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Voto: 7/10 Titolo originale: Assassination Nation , uscita: 21-09-2018. Budget: $7,000,000. Regista: Sam Levinson.

Assassination Nation: la recensione del film di Sam Levinson

16/10/2018 recensione film di Sabrina Crivelli

Odessa Young, Bella Thorne e Suki Waterhouse sono le giovani protagoniste di una feroce e sanguinaria satira sull'America, che riflette sulla banalità del male con ghigno nichilista e iper estetizzazione delle immagini

Odessa Young, Suki Waterhouse, Hari Nef e Abra in Assassination Nation (2018)

Assassination Nation, scritto e diretto da Sam Levinson (alla seconda regia dopo Another Happy Day del 2011), è decisamente stratificato, ogni dettaglio, ogni indizio è un elemento chiave per la sua lettura, assai più complessa di quanto ci si aspetti a un primo sguardo. Dopo averlo in anteprima europea al Festival di Sitges, duplice è la sensazione.

Per gran parte del minutaggio domina difatti un’incredibile, sagace e cinica satira, che letteralmente fa a brandelli la società americana contemporanea e la sua ipocrisia. Dall’altro, gli ultimi minuti si distaccano nettamente da quanto li ha preceduti, lasciando un senso di lata insoddisfazione e la sensazione di una chiusa stridente e forzatamente edificante. Ma è davvero così?

Per meglio rispondere al quesito, è necessario partire dalle premesse. Siamo in una piccola cittadina della provincia, Salem; i suoi sempre affabili abitanti si conoscono tutti tra loro e conducono una tranquilla esistenza basata sul rispetto del prossimo e sul valore della famiglia. Almeno all’apparenza, poiché un voce fuori campo, quella della protagonista Lily (Odessa Young), afferma sin dalla sequenza d’apertura “questa è la storia di come la mia città abbia perso la sua dannata testa”.

Come, quindi, i timorati membri della piccola comunità sono arrivati a cercare di uccidere un gruppo di ragazzine? La scioccante deriva ha origine un giorno come un’altro, quando un hacker riesce a introdursi nei cellulari e computer dei concittadini, rivelando i segreti che ciascuno serba nel privato e creando un vero e proprio moto d’odio contro Lily e le sue amiche Bex (la transgender Hari Nef), Sarah (Suki Waterhouse) ed Em (Abra).

Assassination Nation è un crescendo conturbante, la sua potenza distruttrice, il nichilismo divertito con cui tratta l’irreversibile declino dell’Occidente è disarmante. Si parte da un attacco piuttosto convenzionale, quasi un cliché: il cellulare di un politico iper conservatore viene violato e sono diffuse le foto dell’uomo mezzo nudo e travestito da donna, con indosso solo dell’intimo femminile leopardato.

La doppia vita segreta sconvolge e indigna i suoi elettori. Incredibilmente acuto nel descrivere la veemenza della gogna mediatica, meno immediato è il secondo scandalo che scoppia poco dopo. Il preside del liceo locale viene accusato di pedofilia per una foto della figlia trovata nel suo computer.

La presunzione di colpevolezza, per certi reati (certo particolarmente gravi), negli USA non necessita di alcuna prova, chi ne è accusato è rovinato e non può in alcun modo difendersi, la verità in fondo non importa. Passaggio acutissimo, il montare di un caso mediatico, che si nutre di notizie su giornali, in TV e sui siti web, ma anche di tweet e social media.

Il processo in cui un normale individuo, un educatore ammirato e stimato per anni, si trasformi in un mostro, senza nemmeno lasciargli il beneficio del dubbio, è inquietante quanto profondamente vero. La spettacolarizzazione della società ha raggiunto ormai il proprio apice e conta solo ciò che appare.

L’identità, la sua rappresentazione attraverso i profili social e i media, la sua percezione da parte del prossimo, la sua falsificazione. In una lunga tirata Lily, assai consapevole, asserisce che tutti mentano, che tutti fingano di essere ciò che non sono, intanto intorno a lei tutti bevono e danzano in una casa illuminata di luci innaturali e stranianti.

Autodistruttiva come un personaggio di Bret Easton Ellis, come le quattro giovani vacanziere di Spring Breakers di Harmony Korine o come i ragazzini annoiati e in cerca di ‘emozioni forti’ di Bling Ring di Sofia Coppola. Il tono per gran parte di Assassination Nation è infatti allo stesso modo disincantato, privo di speranza.

Antieroina figlia dei nostri tempi, anche la ragazza ha una doppia vita: fidanzatina perfetta di Mark (Bill Skarsgård), invia le sue foto nuda a un misterioso spasimante, Daddy, un uomo sposato e con figli piccoli. Nessuno è esente, tutti vivono in una dilagante falsità. L’apoteosi è raggiunta da Reagan, cheerleader e giovane star di Instagram incarnata da Bella Thorne (lei anche nella realtà una star della Rete), che afferma di essere uno spirito libero e una fonte di ispirazione per gli infelici di mezza età che la seguono sui canali social; insomma la realtà e la finzione filmica combaciano.

E’ come se Sam Levinson dicesse: “Questa è davvero la società americana, c’è un filtro, ma tutto ciò che vedete è assai più concreto di quello che sembra”. I contrasti inconciliabili, di sesso e di perbenismo, di smania per essere veri e di totale falsificazione di sé, la banalizzazione di ogni buon precetto, l’incoerenza tra apparire ed essere, c’è tutto ed è tutto descritto con ghigno nichilista e iper estetizzazione dell’immagine cinematografica. Il regista osserva questo triste e grottesco spettacolo divertito e con distacco, ne cattura l’essenza e la traduce in un girato che sa di Pop Art.

Il suo magistrale tocco è percepibile quando uno schermo tripartito mostra tre protagonisti in primo piano in sincro, avvolti da luci dai colori squillanti – come un in un ritratto di Andy Warhol – e rispettivamente tinti di blu, bianco e rosso (i colori della bandiera americana). Oppure, in una sequenza del tutto surreale, Reagan balla su un palco su cui incombe un’enorme bandiera americana, manifesto kitsch di una società di plastica.

Poi c’è la violenza. Il concept all’origine del primo La notte del giudizio (The Purge), poi banalizzato in un semplicistico discorso socioeconomico, viene invece ripreso e rielaborato in Assassination Nation con risultati ben più soddisfacenti. L’uomo, se non più sottoposto a vincoli legali o etici, alla paura di essere punito, è portato a esprimere una rabbia animalesca, omicida.

Smette così di celare la sua vera natura ferina, imbraccia un fucile e insegue la preda designata. Sam Levinson ne esplora le tappe e il propagarsi all’intera collettività. Prima si esprime in forma virtuale, attraverso messaggi o commenti su Internet, poi diventa fisica, gli argini morali cedono e si perde il controllo. E’ un fenomeno di massa e segue le dinamiche del branco.

Perfetto esempio è il modo in cui il leader della squadra di football convince i compagni ad organizzare una spedizione punitiva; inizialmente alcuni vacillano, ma poi uno accetta con entusiasmo, lo segue un secondo, un terzo e così ogni spirito critico svanisce d’improvviso. E’ una fredda analisi della banalità del male e dei suoi meccanismi. Tuttavia non si tratta di mera teoria, il ritmo, la regia, sono in grado di concretizzare in maniera superba il concetto astratto.

Magistrale è il piano sequenza di un momento da home invasion degno di Brian De Palma, in cui la camera gira fluida intorno alla casa, ne spia le stanza dall’esterno, segue gli spostamenti di invasori e vittime nei piani, si sposta in alto in prospettiva aerea per poi entrare all’interno, mentre l’azione si fa più convulsa e inizia una frenetica sparatoria. Nulla in questa sezione, come nel resto del film è edulcorato: il sangue, il tentato stupro, l’aggressione fisica e verbale, tutto è mostrato con irriverente compiacimento.

[SPOILER ALERT] Infine c’è la conclusione. Siamo giunti, deliziati da tanto cinismo, a un soffio dalla fine, quando il tono cambia d’improvviso. Un colpo di scena repentino e le vittime, che stavano strisciando nel proprio sangue o divincolandosi in attesa del suplizio, si tramutano in giustiziere.

E’ una deriva revenge femminista che, se in altri frangenti avrebbe potuto essere apprezzabile, qui risulta assurda, del tutto in contrasto con quanto venuto prima, con l’atmosfera cupa e pessimista prima vigente. “Che cosa è successo?” Viene da chiedersi. Perché una scelta simile?! La risposta è più soggettiva, pertiene il labile universo dell’interpretazione d’intenti, eppure una motivazione potrebbe sussistere, e tutt’altro che banale.

Se osserviamo infatti più a fondo gli indizi di cui è disseminato lo sviluppo, dalla pellicola del Pinky Violence che vediamo in televisione e che guardano le protagoniste (Female Prisoner 701: Scorpion di Shunya Ito), alla dichiarazione di Em di voler diventare una star dell’action al femminile, una possibile e più sottile ipotesi emerge tra le righe: Assassination Nation non parla solo della realtà, ma ironizza anche su un certo tipo di cinema. L’inquadratura alle spalle di una delle improvvisate, quanto efficaci, vendicatrici – che immediatamente ricorda la silhouette di Deadpool -, fa sorgere il dubbio che l’intento non sia una descrizione eroistica, ma quasi parodistica. E altrettanto ambigua è la parata conclusiva, in mezzo alle macerie, mentre la fanfara intona una nota canzone pop. Insomma, se forse disturba per tono, l’epilogo è tutt’altro che il mero appagamento della necessità commerciale di un lieto fine.

Comunque lo si interpreti, Assassination Nation resta un sorprendente esempio di dark humor a effetto, girato con una tecnica impeccabile, il cui messaggio – estremamente stratificato – può essere letto a molteplici livelli. Che poi la sua chiusa soddisfi o meno, non si può non riconoscere al 33enne Sam Levinson un coraggio inusuale di questi tempi per un regista d’oltreoceano.

Di seguito trovate il red band trailer: