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Cineocchio Dossier – Wuxiapian: sguardo su un genere intangibile (Parte I)

25/01/2016 news di Michele Senesi

Inizia il nostro viaggio tra eroi, spadaccini erranti e maestri di arti marziali dell'antica Cina, protagonisti di un genere cinematografico estremamente vitale

Gli anni ’70 e l’esplosione del genere

A febbraio 2016 esce contemporaneamente nelle sale cinesi e statunitensi (rispettivamente l’8 e il 26) Crouching Tiger, Hidden Dragon: Sword of Destiny, ovvero il sequel diretto de La Tigre e
il Dragone di Ang Lee, a sedici anni di distanza dal primo capitolo. Adattato da un romanzo di Wang Dulu intitolato Iron Knight, Silver Vase e sceneggiato invece da un americano, John Fusco, già colpevole della sceneggiatura di un precedente “gemellaggio” con l’Asia, Il Regno Proibito (Rob Minkoff, 2008), è una colossale e sofferta co-produzione tra Cina e Stati Uniti.

5 venomsNonostante parte del cast confermato, a balzare subito all’occhio è il passaggio di testimone al timone della regia; il taiwanese Ang Lee lascia il proprio posto al cinese Yuen Woo-ping già coreografo marziale del primo film, di Once Upon a Time in China II, Kung Fu Hustle, Matrix e Kill Bill. E questo è un segnale forte; a parità di genere (in questo caso il wuxiapian) assistiamo a un passaggio tra un autore classico e internazionalmente riconosciuto, solitamente estraneo a certe dinamiche espressive, e un regista e coreografo fondante del genere stesso o almeno di una delle sue forme più moderne.

the magic bladeNe approfittiamo quindi per osservare come si sia giunti a questa evoluzione e come sia il presente del wuxiapian, in questo periodo particolarmente frizzante per il cinema cinese. Ricordiamo che il 2015 è stato l’anno in cui la Cina è diventata il primo mercato cinematografico al mondo e in cui gli incassi record di alcuni titoli nel solo territorio nazionale hanno rappresentato un record inaspettato e mai raggiunto prima in patria. Su tutti il successo del caso Monster Hunt (ad oggi 382 milioni di dollari) che ha raddoppiato gli incassi dei due blockbuster “di classe” dell’anno precedente, The Taking of Tiger Mountain (di Tsui Hark) e Journey to the West: Conquering the Demons (di Stephen Chow).

Per guardare al presente, decidiamo di fare un piccolo ripasso della storia “recente” del genere afferrandolo dai suoi anni di gloria anche internazionale (seppur con irrilevante filologia distributiva occidentale): gli anni ’70. Studiare e appassionarsi a culture distanti dalla nostra custodisce sempre alcuni pregi innegabili, comuni e trasversali a tutte le arti. Ad esempio, osservando con cura il cinema di Hong Kong possiamo notare come si tratti di un contesto in cui brillano dei generi autoctoni e unici al mondo. Come gli Stati Uniti hanno avuto il western così Hong Kong, e di rimbalzo la Cina contemporanea, hanno avuto molti generi (e ancor più sottogeneri) tipici e unici, dallo Huangmei Diao (sorta di cinema musicale ibridato al dramma sentimentale, all’opera e altre innumerevoli influenze) al kung fu movie e il wuxiapian di cui stiamo parlando.

The-Invincible-ArmourHong Kong è sempre stata così, una città onnivora e rapidissima e la dinamicità con la quale viene praticata ogni attività (incluso il rapporto con il cibo) ha un riflesso reale anche nel cinema che deve essere un vorace profluvio di emozioni usa e getta. La differenza con altre cinematografie è che questa attitudine ha portato ad una sperimentazione continua e ad un rinnovarsi ciclico di invenzioni e stili, l’emergere ripetitivo di pionieri e maestri e spesso il giustapporsi di straordinari e liberissimi talenti. E’ così che il cinema dell’ex colonia inglese è stato sempre un fenomeno radicato e fondante della cultura locale. Un cinema che esplodeva, si estingueva, perdeva il contatto con il proprio pubblico per poi rinnovarsi ogni volta ex novo e riconquistare la fiducia dello spettatore locale. Nella seconda metà degli anni ’60 e gli inizi dei ’70, il cinema wuxiapian di Hong Kong cerca di guardare al Giappone e ad un genere simile, il chanbara, per trovare nuova linfa per alimentare un cinema ormai ripetitivo e poco vitale.

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Due sono principalmente i nomi, macroscopicamente antitetici tra loro, atti a demolire e ricostruire il genere; da un lato King Hu (A Touch of Zen), maestro dalla produzione parca che lo accompagna lungo binari più contemplativi e autoriali. Dall’altra il prolifico Chang Cheh che impone la violenza più esplicita e sanguigna del western all’italiana di Leone ed epigoni, dirigendo classici del calibro di One Armed Swordsman, The
Heroic Ones e Five Venoms. Mentre i kung fu movie arrivavano in massa anche in Italia parallelamente al successo del cinema di Bruce Lee, distribuiti a pacchetti, rinominati e doppiati fantasiosamente, il wuxiapian in patria vedeva l’avvicendarsi di decine di nuovi artisti alla regia e alle coreografie marziali (Lau Kar-leung, Chor Yuen, Tong Kai…) inaugurando una nuova primavera per il lavoro dei martial art director. Vengono prodotti centinaia di film, facendo la fortuna delle case di produzione, prima tra tutti la Shaw Brothers. Plagi, sequel, imitazioni, crossover, derive, versioni speculari a Taiwan, i titoli continuano a sommarsi l’uno sull’altro. A chiudere però la storia stilistica di questa onda è proprio King Hu con il suo The Valiant Ones punto di non ritorno della messa in scena dell’azione, un caleidoscopio di montaggio impazzito, punti macchina azzardati e movimenti di corpi mai più raggiunto. O almeno non raggiunto fino a vent’anni dopo, precisamente nel 1995.

continua…