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Voto: 5/10 Titolo originale: Mandrake , uscita: 12-03-2022. Regista: Lynne Davison.

Mandrake (2022): la recensione del folk-horror irlandese di Lynne Davison

05/10/2025 recensione film di Gioia Majuna

La regista esordisce esplorando maternità, colpa e magia nera, ma si smarrisce tra simboli e incoerenze

mandrake film horror 2022

Mandrake nasce come opera prima della regista Lynne Davison e si presenta come un folk-horror che intreccia elementi del mito irlandese, maternità ferita e colpa morale. Ambientato in una campagna cupa e umida, il film segue Cathy Madden (Deirdre Mullins), un’ufficiale di sorveglianza incaricata di reinserire nella società “Bloody” Mary Laidlaw (Derbhle Crotty), donna accusata di omicidio e considerata dalla comunità una strega. Quando due bambini scompaiono, la diffidenza del villaggio si trasforma in isteria collettiva e Cathy si ritrova invischiata in un incubo che mescola il dramma familiare e l’occulto.

L’intento è chiaro: fondere la tensione psicologica del dramma realistico con il simbolismo del folklore pagano, incarnato dalla leggendaria mandragora, pianta che nella tradizione popolare nasce dal sangue dei condannati e urla quando viene strappata dalla terra. È un’immagine potente, legata al concetto di nascita e morte, di un’energia materna deformata e primordiale. Tuttavia, Mandrake non riesce a trasformare questa intuizione in una vera architettura narrativa: le radici tematiche affondano in un terreno fertile, ma la regia e la sceneggiatura non trovano una sintesi coerente.

Dal punto di vista visivo, la Davison possiede un notevole istinto d’atmosfera. Le inquadrature immerse nel fango e nella nebbia costruiscono un paesaggio morale prima ancora che fisico. La fotografia, giocata su toni terrosi e luci basse, restituisce un’Irlanda arcaica, impregnata di superstizione e paura del diverso. Tuttavia, la forza visiva non si accompagna a una chiarezza narrativa: il film si disperde in troppi registri, passando dal thriller carcerario al racconto esoterico, dal dramma materno alla fiaba nera, senza mai stabilire un centro emotivo saldo.

Il nucleo più interessante di Mandrake è il confronto tra le due madri – Cathy e Mary – figure speculari divise da morale e condanna. Entrambe incarnano l’istinto di protezione portato all’estremo, ma la sceneggiatura di Matt Harvey non approfondisce fino in fondo questo parallelismo. La maternità, che avrebbe potuto rappresentare l’asse simbolico del racconto, resta un tema abbozzato, accennato più che indagato.

L’interpretazione di Derbhle Crotty conferisce al film la sua intensità maggiore. La sua “Bloody Mary” non è semplicemente una criminale, ma un’ombra del mito: uno spirito ferito, insieme carnefice e vittima. Deirdre Mullins, invece, restituisce con misura la fragilità razionale di una donna che vuole credere nella redenzione ma viene risucchiata nel caos. È la tensione tra queste due donne che tiene in piedi la pellicola, anche quando la trama comincia a sgretolarsi.

A mancare è una struttura ritmica capace di sostenere l’inquietudine. Dopo un primo atto promettente, che costruisce un’atmosfera densa di presagi, Mandrake scivola in una seconda parte confusa e affrettata, dove i riti, le sparizioni e le visioni si accumulano senza reale progressione. Il finale, invece di offrire una catarsi, si limita a un’esplosione caotica di simboli e violenza, lasciando lo spettatore in sospeso non per ambiguità intenzionale, ma per mancanza di compiutezza.

Nonostante i limiti, Mandrake possiede una certa originalità nel panorama dell’horror contemporaneo. Rifiuta infatti gli effetti facili e le impalcature da jump scare, scegliendo una tensione più sottile e una messa in scena “terrestre”, dove la paura nasce dalla materia stessa del paesaggio. È un horror di radici e di carne, ma anche di silenzi e sospetti. Eppure, questa promessa resta in parte irrealizzata: la simbologia vegetale, il misticismo rurale e la critica alla paranoia collettiva non si fondono mai in un discorso unitario.

In definitiva, Mandrake è un film di potenzialità non sbocciate. La Davison mostra uno sguardo interessante e un gusto per il non detto, ma l’eccesso di temi e la scarsa chiarezza strutturale rendono l’opera più frustrante che perturbante. È un horror che parla di radici, ma finisce per intrecciarsi su se stesso, soffocando le proprie idee nel terreno da cui avrebbe potuto germogliare qualcosa di davvero inquietante e originale.

Il trailer di Mandrake:

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