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Voto: 7/10 Titolo originale: DellaMorte DellAmore , uscita: 25-03-1994. Budget: $4,000,000. Regista: Michele Soavi.

Recensione story: Dellamorte Dellamore di Michele Soavi (1994)

22/11/2019 recensione film di William Maga

Nel 1994 arrivava sugli schermi l'adattamento con Rupert Everett dell'omonimo romanzo di Tiziano Sclavi, un cinecomic ante litteram nostrano lontanissimo da qualsiasi cosa venuta prima, e dopo

Rupert Everett in Dellamorte Dellamore (1994)

Si scoprono le tombe, si levano i morti, nel cimitero dell’immaginaria Buffalora, pacifico borgo omonimo di quello lombardo fino ad allora assurto alla gloria delle patrie lettere solo per l’amena commediola, tratta da Eugène Labiche, El barchett de Boffalora (1870) dello scapigliato Cletto Arrighi. Nel perimetro del locale camposanto (in realtà siamo a Guardea, Terni) succede che i trapassati, entro sette giorni dalle esequie, risorgono animati da istinti di cannibalismo; e bisogna quindi provvedere a eliminarli, spaccando loro il cranio con un bastone, o a rivoltellate.

Ignorato dalla cittadinanza, il fenomeno è fronteggiato da una specie di sceriffo-killer che vigila sui confini fra vita e non vita: Francesco Dellamorte (Dellamore era il cognome della madre), un ex studente svogliato che ora fa il custode del cimitero, e tira a campare. Al suo fianco, in figura di novello Sancho Panza, c’è il becchino Gnaghi, muto e ritardato.

In un certo senso, il romanzo Dellamorte Dellamore di Tiziano Sclavi (pubblicato nel 1991) è l’esatto contrario del racconto L’altare dei morti di Henry James, proprio come il film di Michele Soavi (La setta, La chiesa) e il contrario di La camera verde di François Truffaut.

Fabiana Formica and François Hadji-Lazaro in Dellamorte Dellamore (1994)Se lo scrittore americano e il regista parigino insegnano che dell’eredità dei defunti dobbiamo alimentarci, il ‘papà di Dylan Dog’ e il suo cineillustratore lanciano un allarme: gli zombi sono là, pronti a farci a pezzi, e urge correre ai ripari. Siamo di fronte alla metafora di un problema esistenziale: che cosa dobbiamo fare dei nostri morti?

La risposta che tutti diamo, nella pratica quotidiana, non è diversa da quella di Francesco Dellamorte, che spara distrattamente ai ‘ritornanti’ mentre telefona o fa colazione. Per continuare a vivere si possono dimenticare i morti; o meglio ancora, li si possono eliminare: ma il rituale genocidio è un esercizio che rischia di ispessire la sensibilità e ottenebrare la capacità di giudizio. Sicché, come succede al protagonista di Tiziano Sclavi e Michele Soavi, si finisce per trattare con la stessa micidiale indifferenza i vivi e i morti: e i risultati sono ilarotragici.

Di un romanzo scritto in forma di sceneggiatura, intrecciato a poetiche esternazioni sul tema e icastici disegni di Angelo Stano, preludio alla creazione – nel 1986 – dei fumetti di Dylan Dog (va ricordato che il libro è rimasto inedito per 8 lunghi anni), il film ‘salva’ i protagonisti, la situazione e il suo precipitare, e molte delle battute chiave. “Si vive”, sospira Francesco al telefono mentre contempla il cimitero dalla finestra.

Altre sortite di genere sono farina del sacco dello sceneggiatore, Gianni Romoli (Fantaghirò), bravo a inventarle in perfetto ‘stile Sclavi’, per affidarle a un Rupert Everett che non solo era la vera incarnazione del personaggio (è noto che le fattezze disegnate di Dylan Dog siano state mutuate da lui), ma si rivela anche il britannico garante di un controcanto umoristico che rende irresistibile il coacervo di orrori che lo circondano.

Fra gli interpreti è giusto rendere il giusto tributo anche all’allora 38enne cantante francese Francois Hadji Lazaro (visto nel 1991 in Delicatessen di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro), un mostro simpatico che, tra morte e rinascita, recupera infine la parola; e alla statuaria – e generosissima – 22enne Anna Falchi, nel personaggio della ‘donna che visse tre volte’.

Tra pleniluni sui sepolcri e fuochi fatui, un ossario che manda in estasi la bionda necrofila e una riproduzione dell’Isola dei morti di Arnold Böcklin, la scenografia dell’esperto Antonello Geleng (2019 – Dopo la caduta di New York, Paura nella città dei morti viventi) s’intona alle luminosità ossianiche dell’operatore Mauro Marchetti (e non a caso si aggiudicarono il David di Donatello nel 1994), mentre il commento musicale di Manuel De Sica contribuisce all’impeccabile qualità della messinscena di Dellamorte Dellamore, fra l’altro con una grottesca parafrasi dell’Inno alla gioia di Beethoven sulle immagini di una strage.

Anna Falchi in Dellamorte Dellamore (1994)Michele Soavi, incoronato all’epoca come ‘erede di Dario Argento’, sceglie la carta dell’ironia macabra e della metafora socio-culturale (il tedio di una vita che non ci passa davanti inesorabile senza che nulla cambi, dove impera la burocrazia), piuttosto che la prevedibile via dell’orrore puro, confezionando un’opera imprevedibile e senza dubbio audace (naturalmente il pubblico non la premiò affatto al botteghino …), un cinecomic ante litteram nostrano lontanissimo da qualsiasi cosa venuta prima, e dopo.

L’idea era forse quella che Dellamorte Dellamore portasse in sala i già numerosissimi lettori di Dylan Dog, uno stuolo di ragazzini che avrebbero potuto gustarsi appieno scene come quella della motocicletta che schizza fuori dall’avello col suo fantasmatico centauro (interpretato dal regista stesso), una trovata destinata a restare nell’album delle citazioni di culto (un po’ meno la rappresentazione della Morte …).

La scelta di un film ‘per tutti’, senz’altro dettata da motivi commerciali, è quindi quella che ha spinto Michele Soavi a puntare su di una moderata spettacolarizzazione del materiale letterario di partenza, come ad esempio nel massacro — e conseguente resurrezione — di un pullman pieno di boy-scout e ad eliminare invece certi episodi più intimi e dolorosi, come le ripetute visite di Francesco ai suoi genitori morti. II risultato è un perfetto equilibrio tra cinema popolare e cinema sofisticato.

E se il romanzo di Dellamorte Dellamore era già una sorta di prototipo del fumetto a venire – poche truculenze horror, molte complicazioni erotiche coi morti viventi, romanticismo dark humor -, l’adattamento cinematografico lo esalta, omaggiandolo con un memorabile finale, in cui i due antieroi imboccano l’autostrada per fuggire da Buffalora e si ritrovano sul ciglio del nulla, presagio lovecraftiano del futuro Dylan Dog. L’orrore presente senza necessità di manifestarsi concretamente: cioè il mistero.

Di seguito trovate il trailer di Dellamorte Dellamore:

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