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Voto: 5/10 Titolo originale: Caught Stealing , uscita: 26-08-2025. Regista: Darren Aronofsky.

Una Scomoda Circostanza: la recensione del film pulp alla maniera di Darren Aronofsky

27/08/2025 recensione film di William Maga

Il regista porta Austin Butler a Matt Smith nella New York del ’98 tra crime, violenza e dark comedy irrisolta

Una scomoda circostanza film austin

Il paradosso di Una scomoda circostanza (Caught Stealing) è scritto nel suo stesso progetto: un racconto da “uomo sbagliato” gonfio di trovate spiritose, scontri rocamboleschi e una micetta da accudire, affidato a un autore che ha sempre cercato la verità della sofferenza nel corpo martoriato. Darren Aronofsky – in versione guyrichiesca – prova a far convivere leggerezza e flagellazione morale, ma il miscuglio produce più attrito che scintille: quando il film chiede allo spettatore di divertirsi, lo costringe nello stesso tempo a contemplare ferite, organi strappati, vomito e sangue in una scia di punizioni sproporzionate. La domanda che ne deriva – perché dovremmo “passarcela bene” assistendo a un supplizio – non trova mai una risposta convincente.

Ambientato nel 1998, il film ricostruisce un Basso East Side sporco, puzzolente, pre-gentrificazione, fotografato con una matericità che pare trasferire il tanfo dalla strada allo schermo. Le inquadrature insistono su cumuli di immondizia, buche nell’asfalto, neon tremolanti; perfino le torri del World Trade Center, ripetute a margine dell’orizzonte, lavorano come un cattivo presagio. È una New York “sentita” e riconoscibile, eppure attraversata da una patina di esibizione: la severità dello sguardo e i movimenti di macchina dilatati congelano l’azione, come se la città dovesse testimoniare un processo e non ospitare una corsa picaresca. Ne nasce una frizione costante tra energia di superficie e gravità di fondo: il passo vorrebbe essere scattante, ma la regia tende alla pietra.

Hank, interpretato da Austin Butler con un fascino sonnacchioso e un’aria da perdente di buon cuore, incarna il bersaglio perfetto di questa visione punitiva. È un ex promessa del baseball azzoppata da un incidente; vive in un appartamento che trabocca di bottiglie nascoste; telefona alla madre ogni giorno con un saluto rituale; si lascia trascinare dalla fidanzata, paramedica stanca di fare da balia a un eterno ragazzo. Il suo “peccato” è un atto di gentilezza: accetta di nutrire il gatto del vicino punk scomparso all’improvviso. Da quel gesto minimo discende l’intero inferno, come se l’universo di Aronofsky non contemplasse la gratuità del bene, ma soltanto la sua inevitabile punizione. L’odissea di Hank è una processione di corpi minacciosi — gangster, sbirri doppi, trafficanti in abito religioso, energumeni russi — che non hanno spessore ma funzione: strumenti di tortura, ingranaggi di un meccanismo che misura la resistenza dell’eroe più che la coerenza del mondo.

La sceneggiatura accumula peripezie e botte, fa correre il protagonista tra scale antincendio, alimentari, lungomari e cavalcavia, ma spesso la corsa è a vuoto. La logica dell’azione – che cosa vogliono esattamente i cattivi, perché Hank non cede, qual è la reale posta in gioco – resta nebulosa o affidata a spiegazioni didascaliche. La ripetizione del danno fisico diventa allora il vero tessuto narrativo: lividi, punti di sutura, ferite riaperte, un rene tolto, una sequenza in cui graffe chirurgiche vengono strappate con le pinze.

È la familiarità di Aronofsky con l’anatomia ferita a imporsi; ma in un racconto che dovrebbe giocare sulla sorpresa e sul travestimento, la sofferenza reiterata ottunde, non intensifica. L’uomo sbagliato non conquista scaltrezza, non si inventa trappole; resiste e incassa. Che l’interprete riesca a restare cordiale, persino simpatico, è merito suo più che del testo, ma la performance finisce per essere usata come paravento: la grazia dell’attore maschera per un po’ la brutalità, non la risolve.

Una scomoda circostanza film 2025Anche sul versante comico l’ingranaggio slitta. Il film dissemina piccole gag, scarti di umorismo nerissimo, deviazioni tenere – una visita alla nonna prima della carneficina, la minestra imposta come rito, un accenno di romanticismo sfiorato nei corridoi – ma sono arabeschi che galleggiano su un mare di cupezza.

Il gatto, autentico idolo in pelliccia, regge più di un passaggio, e tuttavia la sua funzione resta simbolica fino alla crudeltà: il gesto iniziale di cura, che in tante narrazioni sancisce l’alleanza tra eroe e spettatore, qui diventa il grilletto del martirio. È come se il film promettesse la spensieratezza della scappatella notturna e poi inchiodasse tutti al banco degli imputati, spettatori compresi. Ne deriva una dissonanza non feconda ma stancante: l’ironia non alleggerisce, stride.

Il tema del corpo, d’altronde, è ancora una volta la vera ossessione. Al posto delle metamorfosi artistiche o spirituali di altre opere dello stesso autore, qui abbiamo una pedagogia del dolore: per crescere – o solo per sopravvivere – bisogna sanguinare. Ma Hank non è un ambizioso, non è un fanatico, non è un peccatore in cerca di espiazione; è un ragazzo mediocre e gentile cui capitano sventure spropositate. La sproporzione etica costringe la messinscena in una morale torva: l’esistenza è un’imboscata, la bontà un difetto, la città un labirinto che punisce i miti. Se questa ferocia, talvolta, produce un brivido di verità – l’indifferenza casuale delle strade, la facilità con cui un errore travolge una vita – più spesso crea distanza. Si finisce per osservare Hank come si guarderebbe un esperimento: fino a dove regge?

Sul piano formale, la confezione è di alto livello ma controproducente. La fotografia costruisce un’epidermide visiva fascinosa, tutta porosità e riflessi sporchi; il montaggio, però, decelera quando dovrebbe stringere, e i movimenti di macchina, severi e geometrici, raffreddano i momenti che chiederebbero impulso e scompiglio. L’accurata ricostruzione d’epoca – i locali, i manifesti sbiaditi, la musica dell’epoca, il baseball come religione domestica – rischia a tratti l’effetto catalogo: più che un organismo vivente, la città sembra una vetrina di segnali di tempo. Perfino la linea sentimentale, che avrebbe potuto donare un contrappeso umano, resta sacrificata a funzione narrativa: la donna che cura, che aspetta, che ammonisce, poi scompare nel cono d’ombra delle conseguenze.

Eppure, qua e là, il film lascia intravedere ciò che avrebbe potuto essere: quando abbraccia fino in fondo l’assurdo e fa esplodere i conflitti in mosse incrociate, quando il protagonista riesce – una volta tanto – a usare la folla, il tifo, le superstizioni cittadine come armi di sopravvivenza, la macchina si riaccende. Nell’ultimo tratto, i pezzi sembrano finalmente cercare un incastro; ma è un equilibrio tardivo, ottenuto dopo aver stremato personaggio e spettatore. La sensazione finale è di un’opera spaccata: da un lato la voglia di giocare con il genere popolare, dall’altro la fedeltà a una filosofia del castigo che azzera il gioco.

Una scomoda circostanza rimane quindi un tentativo interessante e irrisolto. Concede un’interpretazione centrale capace di tenere insieme simpatia e dolore, offre un’immagine di New York che pare emanare odori e rumori, allinea caratteristi che potrebbero incendiare ogni scena; ma inchioda tutto a una visione del mondo in cui il riso è colpevole e la carne deve pagare.

Se il cinema d’azione leggero chiede la grazia del movimento e quello morale la gravità della ferita, qui nessuno dei due ottiene davvero ciò che gli spetta. Ne esce un film che respinge mentre attrae, che ti fa desiderare la fuga mentre ti tiene fermo sulla sedia. Un film, in definitiva, che sa essere memorabile nei dettagli e smemorato nel respiro, perché scambia la densità per pesantezza e la cattiveria per profondità.

Di seguito il trailer doppiato in italiano di Una scomoda circostanza – Caught Stealing, nei nostri cinema dal 27 agosto:

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