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Voto: 7/10 Titolo originale: La città proibita , uscita: 08-03-2025. Budget: $18,218,260. Regista: Gabriele Mainetti.

La Città Proibita: la recensione del film di arti marziali di Gabriele Mainetti

01/08/2025 recensione film di Francesco Chello

Ancora un centro per il filmmaker romano che stavolta sfida l’impossibile affrontando con successo un genere mai davvero esplorato in Italia. Un film che fonde con sorprendente equilibrio combattimenti spettacolari, una protagonista cazzuta, personaggi pittoreschi, love story ed una spruzzata di critica sociale. Quando la Cina incontra Roma per un ibrido visivo e narrativo tanto imprevedibile quanto decisamente riuscito

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You did it. You crazy son of a bitch, you did it. Gabriè, sei riuscito a fare un film (serio) di arti marziali in Italia. Questo è quello che avrei voluto dire a Mainetti dopo aver visto La Città Proibita, il suo ultimo lavoro, da poco anche su Netflix che aveva messo lo zampino in una co-produzione targata Goon Films, Piperfilm e Wildside. Sì, insomma, la mia onesta (quanto entusiasta) reazione post visione.

Partirei proprio dal genere che nel nostro paese può vantare quella che praticamente è una non-tradizione. Quel cinema marziale in cui il titolo più famoso prima di oggi era probabilmente Il Ragazzo dal Kimono d’Oro del 1987, che alcuni hanno tirato in ballo proprio in questa occasione mentre noi ne avevamo parlato già come postilla a quella robaccia di Karate Man di (non me ne voglia) Claudio Fragasso (la recensione), circostanza in cui avevo aperto una parentesi sul film con Kim Rossi Stuart raccontando di come, negli anni ’80 fossi un ragazzino in fotta, tra le varie cose, con i cosiddetti ‘film di mazzate’; dopo i titoli di prima fascia, seconda, terza e via discorrendo, da spettatore famelico non negavo una visione nemmeno al film di De Angelis (e persino ai suoi sequel). Sarà stato per quel kimono così figo o per il famigerato colpo del drago, ma tutto faceva brodo.

Certi titoli, però, andrebbero lasciati al ricordo (alterato) dell’infanzia, rivederlo da adulto mi ha spiazzato in negativo, per la pochezza marziale e per l’esigua quantità di botte, per la sciatteria generale, e per l’ottusa ostentazione con cui dimostrava di non aver capito una mazza dell’aspetto contenutistico di quel The Karate Kid di cui si poneva come rip-off. Questo per raccontare dell’ex picco di una filmografia sul tema praticamente inesistente – e Karate Man direi di non considerarlo, per il bene di tutti. Da oggi possiamo tranquillamente affermare di avere finalmente un vero e degno rappresentante del filone, La Città Proibita è il miglior film di arti marziali italiano.

Dopo l’annuncio un po’ a sorpresa, ho atteso La Città Proibita con abbastanza hype. Se due indizi fanno una prova, grazie a Lo Chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out potevo già definirmi fan di Mainetti. Col terzo direi che il caso è proprio chiuso, shut up and take my money per i prossimi progetti. Ma partiamo dalla ciliegina. Da quello che questi tre film rappresentano per il cinema di genere italiano. Un cinema in cui siamo stati formidabili per più di vent’anni per poi dimenticarcene e cancellarlo per i successivi trenta. Trent’anni in cui – salvando la pace di rare eccezioni – in Italia sembrava si potessero produrre solo drammoni esistenziali, commedie demenziali o retoriche fiction più o meno biografiche.

La Città Proibita film poster 2025Il curriculum filmico di Mainetti rappresenta, insieme ad una manciata sempre più densa di altre produzioni degli ultimi anni, un ritorno fiero e cazzuto al cinema di genere. Così come si faceva negli anni d’oro, si parte da uno spunto esterofilo per poi adattare l’argomento alla nostra realtà, creando un qualcosa di nuovo, di diverso, di speciale. La ciliegina, dicevamo. Ma adesso voglio parlare della torta. Una torta grande, bella, succulenta. Perché non è che Mainetti si becca ogni volta gli elogi solo perché prova a saziare la nostra astinenza. Tipo quando fai la pasta con le sottilette ma ti senti Cannavacciuolo perché in frigo avevi solo quelle. Gli elogi li prende perché li merita. Famo a capisse, i suoi film sono una bomba a prescindere dal mercato italiano.

Laddove l’italianità non è un ‘nonostante’ che lima verso il basso i parametri di giudizio, semmai è un plus perché fare certe cose nel nostro paese è dannatamente più difficile e farle bene è sostanzialmente una medaglia al valore. Titoli pregni di passione, di tecnica e contenuto. Che prendono degli input universali (e tradizionalmente forestieri) per mescolarli ad una romanità sempre funzionale allo scopo, mai intrusa, per una combinazione per certi versi anomala ma sempre fluida, naturale, particolare – e lo dico da non romano, quindi assolutamente non di parte. C’è cura per la regia, per le inquadrature, i movimenti di macchina. Il sonoro o gli effetti speciali, gli stunt. Roba che qui pareva bandita. E c’è sempre una storia che unisce l’intrattenimento al contenuto.

Chiariamoci, i tempi cupi non sono ancora terminati, l’industria italiana resta ancora abbastanza ancorata a queste sue strane certezze, così come una parte (tossica) del pubblico ci mette ottusamente del suo. Per dire, per qualche motivo mi è rimasto impresso un commento social di un tizio che ai tempi di Freaks Out sosteneva di aver preferito rivedere Mery per Sempre piuttosto che farsi piacere roba come il film del buon Gabriele. Un paragone senza senso per due titoli che non hanno la benché minima attinenza tra loro, se non quella di essere due prodotti italiani, a prescindere da un discorso qualitativo, di gradimento e via discorrendo.

Oppure – e mi è rimasta impressa anche questa – la campagna (di nuovo social) di alcuni hater che auguravano il flop (e ne hanno goduto poi) a La Città Proibita rosicando delle opportunità (e dei budget) di Mainetti secondo loro immeritate. Questo per fare solo un esempio a caso dell’utente medio nostrano che finisce per boicottare il cinema di genere italiano criticandolo o attaccandolo per le ragioni sbagliate, spesso (a dirla tutta) per partito preso. In sintesi, di cosa ci meravigliamo quando il nemico ce l’abbiamo in casa.

Ma andiamo al dunque, tornando alle cose belle. Con la Città Proibita, Gabriele Mainetti firma quindi un atto di fede verso un’idea di cinema che nel panorama italiano resta ancora una rarità assoluta: quello fisico, popolare, alto e basso insieme, che vive di corpi, coreografie e fantasia ma anche di persone (e personaggi) e di emozioni.

Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out avevano già dimostrato come fosse possibile rileggere generi (che alcuni si ostinano a snobbare come inferiori) con una lingua personalissima, in questo caso ci si sposta ancora più lontano – in senso geografico, estetico e teorico – per costruire un ibrido nuovamente vincente. Parliamo di un film che più di altre volte si prende rischi enormi, sia narrativi che produttivi, e li affronta con una coerenza formale e stilistica che ha pochi eguali. Per poi ripagare lo spettatore della fiducia riposta.

Un’operazione impossibile? Forse. Ma qualcuno doveva farla. E chi meglio del filmmaker romano.

Un regista italiano che decide di girare un kolossal marziale ambientato a Roma con inserti decisi di Cina, con un cast misto tra attori orientali e italiani, effetti pratici ed estetica fumettistica, potrebbe sembrare un delirio produttivo. Ma è proprio questa tensione verso l’impossibile che dà al film la sua forza, come se tutto fosse progettato per sfidare le regole implicite del ‘cinema che si può fare’ nel nostro paese. E non per il semplice gusto di farlo, ma attraverso un osare che intende riempire gli occhi ed il cuore di un pubblico che ha atteso per troppo tempo e per questo viene premiato.

La Città Proibita film mainettiEd è così che La Città Proibita prende vita, con tutti i suoi eccessi, tutti i suoi slanci e pure qualche innocua sbavatura. Con un impianto produttivo che merita rispetto a prescindere, per le ambientazioni costruite da zero, gli effetti speciali a supporto e mai al posto dell’azione. E soprattutto per le benedette arti marziali. Non semplicemente tra i pregi della visione, ma il pregio più grosso, la quota più bella, in un modo che oserei dire quasi sorprendente. Coreografie di combattimento autentiche, curate, perfettamente integrate nella narrazione. Che si gode a vederle in generale, a maggior ragione – ribadisco allo sfinimento – in una produzione tricolore.

Chi ama e segue il cinema di arti marziali – magari anche con una certa attenzione tecnica – noterà subito quanto Mainetti e il suo team abbiano studiato e rispettato la grammatica del wuxia e del Kung fu – o meglio, del gongfu nella sua accezione più ampia e tradizionale – evitando la trappola della parodia o del citazionismo pigro e/o goffo. Le sequenze d’azione sono costruite secondo una logica ritmica, non solo fisica, ogni combattimento ha un proprio tempo interno, un’alternanza di colpi, come in una danza rituale. Arti marziali in cui il corpo diventa linguaggio. Interessante la scelta di lavorare su diversi livelli di stile marziale dal combattimento corpo a corpo classico all’uso delle armi leggere (soprattutto bastoni e lame) o parecchi oggetti di fortuna, passando per inserti quasi da opera kung fu degli anni ’70 mantenendo un taglio fresco e moderno.

L’aspetto forse più riuscito è la fusione tra tecnica e narrazione in cui ogni gesto, ogni colpo, trova un senso dentro la storia, ogni movimento definisce il personaggio più delle parole. I momenti migliori, da questo punto di vista, sono quelli in cui i combattimenti non interrompono la storia, ma la elevano, la fanno progredire. La resa dei conti conclusiva si trasforma quasi in una confessione reciproca, in un atto emotivo prima che fisico. È lì che si capisce quanto Mainetti abbia colto lo spirito della fonte originale: l’arte marziale come proiezione dell’anima.

A dimostrazione di quanto ci fosse l’intenzione di fare le cose nel modo non solo migliore, ma più professionale e cazzuto possibile, c’è la scelta (vincente) delle due figure chiave di un’impresa di questo tipo: il fight coordinator e l’attrice protagonista. Perché certe cose non puoi improvvisarle, consapevolezza e ambizione tracciano la strada che porta al successo. Due figure pescate, manco a dirlo, in Cina.

Le scene di combattimento — cuore pulsante e fiore all’occhiello de La Città Proibita — sono firmate da Liang Yang, supervising stunt coordinator cinese con esperienze a vario titolo in blockbuster internazionali come Deadpool & Wolverine, Doctor Strange in the Multiverse of Madness, The Equalizer 3, Mission: Impossible (Rogue Nation, Fallout e Dead Reckoning Part One), Skyfall, Edge of Tomorrow, Star Wars (The Force Awakens, The Last Jedi, Rogue One e Solo), giusto per dirne alcune. Un esperto in grado di rendere realistici i combattimenti senza rinunciare alla spettacolarità. I combattimenti sono stati costruiti come sequenze lunghe e fluide, visivamente chiare, coreograficamente elaborate, non prive di crudezza e momenti ouch, capaci di esaltare in primis la lotta riuscendo allo stesso tempo a raccontare emotivamente il personaggio di Mei attraverso il movimento.

Senza dimenticare qualche piacevole citazione casareccia come il pesce a mo’ di arma contundente di spenceriana memoria che riporta subito a Piedone lo Sbirro del 1973. Elaborazione e pianificazione di livello che necessitano di un esecutore all’altezza che risponde al nome di Yaxi Liu, stuntwoman di lunga esperienza (tra i suoi lavori anche il live action di Mulan) e anni di allenamento nelle arti marziali. Un essere meraviglioso dagli occhi spaccanti… no, aspè, ho fatto confusione con certa roba insignificante che gira ultimamente in maniera molestamente virale.

la città proibita film 2025 mainettiIl fatto è che quando picchia, meravigliosa la Liu lo è sul serio, una scelta strategica per Mainetti che la identifica come performer ideale anche grazie ad alcuni reel su Instagram, una vera artista marziale che non recita solo con la voce, ma con il corpo intero, tendendo verso un’integrazione perfetta tra forza fisica e potere emotivo, a base di movimenti favolosamente perentori, presenza atletica e intensità interpretativa, un’aura magnetica ideale per un profilo come quello di Mei diviso tra vendetta, dolore e grazia marziale.

Ad esaltare tutto questo serve ovviamente una regia di talento come quella di Mainetti. Dal punto di vista tecnico, La Città Proibita è un film decisamente maturo e articolato. La regia è assolutamente precisa nel gestire movimenti di macchina, profondità di campo, coreografie simultanee. Alcuni piani sequenza (o pseudo-tali) durante le scene di combattimento sono gestiti con mano ferma e occhio drammaturgico, non solo per stupire ma per guidare lo spettatore dentro l’azione, senza fargli perdere un solo dettaglio, in modo chiaro, leggibile, sempre con una logica dello spazio.

La fotografia abbraccia una tavolozza cromatica che oscilla tra il rosso e il verde, tra il giallo e il nero. Un’estetica densa da cui i personaggi cercano letteralmente di emergere mentre l’uso delle luci accentua il carattere teatrale di alcune scene. Anche la musica, come nei film precedenti, svolge un ruolo determinante. La colonna sonora originale alterna sonorità orientali a sequenze più orchestrali, con escursioni quasi psichedeliche nei momenti visionari. E qualche ambizione di canto da pop italiano nei personaggi. Senza rinunciare ad un utilizzo espressivo del suono ambientale, col vento, i rumori dei tessuti, i suoni degli impatti, le grida, che costruiscono un paesaggio sensoriale che amplifica la tensione del racconto.

Un tratto ricorrente del cinema di Mainetti è la frattura interiore ed emotiva nei personaggi principali. La Città Proibita non fa eccezione. Come il co-protagonista che diventa eroe per caso, e che non cerca tanto la salvezza quanto una forma possibile di dignità e di identità. Attorno alla coppia orbita una serie di personaggi secondari ma non troppo, talvolta sopra le righe ma mai caricaturali. Il regista lavora ancora una volta su un equilibrio difficile come quello tra farsa e tragedia.

Le donne del film sono costruite con grande attenzione, né semplici compagne né mere vittime, ma agenti narrativi attivi, con una protagonista che rappresenta evidentemente la sintesi tra spiritualità e vendetta, tra compassione e ferocia. Detto di Yaxi Liu, azzeccatissimo anche il resto del cast. A partire da Enrico Borello nei panni di Marcello, timido ma determinato, un volto nuovo ma capace di reggere la scena con genuinità e naturalezza.

Delizioso Marco Giallini che interpreta lo strozzino Annibale, personaggio ambiguo in un perfetto mix di cinismo ed affetto confuso, oltre che utile a veicolare un colpo di scena che mi ha fregato, devo ammetterlo. Sabrina Ferilli riesce a fornire il giusto spessore umano a Lorena, la madre che si di divide tra speranza e realismo nel mezzo di difficoltà economiche e personali. Luca Zingaretti è Alfredo, ruolo apparentemente secondario ma in realtà figura centrale nel mistero che lega i personaggi tra loro.

Mr. Wang, il boss cinese che gestisce il ristorante che porta il nome del film, viene portato in scena in maniera adeguata da Chunyu Shanshan; antagonista tratteggiato con tinte forti, in maniera speculare alla protagonista con un’etica completamente ribaltata, un villain che colpisce per la sua lucidità nel male, per la logica brutale con cui governa il suo regno come fosse un tiranno da tragedia classica, capace di sfruttare strumenti moderni perfettamente calato nel presente, pur vestendo i panni di un despota antico. Ristorante/bordello in cui lavorano decine e decine di sgherri cinesi che fungono da carne da macello nei suddetti scontri che menziono di nuovo perché sono fighi e va bene così.

La scenografia e il worldbuilding sono un altro punto di forza dell’opera di Mainetti. La Città Proibita non cerca il realismo etnografico ma costruisce una sorta di Cina immaginaria, fumettistica, sospesa tra opera, farsa e tragedia. Una Cina che sembra uscita da un sogno orientale rielaborato attraverso occhi italiani, un insieme di rovine industriali, mercati tradizionali, corti imperiali e bordelli post-apocalittici. Anche perché poi da Fujian ci si trasferisce presto al Rione Esquilino, con la città eterna che diventa una cornice insospettabilmente adatta ad una storia multiculturale in cui i sapori si fondono allo stesso modo in cui un cuoco di un ristorante italianissimo inizia a preparare piatti tipici della cucina cinese.

Un modo in cui il film evita con intelligenza il rischio dell’appropriazione culturale gratuita, perché non pretende mai di essere un ‘vero’ film cinese. Al contrario, dichiara fin dall’inizio la sua natura artificiale, teatrale, metaforica. E proprio per questo riesce a parlare – in maniera trasversale e potentissima – del nostro presente, dei meccanismi del potere, del controllo, della manipolazione del consenso, dell’abuso.

Perché ci sono le botte (tante), c’è la love story (mai stucchevole), ma c’è anche il contenuto (intelligente ed attuale). Oltre l’apparato estetico c’è un sottotesto sottilmente politico ma non didascalico, che tocca tematiche contemporanee. In questo senso, l’arte marziale – che come detto non è mai fine a se stessa – assume un valore quasi filosofico, combattere come forma di verità, come atto di resistenza al sopruso ed alla menzogna.

la città proibita film 2025La Città Proibita è una sintesi estrema e coerente del Mainetti-pensiero. Un filmmaker preparatissimo e sempre più autore totale, con un’idea di narrativa e spettacolo sempre chiara: sorprendere, emozionare, far pensare. Un cinema fatto di generi riassorbiti e rilanciati, di personaggi borderline, di fede cieca nella messinscena. Un film in cui emerge il desiderio di rompere lo schema, di destrutturare la formula che lui stesso ha contribuito a costruire.

C’è un gusto per l’accumulo – visivo, sonoro, tematico – che in certi momenti rischia (ma non lo fa) di sovrastare l’emozione. Un rischio consapevole di chi preferisce oltrepassare piuttosto che stare nei limiti. Oltre che inequivocabilmente talentuoso, questo terzo film conferma Mainetti come una delle voci più libere e riconoscibili del cinema italiano contemporaneo. La Città proibita non è perfetto, ed è giusto che non lo sia, non credo nemmeno gli interessi esserlo.

È un’opera esuberante, scomposta, a tratti energicamente carica, ma sempre guidata da una visione, da un’urgenza espressiva che ormai ha pochi rivali nel nostro cinema. Un film radicale e rischioso, coraggioso e visionario. Jeeg era la scoperta, l’esplosione del talento grezzo. Freaks Out l’espansione ambiziosa, il salto di scala. La Città proibita è il laboratorio stilistico dove tutto si mescola: arti marziali, comicità, tragedia. E dove, miracolosamente, qualcosa prende forma. Magari con un’armonia non sempre uniforme, ma sempre con forza. Il boxoffice non gli ha reso giustizia (per la gioia degli hater), ma sono sicuro che il tempo (tra passaparola, streaming ed home video) sarà galantuomo.

Mainetti continua a scommettere sul cinema come atto fisico e visionario, un autore popolare che però rifiuta sia l’autorialismo sterile che il populismo banalmente piatto. Una traiettoria sempre sul filo tra genio e follia che non possiamo non seguire con entusiasmo ed estrema attenzione. E con la stessa passione che ci mette lui nel realizzarla. Basta ascoltare una a caso delle sue (sempre piacevolissime) interviste per rendersene conto. Siamo in tanti ad essere cresciuti con la passione per determinate fonti, opere e filoni, ma sono in pochi quelli che hanno il talento (ed i controcazzi) per trasporla sullo schermo in questa maniera e dare nuova linfa al nostro amato cinema di genere. Il suo è un cinema che crede ancora nel gesto, nel rischio, nell’impossibile. E oggi più che mai, non è poco.

Di seguito trovate il trailer di La Città Proibit. che ci dà un assaggio delle sue atmosfere: