Voto: 6.5/10 Titolo originale: Pilgrimage , uscita: 23-04-2017. Regista: Brendan Muldowney.
Terre Selvagge (Pilgrimage) | La recensione del film di Brendan Muldowney
05/07/2017 recensione film Terre selvagge di William Maga
Tom Holland e Jon Bernthal sono i protagonisti di un'opera che dietro l'apparenza di avventuroso dramma in costume cela meditazioni sulla fede condite di truculenze
“Roma ha parlato,” dice un messaggero vestito dei candidi abiti bianchi tipici dell’ordine cistercense. “Non si discute”. Queste la parole cariche di oscuri presagi con cui il regista irlandese Brendan Muldowney (Love Eternal) decide di aprire il suo terzo lungometraggio, Terre Selvagge (Pilgrimage), un piccolo film assimilabile per molti aspetti a Black Death – Un viaggio all’inferno di Christopher Smith.
Agli inizi del XIII secolo, la routine di un gruppo di monaci che vivono in una remota zona sulla costa dell’Irlanda viene sconvolta dall’arrivo di fratello Geraldus (Stanley Weber), palesatosi per intimargli di cedere la loro più preziosa reliquia. Stando alla leggenda, all’interno dello scrigno dorato e intarsiato custodito gelosamente si celerebbe la roccia che ha determinato la morte di un Santo autoctono. Il religioso vuole usarla come fonte di giusto e benedetto potere per il Papa, che intende iniziare una nuova crociata a Gerusalemme, nuovamente assediata dagli infedeli.
I monaci irlandesi, al contrario, intendono semplicemente obbedire alla volontà della loro Chiesa. A scortare la pietra lungo il pellegrinaggio che la porterà a Roma sono i confratelli Ciaran (John Lynch), Cathal (Hugh O’Conor), Rua (Rúaidhrí Conroy) e il novizio Diarmuid (Tom Holland), l’unico che considera degno di misericordia un servitore ex-crociato chiamato per la sua condizione fisica “il muto” (Jon Bernthal). Anche dopo aver incontrato il più o meno amichevole e affidabile Raymond de Merville (Richard Armitage) e i suoi cavalieri normanni, che sono arrivati in quelle terre in cerca di gloria, il viaggio non si fa però più facile, o più sicuro. Nemici da ogni lato, inclusi i barbari clan locali, seguono i movimenti della carovana e del suo prezioso carico, pronti a colpire, sfidando la leggenda secondo cui solo i più degni possano toccare la roccia senza essere folgorati sul colpo.
A metà tra le ambientazioni televisive di Il Trono di Spade (per eccesso, siamo per lo più dalla parti di Xena o Hercules …) e la complessità di contenuti di Silence di Martin Scorsese (la recensione), Terre Selvagge (Pilgrimage) punta ambiziosamente ad esplorare i dubbi religiosi e umani da un punto di vista culturale e storico, se non accurato, almeno autentico, scegliendo – almeno per due terzi – la strada dell’introspezione piuttosto che quella della banale versione avventurosa on the road e in veste più povera di I Predatori dell’Arca Perduta o di Il Signore degli Anelli.
Il film – se visto in lingua originale almeno – sceglie giustamente di far parlare i monaci irlandesi e i cavalieri normanni in gaelico e in francese moderno per sottolineare le loro differenze, optando come lingua comune (teoricamente il latino) per un maggiormente accessibile inglese. Scelte creative naturalmente comprensibili se non ti chiami Mel Gibson. A lasciare il segno sono senza dubbio le interpretazioni, ognuna a suo modo intensa. Lynch, il monaco più anziano, porta negli occhi una lunga e dolorosa sofferenza, mentre il giovane Tom Holland è in grado di garantire senza problemi la sua perfettamente equilibrata controparte.
Jon Bernthal è il burbero silenzioso e tatuato (vedere la locandina qui sopra per credere), ma molto più pacifico del One Eye di Mads Mikkelsen in Valhalla Rising. Weber dà vita invece a uno dei personaggi di chiesa più interessanti visti da lungo tempo sul grande schermo: è meschino, ma pronto ad assolvere per davvero quelli che lo fronteggiano, un uomo che usa Dio come de Merville usa il suo re, ovvero come simbolo di prestigio, un imperativo etico per bagnare con il proprio potere e la propria purezza tutti gli altri. A sorprendere è che gli uomini santi non sono solitamente dipinti in modo tanto insolente senza essere dei veri e propri villain o dei corrotti. Il ‘muto’ è invece buono dentro e spinoso fuori piuttosto che il contrario, come impara presto l’impressionabile Diarmuid, che finisce sapientemente sotto la sua ala protettiva. E’ un uomo dalla complessa devozione che cerca redenzione – e punizione -, ma non disdegna allo stesso tempo scosse di adrenalina.
Altro aspetto di verosimiglianza a cui il regista tiene molto è infatti la violenza viscerale senza fronzoli, sia ai danni di ladri e prigionieri – che vengono puniti con torture di varia natura – che negli inevitabili scontri corpo a corpo, tra imboscate e battaglie maggiormente studiate. Siamo lontani dai livelli di Centurion di Neil Marshall e ben più vicini a quelli di una serie TV di media fattura (ossia non sugli standard di GoT o di un Vickings …) e l’ipercineticità della mdp non favorisce un’armoniosa chiarezza durante i duelli, ma si cerca di sopperire non lesinando su brutalità assortite e indugiando nei dettagli gore.
Quando un braccio viene amputato da un colpo di ascia, non è sufficiente un solo tentativo. L’arto cede dopo ripetuti assalti, sia dei rozzi pagani senza Dio che dei ‘civilizzati’ invasori. Jon Bernthal brilla naturalmente in questo gioco, un John Wick stanco della vita che entra all’occorrenza in modalità berserker dando un senso al suo sornione aspetto intimidatorio.
Allo spettatore odierno potrebbe allora passare per la mente che da una cosa del genere derivi la consapevolezza che la vita di chiunque non sia per niente cara a chi sta lassù nell’alto dei cieli, da cui lo sceneggiatore Jamie Hannigan fa scaturire un’interessante disamina dell’importanza delle apparenze e delle lealtà nell’esistenza di una persona. Questo impegno verso papi, re o dei, è costruito sulla fede e sul rischio. Ogni personaggio del film sembra sperare ciecamente a suo modo in un domani più radioso e in una vita giusta. Le paludi nebbiose e la foschia morale aiutano a sottolineare sia la sofferenza derivante dalla piena dedizione alla causa sia le possibilità che si trovano appena oltre la coltre. In Terre Selvagge (Pilgrimage) aleggia costantemente l’idea carica di misticismo che un intervento divino possa cambiare la vita di ciascuno, non importa quanto le contingenze sembrino dire il contrario.
Nonostante un terzo atto prevedibile e piuttosto stereotipato, l’occhio di Brendan Muldowney per i dettagli e lo splatter, nonché il contributo solido dell’intero cast, garantiscono una visione che, pur non da tramandare ai nipotini, riesce ad attestarsi tra quelle che non fanno rimpiangere i 95′ di vita dedicatigli. E non è poco di questi tempi.
Di seguito il trailer di Terre Selvagge (Pilgrimage):
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