Voto: 6/10 Titolo originale: Downhill , uscita: 03-07-2016. Regista: Patricio Valladares.
[recensione] Downhill di Patricio Valladares
12/12/2016 recensione film Downhill di Sabrina Crivelli
Poco originale, confuso e mal recitato, il nuovo film del regista cileno è veramente una delusione
Survival movie che fonde ambientazione esotica a un’epidemia misteriosa e sinistra, con una spruzzatina di horror demoniaco, così si potrebbe definire Downhill di Patricio Valladares. Le idee potrebbero sembrare troppe, ma non paventate, prese singolarmente sono talmente prive di inventiva, che la loro successione nel tempo non trasmette comunque praticamente niente; d’altra parte, come l’algebra ci insegna, la somma di zeri ha risultato nullo. Infatti, se in qualche modo i presupposti, o il trailer, avessero lasciato adito ad alcuna seppur basica aspettativa, magari immaginando un dozzinale prodotto di intrattenimento leggero, il risultato finale è talmente deludente da non riuscire a soddisfare nemmeno i requisiti più elementari.
Ambientato nelle lande sterminate e boschive del Cile, ossia patria natia, nonché eccentrica meta dove collocare l’azione, giusto a dare un tocco di estro geografico, protagoniste sono due coppie che si recano nell’entroterra per un giro in bicicletta. Joe (Bryce Draper), biking star in crisi da mesi dopo la morte del suo migliore amico, cede infine alle pressioni della fidanzata, Stephanie (Natalie Burn), e si lascia convincere a ritornare finalmente in sella. Probabilmente attratti dalla possibilità di staccare dalla pesante quotidianità, i due raggiungo gli amici Magdalena (Ignacia Allamand) e Pablo (Ariel Levy), pronti a trascorre insieme qualche giorno in mezzo ai boschi. Alcune sequenze iniziali ci introducono a un canovaccio piuttosto consueto: quattro sprovveduti in un luogo dal basso tasso di civilizzazione, che si imbatteranno in delle minacce locali, poi dovranno trovare il modo di fuggire, un po’ alla Turistas. Tuttavia il problema principale di Downhill non c’è nemmeno l’assenza di originalità; certo non lo è (originale) in nessun aspetto, è però il tentativo di mischiare più diversi topoi per creare qualcosa di nuovo, a dare adito a un vero e proprio fallimento a livello sia diegetico che stilistico, cercando di fondere plurime suggestioni tra loro stridenti in un unicum, che per forza risulterà un informe pasticcio. Tra citazionismo volontario e strana forma di ispirazione, forse non dichiarata, ma certo palese a un occhio nemmeno troppo allenato, nello svolgimento di Downhill riconosciamo diversi rimandi, a livello di trama, di situazioni tipo, infine proprio di stile di regia.
Tra i plurimi riferimenti c’è anzitutto, ovvio, Un tranquillo weekend di paura (Deliverance) di John Boorman. Affine per il soggetto prescelto, allo stesso modo, dei turisti desiderosi di sport e contatto con la natura (lì si trattava di attraversare il fiume in canoa) hanno un iniziale screzio con un gruppetto di spavaldi e ostili autoctoni. Qui, al posto dei campagnoli stile white trash, troviamo un manipolo di loschi individui (Luke Massy), il cui capo manifesta un interessamento un po’ troppo colorito per le ragazze. Segue una breve rissa, poi tutti per la loro strada. Se poi non ci fossimo accorti, sprovveduti, della già chiara menzione del classico del 1972, Patricio Valladares non manca di sottolineare la filiazione, riproponendo l’iconico ritornello suonato alla chitarra. Tuttavia, gli antefatti sono ingannevoli. Il regista ci suggerisce una configurazione di realtà. Mirando a stupirci con una serie di colpi di scena, ciò che è promesso in apertura è poi metodicamente trasgredito in un meccanismo di continua rottura che, se ben realizzato, sarebbe anche più che accattivante, ma che chi dirige non è assolutamente in grado di gestire in maniera anche solo sufficiente. Sarebbe stato decisamente meglio se, rinunciando a velleità manieriste, il regista si fosse limitato a strade più battute e in discesa, ovvero al consueto inseguimento di ignare vittime da parte di spietati killer per terre inospitali, mettendo in scena la solita combinazione di tentativi disperati di salvarsi la vita, squartamenti e un ritmo sostenuto.
Tuttavia, all’impianto è sin da quasi subito aggiunto un nuovo spunto inatteso: Joe e Stephanie, mentre si aggirano su un deserto sentiero boschivo, si imbattono in una macchina incidentata, all’interno della quale trovano un ferito, piuttosto malandato, dunque chiamano un medico che arriva prontamente, poi dall’alto, dal nulla, iniziano a sparare. Decede subito il dottore, la coppia, che nel frattempo è stata raggiunta dagli altri due compagni di bicliclettate, prende sotto braccio lo sconosciuto, il quale palesa strani bubboni che dissuaderebbero chiunque da un qualsiasi contatto a meno di 100 metri. Dunque è aggiunta nel calderone l’epidemia misteriosa, di cui è portatrice una cavia umana, che è riuscita a fuggire da oscuri esperimenti, un po’ alla X-Files. Gli inseguitori, che non si sa bene se mirino all’infettato o a trovare nuovi soggetti per portare avanti le loro ricerche, iniziano a braccare i malcapitati, in maniera piuttosto disorganizzata, ad essere pignoli. Gli inseguiti, dalla loro, si dividono, così da dare al regista, e a noi, la possibilità di sperimentare una pletora di cliché. Anzitutto abbiamo il nascondersi, a volte in una rientranza rocciosa attorno a cui turnica il cattivo di turno, oppure dietro a un albero di notte, aspettando il momento buono per l’assalto. Poi, nell’ordine, succedono le emissioni infettive di fluidi corporei purulenti alla Cabin Fever e la registrazione in una spelonca nelle boscaglie di uno scombinato video (evidentemente un futuro found footage) che pare un estratto mal riuscito di The Blair Witch Project – Il mistero della strega di Blair, corredato da riprese mosse con camera a mano, giusto per rinforzare il richiamo a quello stile più “realistico”. Inoltre, per dare più estro al pastiche, compaiono alieni a mo’ del carpenteriano La Cosa (The Thing) insidiati in un povero ospite; infine, come ultima componente (sembra assurdo poter pensare di aggiungere altro) un tocco di satanismo. Ebbene, come i molteplici elementi, tra loro non esattamente congruenti, possano mai collimare tra loro è un mistero che rimarrà forse per sempre serbato nella mente del regista. Se questo non bastasse altresì a dissuadere gli spettatori più coriacei, basti sapere che difficilmente qualcuno è più vocalmente cacofonico e carente nelle istrioniche arti della Burn, intorno a cui giustamente si è deciso di far ruotare gran parte del film e che, sebbene assai avvenente, è talmente fastidiosa da far celermente morire sul nascere ogni possibile entusiasmo, o immedesimazione. Draper, dalla sua, è degno compare, prova ultima della sua totale inabilità recitativa è proprio il suddetto filmato-testamento, da far rabbrividire e non certo di paura.
Da ogni lato lo si guardi, è assai arduo salvare qualcosa di Downhill, sia se preso per singoli passaggi che nell’insieme, quale bislacco collage di pezzi impossibili da incastrare in un disegno compiuto. Il fine certo era l’effetto sorpresa, ma l’unico stupore che ci coglie è che sia stato possibile che venisse accettato nella selezione di un festival di genere come quello di Sitges, seppure nella sezione notturna.
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