Voto: 7/10 Titolo originale: My Friend Dahmer , uscita: 03-11-2017. Regista: Marc Meyers.
My Friend Dahmer | La recensione del film di Marc Meyers (Sitges 50)
11/10/2017 recensione film Il mio amico Dahmer - Le origini di un mostro di Sabrina Crivelli
Un ritratto amaro e ironico del Cannibale di Milwaukee attraverso la sorprendente interpretazione di Ross Lynch
C’è un attimo nella vita di un serial killer in cui, da ragazzo strano e disturbato questi passa d’un colpo ad assassino di massa. Per Jeffrey Dahmer si è trattato del 18 giugno del 1978, quando, dopo aver caricato in macchina uno sconosciuto, Steve Hiks, lo ha condotto nella sua casa dispersa in una zona isolata nei pressi di Bath, Ohio … del ragazzo non si è più saputo nulla. Alla prima vittima ne sono seguite molte, 17 in totale, stando a quanto dichiarato dallo stesso Cannibale di Milwaukee in una confessione quando fu arrestato nel 1991. In My friend Dahmer, Marc Meyers (How He Fell in Love), in veste di regista e sceneggiatore, si concentra proprio sul momento di passaggio, da adolescente americano solitario e bullizzato a mostro antropofago, in particolare sull’anno, l’ultimo di liceo, che ha preceduto il primo delitto.
Biopic dalla marcata componente drammatica, Jeffrey (Ross Lynch) non è sempre reso come inumano antropofago, come incarnazione di un incomprensibile Male, ma come ragazzo solo e disperato. A catturare su carta la sua complessa psicologia è un suo ex-compagno di classe, il disegnatore John “Derf” Backderf che nell’omonimo graphic novel da cui è tratto il film racconta del suo rapporto con il futuro omicida e ne dà un ritratto più patetico che maligno. Diciassettenne con grossi problemi di socializzazione, si tratta infatti di un emarginato vessato dai coetanei che frequentano con lui la Revere High School, il quale, quando non è picchiato o motteggiato, è ignorato.
Poi d’improvviso un giorno inizia ad simulare attacchi epilettici ed imitare le movenze di persone con gravi ritardi mentali, suscitando così il riso di tutti e l’attenzione di Derf (Alex Wolff), Neil (Tommy Nelson) e Mike (Harrison Holzer), che decidono di invitarlo a unirsi al loro gruppo e lo eleggono a mascotte comica. Spesso ridono di lui, è indubbio, ma così si sente anche finalmente accettato; tuttavia l’amicizia si rompe proprio nel momento in cui i suoi genitori stanno divorziando e lui finisce per essere del tutto abbandonato a se stesso, alla deriva verso il tragico epilogo che lo porterà al cannibalismo.
Originale prospettiva per descrivere un’aspirante killer seriale, in My friend Dahmer vengono anzitutto sottolineate le cause che hanno portato alla follia, la quale certo non si riduce a filiazione diretta dei ripetuti traumi, ma al contempo ha comunque una relazione con una successione di variabili determinanti che hanno portato una giovane mente all’esasperazione. La diegesi procede allora per frammenti, all’apparenza anche banali, che però definiscono ciascuno aspetti della personalità del “Mostro di Milwaukee” in un analisi del percorso che ha portato alla prima vittima, soffermandosi su tutte quelle spie latenti e ignorate, su tutti quegli stimolo, perlopiù negativi, che hanno determinato dopo una lunga repressione l’esplosione della follia.
Così si sommano una madre psicotica, in precedenza sotto psicofarmaci, un padre distante, poche attenzioni, il dileggio e l’abbandono di quelli che credeva amici, poi dei genitori stessi, che si separano e lo lasciano del tutto solo a badare a sé. La situazione è certo terribile ed è descritta nelle sequenze filmiche come un crescendo dalla marcata amarezza. Tuttavia non si tratta di un ragazzo normale, molti sono gli indizi sinistri, in particolare il morboso interesse per i cadaveri di animali, che scioglie nell’acido e colleziona in vitro. L’iter tipico che porta all’omicidio umano, passando da quello animale, è percorso un’allarmante tappa alla volta.
Figura dunque inquietante, si aggira per i boschi e lungo la strada cercando carcasse, è allo stesso tempo un ragazzo intelligente con un disperato bisogno d’accettazione e un punto di vista irriverente e critico sul mondo. La rappresentazione di Jeffrey viene mantenuta sapientemente sospesa tra questi due aspetti per quasi tutto lo svolgimento, l’interesse necrofilo sembra essere solo una strana declinazione della sua passione per la biologia, e forse lo è in questa fase, le sue eccentriche uscite frutto di un punto di vista fuori dagli schemi, di un desiderio di ribellione. Sta proprio qui la forza della pellicola di Meyers, che con una buona dose di dark humor e amarezza delinea non il mostro, ma un eccentrico studente liceale e il suo travaglio interiore.
Non ci sono momenti topici di violenza, non n’è anzi mostrata alcuna, ma solamente la somma di stranezze sempre più sinistre a definire il suddetto; d’altro canto si tratta di un film pressoché solo introspettivo, che è lungi dall’essere un thriller denso di sangue e di suspense. Si concentra al contrario sull’indagine in parte ironica delle origini, ricordando così in parte I’m not a Serial Killer di Billy O’Brien, di cui replica il piglio ironico, ma differendo da quest’ultimo perché in quel caso si trattava di finzione, di un soggetto del tutto inventato, qui invece la storia è tratta da fatti reali e dall’esperienza in prima persona, sebbene romanzata, di un testimone di prima mano, ossia Derf.
Se dunque la vicinanza ha regalato certo maggior spessore al personaggio problematico, per cui non si può non provare una qualche immedesimazione o pietà per almeno 3/4 del minutaggio, gran parte del merito va conferito alla notevole interpretazione di Lynch, che riesce a rendere con la sua mimica, con i movimenti corporei, perfino con la postura, in maniera credibilissima un ruolo davvero difficile, evitando di ricadere in alcun eccesso o falsificazione e restando sempre in una distaccata verosimiglianza. La grande somiglianza fisica aiuta ulteriormente il risultato complessivo. Oltre alla sua interpretazione emerge anche quella di una Anna Heche resa irriconoscibile dal trucco eccentrico e dalla parrucca riccia, che impersona in modo decisamente esplosivo la madre nevrotica, quasi grottesca nella sua follia.
Diverso approccio, più meditativo è tragico al film incentrato su di un serial killer, My friend Dahmer è più una black comedy con un tocco di biopic che un vero e proprio thriller: dilatato nella narrazione degli eventi, predilige la componente verbale e psicologica, mentre trascura pressoché completamente quella fisica, e non vi sono pressoché immagini scioccanti, quali omicidi o vittime insanguinate. Dunque adatto per un pubblico attento alla filmografia indie che aspira più ad essere intellettualoidi che a scioccare, è meglio che desista chi è in cerca di uno slasher o di suspense.
Di seguito il trailer:
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