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Voto: 6/10 Titolo originale: The Thing with Feathers , uscita: 17-10-2025. Budget: $6,000,000. Regista: Dylan Southern.

L’ombra del Corvo: la recensione del film fanta-doloroso con Benedict Cumberbatch

22/10/2025 recensione film di William Maga

Un'opera elegante e disturbante, ma appesantita da simbolismi ripetuti e ritmo irregolare

L’ombra del Corvo (The Thing with Feathers) è lutto con le ali: un padre senza nome (Benedict Cumberbatch), due figli travolti dall’assenza della madre, un corvo gigantesco che parla e dilania. Dylan Southern adatta il romanzo di Max Porter trasformando la metafora in carne e piume: il dolore si presenta in casa come creatura alta, sgraziata, sfrontata, che irride, strattona, impone un’educazione sentimentale a colpi d’artigli.

L’idea è potente e il film lo sa: sceglie un formato d’immagine quasi quadrato, luci livide, interni che sembrano gabbie, disegni a carboncino che invadono la scena finché pagina e vita non diventano la stessa superficie graffiata.

La trama è asciutta fino alla crudeltà. Tornati dal funerale, padre e figli cercano un ritmo: colazioni bruciate, giubbotti sbagliati, passeggiate verso la scuola con il peso del non detto. Lui è un fumettista che tenta di lavorare su un nuovo libro popolato da ibridi uomo–uccello; la casa però si riempie di presagi: un corvo “reale” che osserva, poi la sua controfigura mostruosa che si presenta in soggiorno, lo insulta, lo provoca, lo spinge a scivolare. Intanto i bambini registrano la metamorfosi del genitore: diventa più silenzioso e più duro, come se la sofferenza gli avesse mangiato la lingua e lasciato solo il ringhio. La creatura cresce, lui si rimpicciolisce. Fino a una notte in cui la soglia di casa diventa un confine metafisico e il dolore prende altre forme, più seducenti e più feroci.

Sul piano visivo il film vibra. Il corvo, trucco prostetico e fisicità scenica, ha una presenza tattile: dita lunghe come rami, piume unte, risatine da mercato nero; ogni suo ingresso è un colpo d’aria fredda. Southern compone quadri alla Edward Gorey, corridoi che stringono, finestre che incorniciano il padre come un reperto. Anche il sonoro lavora per sottrazione e punture: fruscii, sfregamenti, una puntina che scivola dal vinile al frastuono. Quando l’incubo si apre davvero – porta, vento, figure che assediano – la messa in scena raggiunge un’intensità rara, quasi ipnotica.

L'ombra del Corvo film cumberbatchÈ sul racconto che l’opera zoppica. La metafora, resa subito letterale, viene ripetuta fino all’estenuazione: il corvo sgrida, il padre crolla, i figli fanno da eco. Il dolore ha molte facce; qui ne vediamo tre o quattro, riproposte a rotazione. Il film dichiara presto la sua tesi (“il lutto non si sconfigge, si attraversa”) e la percorre in circolo, con variazioni minime.

L’assenza di progressione emotiva pesa soprattutto sui bambini – più funzioni che personaggi – e sul rapporto padre–figli, che resta appeso a due-tre gesti esemplari senza mai diventare carne viva. Persino il corvo, magnifico da guardare, rimane idea più che figura: sarcasmo, invettiva, qualche danza catartica in salotto, ma poche pieghe di senso oltre il ruolo di grillo parlante maligno.

Cumberbatch regge il film con un’interpretazione a nervi scoperti: il pianto che arriva a ondate, la frustrazione domestica resa nei dettagli (la fetta di pane raschiata, il cucchiaio che vibra sul tavolo), le derive notturne alcoliche, persino il ridicolo volontario di certi momenti in cui imita, quasi senza accorgersene, i versi dell’ospite. Il suo corpo diventa l’altopiano su cui il regista incide l’altalena tra rassegnazione e furia. È un lavoro generoso, ma spesso lasciato da solo, perché il copione gli chiede di ripetere lo stesso arco – crollo, inerzia, scossa – senza veri contrappunti umani.

Nel confronto con altri “horror sul lutto”, questo film sceglie una via più dichiarata e meno ambigua. Quando l’allegoria smette di suggerire e comincia a spiegare, la poesia si assottiglia. Eppure, quando Southern abbraccia il grottesco e la dark comedy – un disco staccato di colpo per scacciare la malinconia, una specie di danza sciamanica che libera per un istante il respiro – si intravede il film che poteva essere: un racconto sul dolore capace di ridere dei propri simboli per renderli più veri.

Il finale tenta una conciliazione: il corvo da persecutore a guardiano, il padre che capisce che non c’è porta da chiudere ma convivenza da imparare. È una chiusura coerente, forse troppo rapida rispetto alla lunga stasi precedente. Resta un’opera elegante, cupa e sensoriale, che sa creare immagini memorabili e un’icona mostruosa, ma che smussa la complessità del lutto dentro un dispositivo simbolico ripetitivo. L’ombra del Corvo convince gli occhi, scuote a tratti le viscere, meno spesso il cuore. Per chi cerca un “horror metaforico” scolpito con rigore formale e un protagonista in stato di grazia, è un’esperienza da vedere; per chi spera in una discesa più contraddittoria, sporca e imprevedibile nell’abisso del dolore, il volo resta basso

In attesa di vederlo in Italia (negli USA il 28 novembre), di seguito trovate il trailer internazionale di L’ombra del Corvo:

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