Voto: 8.5/10 Titolo originale: The Long Walk , uscita: 10-09-2025. Budget: $20,000,000. Regista: Francis Lawrence.
The Long Walk: la recensione del film kinghiano di Francis Lawrence
05/11/2025 recensione film The Long Walk di William Maga
Il regista trasforma la ripetizione in tensione pura, restituendo al Re del Brivido una delle sue allegorie più dolorosamente umane

Nel panorama della fantascienza distopica contemporanea, The Long Walk si colloca come una marcia forzata nel cuore dell’America ferita, adattando uno dei romanzi più feroci e lineari di Stephen King (firmato allora con lo pseudonimo Richard Bachman). Francis Lawrence, regista abituato a giochi al massacro e rituali di controllo sociale, sceglie un impianto narrativo di rigida semplicità: cinquanta ragazzi, uno per Stato, costretti a camminare senza scendere sotto le tre miglia orarie; alla terza ammonizione arriva il colpo di fucile.
Non c’è traguardo, vince l’ultimo rimasto, con promesse di denaro e un desiderio esaudito. È un’idea di cinema fisico, ripetitivo e scrutinante, che può scivolare nella noia o, se ben calibrata, diventare un esperimento di resistenza emotiva. Qui, nella sostanza, prevale la seconda opzione.
Il racconto segue soprattutto Ray Garraty (Cooper Hoffman), la cui motivazione affonda in un passato familiare segnato dalla disobbedienza civile, e Peter McVries (David Jonsson), compagno di strada che risponde all’orrore con un’ostinata etica della solidarietà. Attorno a loro una galleria di volti esatti ma rapidi, schegge di un film di guerra senza divise: il guascone, il solitario, l’istigatore, il troppo giovane precipitato troppo presto nel baratro. A bordo strada, folle che sembrano uscite da fotografie polverose della Grande Depressione e, sopra tutto, l’ombra del Maggiore (Mark Hamill), occhiali a specchio e voce che mischia paternalismo e sadismo: un cerimoniere della violenza legalizzata.
Il confronto con il cinema di ‘selezione mortale’ è inevitabile, ma la differenza è marcata. Se i giochi spettacolarizzati cercano il crescendo scenografico, The Long Walk stringe il quadro, asciuga l’azione, spoglia il mondo. Ripetizione e durata diventano linguaggio: il paesaggio piatto, le chiese isolate, le strisce d’asfalto sotto un cielo enorme trasformano lo spazio in una camera di tortura meteorologica. Lawrence capisce che il rischio maggiore è la monotonia e lo affronta serrando la grammatica visiva su corpi, caviglie gonfie, fiato corto, suole intrise di sangue. La crudeltà è frontale ma non compiaciuta: il film non stacca lo sguardo, costringe lo spettatore a una marcia percettiva che replica la fatica dei personaggi.
L’operazione, però, non si riduce a esercizio di stile. Laddove il materiale di partenza è un’allegoria sul Vietnam e sul sacrificio imposto a ragazzi senza potere, l’adattamento allarga l’onda d’urto e intercetta la disperazione economica, l’idea tossica della competizione come unico riscatto possibile, il mito della promessa che giustifica il massacro.
Il perché i concorrenti accettino di partire non viene spiegato fino in fondo, e proprio in questo buco si apre il tema: in un sistema che offre un solo biglietto per la sopravvivenza, anche la morte programmata può travestirsi da speranza. La lunga marcia è un’icona: serve allo Stato per farsi temere, allo spettacolo per farsi guardare, a chi cammina per illudersi di scegliere.
Dal punto di vista attoriale, il film trova i suoi picchi nella coppia Hoffman–Jonsson. Il primo dà a Garraty una calma febbrile, fatta di gentilezza e di scatti d’orgoglio ereditati; il secondo calibra ironia e tenerezza, trasformando la complicità tra i due in un legame che è la vera, piccola vittoria contro l’apparato. Hamill evita l’iperbole e mantiene il Maggiore su un registro insinuante, più mascella ideologica che villain caricaturale. Nel coro, spiccano figure tratteggiate per tocchi rapidi ma efficaci; quando cadono, fanno male non perché le conosciamo a fondo, ma perché abbiamo condiviso con loro una porzione di strada.
Sul piano drammaturgico, la scelta di restare incollati alla strada è coerente e costosa: l’assenza quasi totale di aperture narrative riduce il respiro ma rafforza la tesi. Qualche compendio di memoria – una madre che trattiene il pianto, un padre che resiste al bavaglio – basta a sedimentare il motivo morale di Garraty. La scrittura evita l’illustrazione del mondo esterno; preferisce lasciare segni ai margini dell’inquadratura, indizi di un Paese che ha sostituito la coesione col rituale sacrificale. Ne deriva un’opera compatta, più emotiva che esplicativa, che chiede allo spettatore di accettare la regola e camminare.
Il film è però tutt’altro che impeccabile. La ripetizione, motore e rischio del progetto, ogni tanto produce un calo di tensione nell’ultimo tratto, quando il conto alla rovescia si fa prevedibile e la metafora si esplicita fino a sfiorare il didascalico. Alcuni personaggi restano figure-funzione, utili all’architettura ma privi di reale riverbero. Anche la rappresentazione popolare delle platee a bordo strada, potente come icona, è talvolta troppo scolpita per risultare ambigua. Eppure, la coerenza di sguardo e la tenuta registica impediscono la deriva: la marcia continua, e con essa la stretta allo stomaco.
Dentro il corpus degli adattamenti di King, The Long Walk dialoga con quelli che meglio hanno colto l’umanità sotto l’orrore. Lawrence recupera il cuore del testo – l’amicizia come atto di resistenza, la pietà come unico lusso – e lo incastra in un dispositivo visivo rigoroso. Non consola, non cerca scappatoie, non addolcisce il finale. Mostra una nazione che canta inni mentre conta i caduti, e dei ragazzi che trasformano una fila indiana in un fragile patto di cura reciproca. Quando i superstiti si urlano addosso “al diavolo la marcia!”, l’urlo non è ribellione risolutiva: è l’unico modo per ricordare, passo dopo passo, che sotto il rumore della propaganda batte ancora un cuore.
È un film duro, a tratti estenuante, che fa della resistenza la propria grammatica e che trova, nell’attrito fra ripetizione e empatia, la sua forza. Non innova il genere, non illumina zone inedite della distopia, ma restituisce con precisione la vertigine di una scelta senza alternative e il prezzo di un’idea di patria che chiede ai figli di camminare fino a spezzarsi. In un’epoca di spettacoli voraci e memorie brevi, The Long Walk ha il coraggio di farci stare lì, a guardare, finché reggono le gambe. E quando non reggono più, a chiederci perché abbiamo iniziato a marciare.
Di seguito trovate il secondo trailer internazionale di The Long Walk:
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