Voto: 6/10 Titolo originale: Sun Choke , uscita: 01-10-2015. Regista: Ben Cresciman.
Sun Choke | La recensione del film di Ben Cresciman
04/02/2017 recensione film Sun Choke di Sabrina Crivelli
Raffinata e straniante incursione nel mondo della follia, la pellicola traghetta lo spettatore all'interno di un'ossessione psicotica
Incubo impalpabile e straziante, Sun Choke di Ben Cresciman tratteggia un universo surreale attraverso uno sguardo distorto, quello della disturbata Janie (Sarah Hagan).
Incentrato sulla routine quotidiana della giovane che, da quanto si può desumere dai dialoghi, ha avuto diversi episodi psicotici, subito ne è descritto il rapporto con la balia e carceriera Irma (Barbara Crampton), che sin dall’infanzia si è presa cura di lei. Lo sviluppo della vicenda è minimale, non è nella storia che risiede la forza del film, ma nella intensa sensazione che nello spettatore suscitano la regia, la fotografia (di Mathew Rudenberg), i dialoghi e le scelte in termini diegetici.
Ogni dettaglio è straniante, trasmette un incontrollabile malessere che cresce a ogni fotogramma, eppure che in buona parte del minutaggio non è concretizzato con immagini truci o violente, è qualcosa che si radica più a fondo, vibrazione visiva e sonora ineffabile, come il Diaphason che induce in Jane uno spasmo simile a quello derivante da un elettroshock. Il resto è una routine estenuante, il reiterarsi quasi doloroso per la giovane paziente ogni giorno di esercizi elementari eppure che richiedono uno smodato sforzo della poverina, mentre la sua premurosa carceriera vigila su di lei con amorevole e crudele sollecitudine.
La sua asfissiante presenza è resa magistralmente da una Crampton che perfettamente incarna una tutrice impositiva al limite del sadismo, che invade ogni spazio, anche il più intimo della sua protetta. La controlla mangiare, la richiama quando perde la concentrazione, le impone l’infinita ripetizione di posizioni in sfibranti sedute di yoga, la forza a bere fino a ingozzarsi, l’assiste durante il bagno nella vasca o quando si depila, infine la punisce quando non obbedisce. Si delinea così un rapporto sadomaso, in cui la dominatrice definisce le regole quali necessarie per la protezione di colei che tiene prigioniera, perfino le torture sarebbero finalizzate al mantenimento o, più auspicabile, al miglioramento della sua salute psichica.
Vittima, all’apparenza, della donna, Janie sembra imprigionata in una sofferente regressione infantile, di dipendenza da opprimente figura di educatrice protratta per anni, che porta a uno status passivo aggressivo. Stralunata e al contempo sperduta, la sua percezione del mondo circostante è perfettamente resa dalle scelte stilistiche, che danno la sensazione di immergere chi guarda nella sua mente, di vedere attraverso ai suoi occhi che divengono al loro volta l’occhio della camera stesso.
Soggettivissima, la resa del suo mondo, le mura domestiche come le incursioni all’esterno, sono pervase da un tocco allucinato, quasi onirico, che tange il suo apice in esterni inondati di luce bianca catturati con un’acciecante sovraesposizione. Poi c’è il particolarismo visionario, la focalizzazione sui particolari, sui gesti e gli aspetti più banali, come custodi di un significato profondo e sotteso. L’attenzione ai dettagli si configura nell’emisfero dell’iperbolico e dell’iper-significante, i movimenti dei piedi, la mimica del viso durante una regressione ipnotica, comunicano molto più di quanto è registrato, di quanto rappresentano.
Come nel lynchiano Inland Empire – L’impero della mente, o ancor più in The Master di Paul Thomas Anderson, il tangibile è ri-codificato in un linguaggio psicanalitico, in un’operazione dall’intellettualismo spinto. Anche l’atto più banale, il rompere un bicchiere, diventa indice di una aggressione repressa, una rabbia pronta ad esplodere. Ne fornisce un assaggio il montaggio alternato del flashback dello sfogo di smodata violenza, in cui è ricoperta di sangue, intervallato dall’inquadratura di lei durante gli esercizio di yoga.
Pian piano si palesa allora il bipolarismo della protagonista, poco conta quale sia la causa della sua alienazione (insita in lei o generata dopo anni di ‘trattamento’ da parte di Irma), i segni della sua instabilità si fanno sempre più inquietanti. Dietro un aspetto così innocente e indifeso, di piccola creatura vessata, si cela qualcosa di molto diverso, che emerge in un crescendo di comportamenti sempre più maniacali, per approdare al brutale…
Graduale discesa nella follia, principia quando incappucciata attrae la sua attenzione una ragazza in un bar, Savannah (Sara Malakul Lane), poi la pedina al parco, la segue davanti alla porta di casa, arriva a spiarla negli incontri intimi con il fidanzato e a intrufolarsi in nella sua abitazione. Man mano che Sun Choke avanza l’allucinato si tinge di sangue, diviene cruento, estremo, fino ad approdare in lidi decisamente gore, emblematica è la sequenza dell’uccisione del fidanzato della ragazza che ossessiona Janie: quale antropomorfa mantide religiosa, con una pietra gli fracassa la testa nel mezzo di un amplesso.
A ciò si sommano una lunga lista di sevizie, al limite del torture porn, molteplici sono gli elementi estremamente scabrosi, tra cui perfino l’uso su soggetto umano di un collare per cani che da la scossa per evitare la fuga dalla prigionia. Infine la violenza è circolare, come lei lo sviluppo filmico, l’epilogo è già scritto e mostrato sin dall’inizio, racchiuso evocativamente nella raffigurazione del fiotto di purpureo liquido vitale che lento si espande nell’acqua in turbinii e volute dlla macabra bellezza.
Ipnotico e disturbante, estetizzazione della follia, Sun Choke è una raffinata e insieme ermetica narrazione dark, di cui non si comprende appieno il mistero, e proprio in ciò sta la sua capacità di suscitare un profondo disagio in chi vi assiste.
Di seguito il trailer ufficiale:
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