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Titolo originale: 哀しみのベラドンナ , uscita: 30-06-1973. Regista: Eiichi Yamamoto.

Rivisti Oggi | Belladonna of Sadness di Eiichi Yamamoto

08/05/2018 recensione film di Valeria Patti

Un'opera d'animazione visionaria, dalla potenza eclettica. Folgorante, psichedelica e unica nel suo genere, si impone con forza nell'immaginario di chi la guarda.

Si può e si deve utilizzare l’animazione come mezzo per spiegare e gridare al mondo le ingiustizie e lo sdegno che la razza umana è riuscita a protrarre nel corso del tempo e della storia. Si può e si deve ricordare che l’animazione non è solo un passatempo divertente per bambini, ma appartiene anche agli adulti. Si può e si deve ricordare che è grazie all’animazione sono stati fatti capolavori senza tempo dove temi come l’ambiente o la guerra sono riusciti a spiegare ai bambini (e a far riflettere gli adulti) la situazione estrema del mondo attuale (lo Studio Ghibli ne è un chiaro e perfetto esempio).

Nel 1976 esce (senza avere un gran successo, tanto che – ad oggi – è ancora inedito nel mercato home video italiano) Belladonna of Sadness / Kanashimi no Beradonna prodotto dalla Mushi Production, diretto da Eiichi Yamamoto e sceneggiato da Yoshiyuki Fukuda. A questa pellicola si uniscono altri due titoli precedenti del regista, Le Mille e una Notte (1969) e Cleopatra (1970), andando a comporre un trittico sperimentale d’avanguardia. Belladonna of Sadness è un lungometraggio che si ispira liberamente al saggio “La Strega” (Jules Michelet, 1862) ed è l’esempio perfetto di come si possa unire un’animazione elegantissima e di bellezza incomparabile a temi scomodi e dolorosi come l’inquisizione, utilizzando in modo egregio la figura della strega (e del suo patto col diavolo) come allegoria alla libertà di pensiero, alla libertà sessuale e l’importanza del libero arbitrio come unico stile di vita.

Siamo in Francia in un medioevo lontano, quasi sospeso nel tempo. Jean e Jeanne, una coppia di giovani sposini, sono in cerca dell’approvazione del feudatario di turno: un uomo avanti con l’età circondato da servi e da un’aura malvagia e austera. Esteticamente si presenta ai nostri occhi con un aspetto mostruoso e i suoi modi di fare severi e privi di scrupoli rispecchiano perfettamente il suo lato estetico. La coppia nata secondo le regole e la grazia di dio, unita dal matrimonio è illusa nel poter riuscire a superare l’incontro, convinta di suscitare tenerezza ed empatia da parte dei presenti, ma i soldi donati dal novello sposino non sono abbastanza e l’unico lascia passare è la verginità della giovane e bellissima donna (il cosiddetto ius primae noctis). Viene così violentata non solo dal patrono, ma anche dai cortigiani di turno che vengono rappresentati non con sembianze umane, ma come mostri, creature infernali che stanno commettendo (ben consci) uno degli atti più riprovevoli che un essere umano possa commettere. Jeanne subisce senza reagire lo stupro e fa ritorno a casa malconcia. Vestiti strappati e dolorante si prostra al marito in un grido liberatorio, piangendo disperata si stringe al collo di Jean, egli però non regge il confronto. Impotente e debole, non ha le capacità e la forza di consolare la propria amata.

La sua debolezza non gli permette di gestire in modo sensibile e maturo il fatto appena accaduto. “Dimentica tutto, ricominciamo da capo!” è questa l’unica frase che riesce a dire per sostenere la disperazione della giovane donna. In quella notte-incubo, la vittima umiliata inizia a covare del rancore misto a rabbia e nel silenzio ombroso e tombale, le fa visita un essere piccolo dalla voce vivace. Esso può divenire più grande e più potente, ma ciò potrà accadere solo attraverso Jeanne: è con la sua volontà e il suo volere che può restituire forza a questa creatura inquietante. E’ lei che lo ha invocato, ed è sempre lei ad alimentarlo. Avviene un approccio ambiguo, senza spiegazioni. La creatura dimora dentro di lei, nella sua indole e nell’intimità del proprio animo gli permette con qualche remora di avvicinarsi sessualmente, facendole provare del piacere fisico. Combattuta chiama il nome di Dio, ma quell’entità è troppo forte e il piacere della carne va oltre l’Edilio metafisico. Da qua inizierà un vero e proprio processo esistenziale intimo ed emotivo che ci porterà a conoscere meglio Jeanne e la sua indole. Una donna piena di contraddizioni, lucida e ferma, pronta a commettere qualsiasi azione (anche riprovevole) nel nome di Jean e del sentimento forte che la unisce al marito. Ogni qual volta subisce un’ingiuria, ogni volta che viene umiliata e massacrata, il suo rancore e il suo odio cresceranno e insieme a loro il piccolo diavolo, desideroso di possedere la sua anima.

Kanashimi no BellaDonna è un vero e proprio inno al potere femminile. Un manifesto potente, disegnato e riempito da tutti i colori possibili ed esistenti, dai più scuri a quelli più chiari, fino all’accecante bianco facente sfondo alla sequenza finale. Una polifonia che mette in risalto le mille sfumature che posseggono l’animo umano e più precisamente quello femminile, pronto a esplodere in un’epoca in cui le donne più coraggiose, quelle pronte a vivere la propria vita con la propria personalità venivano additate come streghe. Ritroviamo in Jeanne una Giovanna d’Arco fatta e finita, non perché ella voglia combattere in nome di Dio, quanto per il martirio che continua a subire nel corso della storia. Jeanne prova con tutta se stessa a comportarsi secondo le regole imposte dalla società di quei tempi, ma la sua voglia di proteggere l’uomo che ama e la sua volontà di farsi strada senza paura la rendono troppo “vivace” e pericolosa. Un altro aspetto interessante che va a cozzare con le regole del tempo è come sia Jeanne a prendersi cura di Jean: non è la classica donzella vulnerabile, non si fa difendere dal marito, non è indifesa in attesa di protezione e non ha nessuna pretesa a riguardo anzi, elargisce la sua forza e la sua volontà nel continuare a proteggere l’uomo che ama.

E’ lei che pur di non vedere Jean soffrire afflitto dalle proprie debolezze, continua a reinventarsi. Il patto con il Diavolo si fa sempre più accurato e vicino. Ogni volta che dona il suo corpo al re delle tenebre (e con esso un pezzo della sua anima), Jeanne riesce a risolvere situazioni famigliari disperate. Durante la guerra (e quindi l’assenza del sovrano e di molti uomini del villaggio) diventa usuraia. Gira per il villaggio vestita di verde (ai tempi visto come il colore dei potenti/sovrani e quindi del diavolo) e va in giro a prestare denaro per poi riprenderlo con gli interessi. Si arricchisce. E’ lei a portare la grana in casa. Dinanzi a una potenza tale il marito rimane sempre più nell’ombra, avvizzito e arreso, schiavo dell’alcol, è inerme e attonito di fronte a una tale forza della natura.

La belladonna non fa rifermento solo all’avvenenza della protagonista. E’ infatti una pianta-fiore che se usata con coscienza può avere effetti terapeutici (anche narcolettici), ma l’uso eccessivo ed estremo può portare all’avvelenamento. Infatti nel film, quando il villaggio viene travolto dalla peste nera, molti dei sopravvissuti si recano da Jeanne perché lei riesce a guarire il dolore (sia fisico che emotivo) attraverso una “misteriosa” pianta-fiore. La belladonna viene considerata la pianta delle streghe. Nel cinema odierno ci sono molte pellicole che hanno raccontato storie di crescita, rinascita e ribellione sdoganando le norme imposte. Personaggi che hanno distrutto con il loro coraggio le sovrastrutture ribaltando le regole e ricreando nuovi paradigmi. Tali personaggi (spesso donne) hanno combattuto una propria rivoluzione personale.

Dal particolare (la propria esistenza) al generale (la società) riuscendo così a proiettare il proprio riflesso come esempio per una nuova visione delle cose. Nel 1984 Neil Jordan gira In Compagnia dei Lupi, che si presenta allo spettatore come una favola, ma è quasi subito evidente la metafora particolare e affascinante che vuole esibire. La crescita, l’arrivo delle mestruazioni e il desiderio di scoprire il sesso. Unisce il puerile all’onirico, il famelico al desiderio. Una parabola che verte a raccontare passaggi di vita comuni a molte donne. Un altro esempio, ma più recente, è The Witch (Robert Eggers, 2016). Un film cupo, dai toni oscuri e inquietanti, che utilizza la crescita fisica ed emotiva della protagonista, Thomasine (Anya Taylor-Joy) come metafora di emancipazione. Una voglia di liberarsi dalle catene (la religione, la moralità, il peccato e l’accettazione di ogni evento negativo, in quanto “divino”), scindere il legame di sangue con la propria famiglia e volare in cielo verso nuove possibilità, nuove esperienze e la gioia di poter vivere la propria esistenza come sola e unica.

Thomasine vince contro la propria famiglia. Jeanne perde. Stoica, accetta e comprende la propria sconfitta. Il suo sguardo è un pugno emotivo ben assestato. Ricorda i primi piani di Renée Falconetti ne La Passione di Giovanna d’Arco (Carl Theodor Dreyer, 1928), dove i ritratti ravvicinati sono intensi e dolorosi con un’espressività lacerante, dove nel dolore c’è una sinfonia assordante e la conclusione può essere solamente compiuta nel silenzio. Nel muto dissenso troviamo la forza di reagire di fronte alle ingiustizie.

Pur sapendo cosa le aspetta, Jeanne ha quella consapevolezza pura e arcaica di chi attua un sacrificio nel nome della libertà. Quello di Belladonna of Sadness è uno stile particolare e personale, fatto di inquadrature fisse, acquerelli e colori ad olio, con immagini che si trasformano davanti a noi componendosi in maniera diversa rispetto a prima, rimescolandosi e divenendo arte nuova. Un’animazione associabile al concetto di metamorfosi. I colori sono pastello, ma spesso la cupezza e l’oscurità fanno da padrone per scene più spaventose (soprattutto quando entra in gioco il diavolo con i suoi incubi). Artisticamente alcuni disegni sono un evidente omaggio a Egon Schiele, gli abbracci ritratti ricordano le opere di Gustav Klimt.

Vi è addirittura una plateale citazione alla pop art, messa come monito verso il futuro e l’evoluzione che questo mondo dovrà affrontare. E’ proprio grazie a questo stile, si ha la sensazione di come sia tutto sospeso. Levitiamo nel tempo e Jeanne è lì che ci guarda, ci asseconda, ci chiede sostegno pur sapendo l’impossibilità di averlo. La sua bellezza evidente è segnata da un tratto forte, dove i lineamenti sono sempre disegnati con una precisa decisione, al contrario dei personaggi intorno. Spesso il popolo sottomesso non ha un volto, sembrano maschere prive di personalità e quando si presentano a noi in maniera diretta a volte ci appaiono quasi mostruosi, ma qualcosa va a cambiare nel finale.

Durante l’ultimo atto, nel tacito dissenso, Jeanne sta dicendo addio a questa effimera esistenza. L’imago Christi (figura iconica che ritrae l’atto finale della passione di Cristo) usato con maestria, ci trasmette il dolore e l’incomprensione di fronte a una tale brutalità (conferma finale l’omicidio di Jean da parte delle guardie): il popolo si ribella come adirato e frustrato nel subire un’ingiustizia così pusillanime, ma le guardie con le loro armi sono troppo forti e li spaventano nuovamente, rimettendoli al loro posto. Ma mentre Jeanne brucia in una sconfitta che in realtà è una vittoria, i volti-maschere delle donne presenti assumono i lineamenti della martire. Siamo tutte Jeanne, siamo tutte libere di esprimere la nostra esistenza ognuna con una sensibilità diversa. L’unione verso l’incompreso che non deve essere additato come folle.

Jeanne è una martire, una santa e un’eroina di altri tempi. Un finale che ricorda concettualmente Antichrist (Lars von Trier, 2009). Dove senza spiegazioni dopo una violenza feroce e spietata, vediamo l’Eden (il bosco) invaso da donne, sotto lo sguardo scioccato del protagonista (William Dafoe). Un inno al sesso femminile. Irrazionale e puro. Von Trier ci spiega senza parole come spesso nella follia e nel caos si possano trovare risposte poco prima sconosciute, e come la libertà (anche espressa nel modo più estremo possibile) riesca a risplendere di luce nuova.

Lo stesso romanticismo che utilizzano Eiichi Yamamoto e Yoshiyuki Fukuda. Lo stesso impatto, la stessa forza che deve essere da esortazione. Perché è nella violenza artistica ed emotiva, nel turbine del caos che siamo costretti a confrontarci con noi stessi. Non dimentichiamo Jeanne, indossiamo il suo volto fieramente. Uomini e Donne.

Di seguito il trailer internazionale: