Il regista svedese mette in scena una rappresentazione della perdita e del relativo dolore bizzarra ed evocativa, carica di orrore ancestrale e avvolta in un loop temporale denso di simbolismo
C’è, in Natura, una aspettativa di forma e di funzione. Le stagioni determinano la crescita e il cambiamento, poiché la Terra vive un periodo di ristoro e di fioritura prima di appassire e decadere, solo per ricominciare il ciclo da capo con il ritorno della primavera. Un altro aspetto fondamentale in natura è il Tempo. È molto meno tangibile e richiede l’intervento dell’umanità per comprendere il percorso che un evento compie per arrivare a un altro nel corso della storia. A differenza delle stagioni, il tempo non è mai ciclico, si spinge sempre in avanti, si muove incessantemente verso un nuovo giorno, ancora e ancora e ancora, fino a qualunque sarà la conclusione.
Per il suo secondo lungometraggio, lo sceneggiatore e regista svedese Johannes Nyholm trasforma il Tempo in un’arma, scaraventando i suoi personaggi in un loop, al fine di esplorare il dolore in tutti i suoi terribili aspetti attraverso ogni sorta di metafora. Nonostante il ricorso a torture, omicidio e degrado, l’incubo di Koko-di Koko-da non terrorizza mai tanto quanto instilla ondate di disagio senza fine.
Koko-di Koko-da – che è stato curiosamente presentato in anteprima al Milano Film Festival 2019 – è un film difficile da quantificare. L’insistenza di Johannes Nyholm sul simbolismo rispetto alla sincerità richiede che il pubblico si sieda comodo e presti molta attenzione a quanto succede, estraendo dosi di significato anche dai suoi aspetti più remoti. Per alcuni di questi, funziona magnificamente. La canzone all’inizio, cantata dal leader del trio senza nome, si riferisce a un gallo non più in vita. In una varietà di culture, questo animale è il simbolo di una nuova alba, fortuna, di fortuna o di sorveglianza. Nonostante i testi sconvenienti della canzone, il tono è leggero e giocoso, ripetuto in un modo che senza dubbio rimarrà in mente allo spettatore.
La canzone stessa diventa particolarmente inquietante quando il cantante sembra rimanere bloccato, ripetendo “koko-da” più e più volte mentre i suoni degli ingranaggi e della suoneria di un orologio si fanno più forti. È qui che si manifesta la prima sensazione che qualcosa non vada con l’ordine naturale delle cose, che il meccanismo si sia rotto, e ciò che ci viene presentato è in realtà un avvertimento che ciò che segue non solo sarà cupo, ma anche che si ripeterà in loop più volte.
Con questo prologo, la domanda diventa quindi se si verificherà o meno un evento che servirà da reset per aggiustare gli ingranaggi o fermare il rintocco dell’orologio, che risale alla nozione di cosa significa il gallo. In un modo, la morte del gallo significa che quella mattina non arriverà mai. In un altro, in considerazione del suo simbolismo, il gallo canterà di nuovo. Aggiungendo strati di confusione e follia alla narrazione, c’è solo un gallo mostrato nella totalità Koko-di Koko-da e si presenta sotto forma di uno spettacolo di marionette, che viene mostrato al pubblico in due parti: la prima che racconta la storia di due conigli il cui piccolo muore mentre cavalca proprio un gallo e, in seguito, per descrivere ciò che i conigli una volta superato il loro dolore. Sta quindi agli spettatori scegliere cosa significa il gallo, come interpretare la canzone e la connessione con il loop temporale.
Per fare un confronto, immaginate l’orrore di Midsommar (la recensione), che lo sceneggiatore e regista Ari Aster ha messo in scena in modo che il pubblico sapesse in ogni momento quali cose tremende sarebbero avvenute da lì a poco, non solo con sottili allusioni, ma – più spesso – semplicemente raccontandoci bene tutto prima che accadesse sullo schermo. Johannes Nyholm non mette in allerta intenzionalmente lo spettatore, ma ugualmente la sua narrazione e la sua regia non nascondono nulla.
Koko-di Koko-da non ‘nasconde’ la miseria; piuttosto, le conferisce una forma apparentemente ineludibile. Dove il film risulta più avvincente è quando Johannes Nyholm rimuove dal quadro qualsiasi senso di sicurezza, anche senza la minaccia esterna diretta del trio. La sua opera parla del dolore, dopotutto, e il regista mette in scena sequenze che sembrino opprimenti. Nella prima scena dopo che hanno perso la figlia, Elin e Tobias si trovano in una stazione di servizio, la telecamera sul sedile posteriore mentre l’uomo entra ed esce. Non c’è praticamente dialogo tra i due, la cinepresa ferma al centro, che fissa freddamente davanti a sé. Non si sposta sui loro volti, sulle relative microespressioni o su qualsiasi altro segnale di come si sentano.
Johannes Nyholm blocca semplicemente la mdp, girandola di tanto in tanto per seguire una persona che lascia il veicolo, ma per il resto sta fissa sul posto, catturando la distanza emotiva tra i due. Una distanza presente anche nei costumi: Elin quasi sempre vestita, anche se a volte parzialmente scoperta, Tobias quasi sempre in mutande. È come se il regista svedese abbia voluto che vedessimo un personaggio ‘corazzato’ e l’altro ‘nudo’, entrambi addolorati ma senza affrontare la perdita insieme. Attraverso il tormento, il pubblico può solo presumere come i rispettivi vestiti della coppia si relazionino al loro stato mentale al di là della confusione e della disperazione, ma una cosa è chiara: anche insieme, i due sono terribilmente soli.
Ad esempio, lo spettacolo di marionette menzionato in precedenza racconta la storia di tre conigli, che si allinea con Elin e Tobias nel giorno della morte della figlia, quando i tre erano truccati per sembrare coniglietti. Quando la storia viene portata avanti in seguito nel film, anche l’idea simbolica che la vita continui dopo una perdita è resa altrettanto chiaramente: spetta ai conigli capire come andare avanti.
È anche piuttosto interessante come la storia intricata pensata da Johannes Nyholm sembri finire dove ha avuto inizio, un approccio metaforicamente appropriato all’esplorazione innaturale della natura. Ma il significato generale di quanto visto nei 90 minuti di Koko-di Koko-da dipende davvero da chi guarda, e consiglia allo spettatore di trovarsi esattamente sulla stessa lunghezza d’onda del regista, oltre che capisca il pericolo che può annidarsi nei pressi dell’alba, il significato tematico di un gallo e l’orrore dell’immobilità. Non c’è una via di mezzo.
In attesa di capire se prima o poi qualcuno lo porterà dalle nostre parti, di seguito trovate il trailer internazionale di Koko-di Koko-da: