubi atavici nel copione, ovvero nello scambio di battute in cui le parole prescindono il significato in più foschi rimandi, ma anche definendo la fotografia, alcuni aspetti del girato e la scelta dell’apparato sonoro e musicale.
Nell’emisfero visivo vige una chiarezza, una trasparenza straniante, addirittura accecante in molti esterni, come in alcuni interni, in particolare della casa dei Murphy e dell’ospedale; a ciò si aggiunge l’utilizzo costante di campi lunghi e lunghissimi, peraltro in cui l’occhio della camera da presa riprende il soggetto da prospettive inusuali, come quella obliqua che inquadra la sala gremita di medici dove Steven sta tenendo un discorso o quella aerea con cui è catturato il momento in cui Bob cade a terra privo di sensi ai piedi delle scale mobili.
Infine, le musiche sono sovente sinfonie di archi che stridono alternate a suoni sintetici e alla voce di Kim, che si esercita per il coro in cui canta. Tali scelte estetiche e sonore acuiscono il senso di détournement già trasmesso dalla diegesi.
Un crudele eppur garbato carnefice, che nell’aspetto modesto, addirittura imbelle, occulta la sua natura ben più pericolosa incombe sull’uomo comune, il membro rispettato della società, e sui suoi cari, e non ricorre ai meschini mezzi dell’uomo, ma a qualche imponderabile potere, che prescinde da lui, rimandando quasi a un dio arcaico e vendicativo. Ciò che atterrisce allora di Il Sacrificio del Cervo Sacro, nei cinema italiani dal 28 giugno 2018, è la mancanza di un senso, è l’horror vacui che ci si palesa davanti, sono le connaturate fobie junghiane che ci si parano innanzi ai nostri occhi e un fotogramma dietro l’altro divorano i nostri pensieri.
Di seguito il trailer:
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