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Diario da Venezia 75 | Giorni 7 e 8: un caffè e un Bellini in pieno centro con 4.50 euro

06/09/2018 recensione film di Redazione Il Cineocchio

Sfatiamo il mito di una città carissima per i turisti. Poi vi parliamo del tedesco Werk ohne autor (Opera senza autore)

L’aspetto più singolare di un Festival del Cinema è la disparità tra le opinioni del pubblico e quelle della critica. In questo senso, anche alla luce del confronto con quanto è avvenuto per tutti gli altri film della presente rassegna, è clamoroso analizzare quello di Florian Henckel Von Donnersmarck, Werk ohne autor (Opera senza autore), presentato ieri al Lido. Un campione di dieci persone, scelte a caso tra il pubblico per fornire i propri giudizi in una scala da 1 a 5 su tutti i film del Concorso, ha assegnato a quello del regista tedesco un voto medio altissimo, pari a 4.7. Tanto per intenderci, il secondo film più votato dagli stessi soggetti raggiunge 4.2 e il terzo non arriva a 4. La valutazione è confermata dalle opinioni rilasciate da ulteriori persone intercettate a caso all’uscita della sala. I critici dei dieci principali giornali italiani hanno invece fornito una valutazione media di 2.6, collocando così il film teutonico in posizione medio-bassa della classifica composta da quelli proiettati sino ad ora. Difficile, forse impossibile, stabilire chi abbia ragione e chi torto.  Le valutazioni del pubblico sono dettate dalla pancia, cioè dalle emozioni che in ogni singola persona il film è stato o meno capace di suscitare, e possono risultare imperfette da un punto di vista tecnico. Il recensore professionista dovrebbe invece adottare parametri più rigorosi, forte di una conoscenza piena della storia del cinema e dei singoli generi, senza farsi esageratamente influenzare dalle emozioni che anch’egli inevitabilmente prova. Se però fosse davvero così, allora ogni critico scriverebbe le stesse cose. Invece anche fra essi accade il contrario, segno inequivocabile che al momento di dire la propria ciascuno si fa influenzare da altri aspetti, fra i quali l’orientamento politico, lo snobismo intellettuale, le ideologie varie (ora è il momento del femminismo, domani chissà) costituiscono soltanto alcuni degli esempi.

Sul film in questione, chi scrive questa rubrica si schiera apertamente dalla parte del pubblico, ricalcandone in pieno l’opinione che si tratti del migliore visto in questa Mostra. Von Donnersmarck aveva esordito con il capolavoro Le vite degli altri e proseguito con il pessimo The Tourist, girato in parte proprio qui a Venezia. Con questo film torna a raccontare quella Germania ch’era stata l’ambientazione del primo, vista attraverso gli occhi del giovane Kurt (Tom Schilling), che la zia Elisabeth (Paula Beer) instrada fin da bambino a coltivare il suo talento artistico. La zia però ha problemi psichici, dunque non è ben vista al tempo del nazismo. Fatta prelevare con la forza, viene portata da un famoso ginecologo, il Professor Seeband (Sebastian Kock), legato a doppio filo con il Reich, il quale dà l’ordine di farla fuori. Anni dopo l’ignaro Kurt, diventato nel frattempo il miglior studente della scuola di pittura di Dresda, s’innamora di Ellie, che ha lo stesso volto della zia Elisabeth ed è figlia proprio del dottore, abile e fortunato nel riciclarsi al servizio dei Sovietici e nel far sparire ogni traccia del suo ignobile passato. Ma l’abiezione non è sparita dal suo animo e lo dimostrerà anche nei confronti di Kurt e della stessa figlia, i quali troveranno la salvezza grazie all’arte e al trasferimento all’Ovest, precisamente a Dusseldorf, dove Kurt si affermerà definitivamente. Questa, molto in sintesi, è la trama, ispirata peraltro alla biografia dell’artista contemporaneo tedesco Gerhard Richter. Il film contiene numerose sequenze indimenticabili, tra le quali va menzionata la reazione del ginecologo quando vede le tracce del suo passato criminale nei quadri realizzati dall’ignaro genero. Gli attori sono tutti bravissimi, in particolare Sebastian Koch, costretto a un ruolo orrendo dopo che ne Le vite degli altri aveva interpretato altrettanto magistralmente la parte del buono. C’è spazio anche per qualche momento di puro alleggerimento, che contribuisce a non far pesare affatto le oltre tre ore della durata di Opera senza autore, nel quale l’autore si diverte a ironizzare sull’arte d’avanguardia, quasi avesse fiutato che una parte dei critici avrebbe liquidato questo suo lavoro definendolo troppo classico. Ma il film va molto al di là di tutto questo, volendo essere una riflessione sulla Storia e sull’Arte. Florian Henckel Von Donnersmarck utilizza l’orrore per raccontare quell’idea di bellezza che secondo Dostoevskij sarebbe stata l’unica speranza per la salvezza del mondo. Se si vuole trovare il riferimento più in sintonia con il messaggio del film non bisogna però guardare alla Russia dell’Ottocento, ma molto più indietro: a Platone e al suo ideale di Bellezza, ben sintetizzato nel concetto “kalòs kai agathos” (bello e buono) e ripreso poi da John Keats nell’Ode sopra un’urna greca (“Bellezza è verità, verità è bellezza. Questo si sa sulla Terra, ed è ciò che basta”). In sintesi, secondo il pensiero classico e secondo il film estetica ed etica finiscono per coincidere in modo che partendo dalla contemplazione della Bellezza o dalla sua creazione (come nel caso di Kurt) si possa raggiungere la Verità. Questo stesso concetto viene espresso in modo spiritoso dal protagonista, che afferma la verità e la bellezza di una serie di sei numeri, altrimenti insignificanti, nel caso in cui formino la combinazione vincente della lotteria. All’uscita della sala viene espresso anche da una ragazza che ha affermato che per lei la Mostra può considerarsi finita.

Dato che era molto bella, abbiamo pensato che quel che dicesse fosse anche molto vero e così, anziché guardare altri film che sarebbero rimasti schiacciati dal confronto con questo, abbiamo fatto rotta su Venezia per continuare l’esperienza artistica e ammirare lo splendido ciclo pittorico di Paolo Veronese nella Chiesa di San Sebastiano (purtroppo parzialmente in restauro) e poi dirigerci alla Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, dove pagando un biglietto di tre euro si possono contemplare favolose opere tra cui la pala d’altare di Tiziano e, nella sagrestia, la Madonna col Bambino di Giovanni Bellini. Per finire, un caffè all’Harry’s Bar, accompagnato da numerosi e ottimi biscottini al prezzo di 1.50 euro. Un caffè e un Bellini (oltre a molto altro) a due passi da Piazza San Marco per 4.50 euro. Venezia non è cara. Dire il contrario non è vero. E non è bello.

Di seguito il teaser trailer originale di Opera senza autore: