Voto: 8/10 Titolo originale: ...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà , uscita: 22-04-1981. Budget: $400,000. Regista: Lucio Fulci.
Dossier: L’aldilà di Lucio Fulci, quando l’horror tradisce lo sguardo per svelare il vuoto
10/08/2025 recensione film ...E tu vivrai nel terrore! L'aldilà di William Maga
Nel 1981, il regista tornava sulle scene con un incubo visivo tra cecità, violenza e simbolismi oscuri, fino a un finale indimenticabile

Lucio Fulci costruisce …e tu vivrai nel terrore! – L’aldilà (The Beyond) come un’esperienza sensoriale prima che narrativa: un film in cui il significato nasce dalle immagini e non viceversa. La trama – un albergo della Louisiana edificato su una delle sette porte dell’Inferno, un’artista martirizzato nel 1927, una nuova proprietaria che riapre il luogo maledetto – è cornice porosa, continuamente erosa da apparizioni, salti logici, tempi slabbrati.
È un cinema che rinuncia deliberatamente al conforto della coerenza causale per lavorare di “pura” suggestione: un horror jazz, fatto di riff visivi e set-piece che, più che connettersi, si chiamano per analogia, fino a comporre un tono unico, da incubo febbrile.
In questa logica, l’ossessione oculare è centrale. Non è solo gusto per il gore: è una dichiarazione di poetica. Ferire l’occhio significa minare l’atto stesso del guardare, mettere a rischio lo spettatore e il personaggio insieme, annunciare che la vista – cioè la fiducia nel mondo – verrà tradita. Non a caso la cecità ricorre come punizione o rivelazione, dal proverbiale “libro di Eibon” che rende ciechi al finale nel “mare di oscurità”, dove i protagonisti, infine accecati, vedono davvero solo quando non vedono più.
Fulci stringe un patto perverso: vuoi capire? Pagherai con la vista. Vuoi interpretare? Scoprirai che l’immagine resiste.
La messa in scena asseconda questa filosofia. La fotografia di Sergio Salvati sfrutta umidità, foschia, corridoi d’ospedale e stanze polverose del Seven Doors Hotel per sospendere lo spazio in un presente senza scampo. Il montaggio accetta perfino scarti e “sganci” come piccole faglie del reale: micro-errori, indecisioni cromatiche, stacchi goffi diventano crepe attraverso cui filtra un altro ordine (o disordine). La colonna sonora di Fabio Frizzi, con il suo ostinato di pianoforte e cori funebri, non accompagna: ipnotizza, crea trance, fa del film un rituale più che un racconto. Gli effetti di Giannetto De Rossi – tra corpi disciolti, acidi rovesciati, tarantole che divorano, chiodi che perforano – sono materialismo puro: l’Inferno da Fulci non è metafora, è carne, pus, calce viva.
Dentro questo organismo, i personaggi sono pedine di un’idea: il medico razionalista che “spara al torace” agli zombi perché rifiuta le regole del nuovo mondo, la donna newyorkese che non può (e non vuole) fuggire dal possesso ereditato, la ragazza cieca col cane guida che “abita” salotti inesistenti. Ogni figura tenta di imporre un senso, ogni figura è smentita.
E quando il film sembra flirtare con il prevedibile (la fuga dall’ospedale invaso dai cadaveri, la sparatoria “alla zombie-movie”), subito devia: un ascensore, un corridoio, ed ecco che l’uscita riconduce al seminterrato dell’hotel.
È l’incubo topologico del ritorno allo stesso punto, principio di un finale radicale: la tela di Schweick – il pittore linciato – non è un quadro nel film, è il film stesso che finalmente si svela come pittura dell’aldilà. Non c’è catarsi, c’è un paesaggio di polvere e resti, un afterlife vuoto in cui la speranza è l’ultima illusione.
Questa scelta estetico-drammaturgica produce due effetti. Primo: il “mosaico di follia” che alcuni definirebbero incoerenza diventa coerenza dell’incubo. …e tu vivrai nel terrore! – L’aldilà non chiede di credere alla sua storia, chiede di accettare la sua atmosfera come legge. Secondo: la dimensione storica affiora per lampi, e fa male. Nel prologo virato in seppia, il linciaggio dell’artista – con l’inquadratura insistita sul volto atterrito dell’uomo nero alla reception – sposta il discorso dall’occulto alla violenza reale che fonda luoghi e comunità: l’America del Sud come territorio edificato su sepolture e rimozioni. Le “porte” non sono solo metafisiche: sono le crepe in cui la Storia rimossa rientra come spettro.
La materia di cui il film è fatto è l’arbitrio del Male. Per questo la crudeltà appare spesso “gratuita”: la bambina che trova la madre sciolta dall’acido, il bibliotecario divorato dai ragni, i servitori eliminati da forze che li superano. Ma l’arbitrio è precisamente il tema: in un cosmo sregolato, la sofferenza non è pedagogica, è entropia. Il coraggio non redime, l’intelligenza non spiega, la fuga non salva: ogni gesto è un altro passo nella sabbia. E tuttavia l’opera non è nichilista per compiacimento; è rigorosa. Se l’ordine del mondo è sfaldato, il cinema che lo racconta deve sfaldarsi con esso: cause che non producono effetti, effetti che non hanno una causa unica, spazi che non coincidono con le mappe, tempi che si piegano.
Qui sta anche la modernità del film. Invece di “citare” con compiacimento, trasforma l’eredità del gotico e del pulp in un dispositivo che interroga lo sguardo e la memoria. L’artista martire dipinge l’Inferno e il film ne assume la funzione: rendere visibile l’invisibile, sapendo che quello sguardo costa. L’ultimo quadro – il “mare d’oscurità” affrontato a occhi spenti – è una chiosa sulla visione e sul potere: vedere tutto è impossibile; chi pretende di custodire il senso intero lo fa accecando gli altri. Il massimo di verità coincide con la cecità.
Se si volesse giudicare “The Beyond” per ciò che non è – una trama lineare, personaggi psicologicamente pieni, motivazioni esposte – lo si condannerebbe in partenza. Se lo si prende per ciò che è – un poema dell’orrore in cui senso e sensazione sono lo stesso atto – emerge un’opera di rara coerenza interna: un film che parla della fine del significato usando la fine del significato come linguaggio, e che ricorda a chi guarda che non tutte le porte aperte conducono a una stanza; alcune danno direttamente sul vuoto. In quel vuoto, Fulci non offre consolazioni: offre la vertigine. E la vertigine, nel cinema dell’orrore, è una forma di verità.
Di seguito trovate il trailer di …e tu vivrai nel terrore! – L’aldilà:
© Riproduzione riservata