Titolo originale: Die unendliche Geschichte , uscita: 06-04-1984. Budget: $27,000,000. Regista: Wolfgang Petersen.
Dossier | La Storia Infinita: quando il film è odiato dall’autore del libro da cui è tratto
01/12/2019 news di William Maga
Ripercorriamo la vicenda dietro al clamoroso successo del classico del 1984 diretto da Wolfgang Petersen, criticato aspramente da Michael Ende per gli stravolgimenti e il suo essere troppo superficiale
Nel 1984, in molti si domandavano se, forse, l’Europa avesse davvero trovato la risposta cinematografica a E.T. l’extra-terrestre e I Predatori dell’Arca Perduta che da tempo cercava. In Germania, difatti, stava allora ottenendo grande successo di pubblico il kolossal La storia infinita (tratto dall’omonimo romanzo di Michael Ende, Die unendliche Geschichte) su cui i produttori non solo avevano investito una fortuna, ma anche si erano impegnati in una scelta di taglio ‘letterario’ inconsueta. E, dopo i primi tre giorni di programmazione in patria, il film aveva incassato già oltre 3 miliardi e mezzo di lire.
Prodotto dalla Neue Constantin e costata oltre 40 miliardi di lire (circa 27 milioni di dollari del tempo), La Storia Infinita si avvaleva della regia di Wolfgang Petersen (U-Boot 96) e di un gruppo di esperti di effetti speciali, da Brian Johnsons (Star Wars: L’impero colpisce ancora) a Giuseppe Tortora (E.T.) e sarebbe uscito in Italia giusto in tempo per il Natale di quell’anno. Alla fine, avrebbe incassato globalmente 100 milioni di dollari.
Non è un mistero, però, che proprio Michael Ende, autore dei fortunatissimi romanzi Momo (1973) e La storia infinita (1979), fu il primo – e tra i pochissimi – a scagliarsi ferocemente contro la trasposizione per il grande schermo. Dopo aver visto la trasposizione, in un’intervista del 1984 dichiarava a proposito di Bernd Eichinger, Dieter Geissler e di Wolfgang Petersen:
Peste e corna a questi produttori, mi hanno fregato. Quello che hanno fatto con me è una bassezza, è un tradimento. Se fosse in mio potere, affonderei questo film nel Vesuvio.
Il riferimento non è casuale, visto che lo scrittore scomparso nel 1995 non abitava molto lontano dal celebre vulcano, circa quaranta chilometri a sud di Roma per l’esattezza. Ma quel tipo d’azione non era certo in suo potere, poiché aveva venduto i diritti cinematografici del suo romanzo fantasy già nel 1980. Sessanta milioni di marchi era costato La Storia Infinita, la produzione tedesca più dispendiosa di tutti i tempi.
Nel 1982 Michael Ende era invece ancora ottimista:
Non sono del parere che un’immagine debba uccidere la fantasia: può anche eccitarla. E proprio questo è poi il compito del film: il linguaggio dello schermo deve far galoppare la fantasia dello spettatore.
Solo due anni dopo, l’autore invece sottolineava:
Per me questo film mette in gioco la mia esistenza morale e artistica. E ciò tanto più, quanto maggiore sarà il suo successo commerciale.
Non avrebbe potuto tuttavia impedirlo, e non avrebbe dovuto neanche volerlo. Cos’aveva a che fare l’esistenza artistica dello scrittore Michael Ende con questo film? Da che cosa sarebbe dipesa la sua esistenza artistica, se non dai suoi libri? Egli trovava che l’adattamento per il grande schermo di La Storia Infinita fosse “un gigantesco melodramma fatto di kitsch, cassetta, peluche e plastica“. Michael Ende sapeva da sempre che il film non sarebbe riuscito in modo tale da soddisfarlo. Nel 1984 intentò addirittura una causa per togliere il suo nome dall’opera. Un suo diritto. Il film è una cosa, il libro un’altra. Come potrebbe essere diversamente? D’altra parte, cos’ha a che fare Un amore di Swann, il film di Volker Schlóndorff, con La ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, e che cos’è rimasto del Tom Jones di Henry Fielding nel film di Tony Richardson Tra letto e forca? Ogni riduzione cinematografica è un ‘tradimento’. E un caso di tradimento è quasi sempre interessante. Come dimostra il celeberrimo ‘caso’ Stephen King vs. Stanley Kubrick in merito a Shining del 1980.
Come nacque il conflitto sanzionato con la presa di distanza di Michael Ende, ormai è difficile da stabilire. Ascoltando le due parti non si ha comunque l’impressione che parlino dei due lati di una stessa medaglia. Parlano piuttosto di cose completamente differenti. Ma la lite non è poi cosi emozionante da doverne raccontare la cronistoria (per gli interessati, la si trova nel libro di Phantásien in Halle 4/5: di Ulli Pfau del 1984).
Il film La Storia Infinita di Wolfgang Petersen, girato negli studi della Bavaria Atelier di Monaco (la nostra visita), ha in comune con il romanzo di Michael Ende il titolo, alcuni personaggi, alcuni episodi e nient’altro. Questo non parla necessariamente contro il lungometraggio, che cerca di rappresentare sullo schermo il mondo fantastico che lo scrittore aveva fatto sorgere nella testa dei suoi lettori.
Il Drago della Fortuna Fùcur, sul quale Atreiu viaggia attraverso l’aria, alla ricerca di un rimedio contro la malattia mortale dell’Infanta Imperatrice, sulle pagine scritte ha un corpo lungo e agile, le cui squame madreperlacee brillano nei colori rosa e bianco. «I draghi portafortuna vanno per i cieli come i pesci nell’acqua. Visti da terra assomigliano a dei lampi lenti. La cosa più meravigliosa è il loro canto. La loro voce è come il suono dorato di una grande campana».
Il fortunadrago del film – Falkor – è un incrocio tra un bassotto e un coccodrillo. Sa parlare e sorridere, in volo la sua chioma perlacea sventola nell’aria. È una creatura mite e gentile, un cucciolone coccoloso cresciuto un po’ troppo. Qualsiasi lettore se lo era probabilmente immaginato diversamente. Visto in carne e ossa non è altro che l’incarnazione di una fantasia. Ogni fantasia è più ricca, più variopinta della sua immagine concreta, ma anche imprecisa, fluida, fugace. La tentazione di acchiapparla è molto forte. Quello che si tiene poi in mano ha sempre due aspetti: affascinante, perché finalmente visibile, e deludente, perché in qualche modo diverso. Il mangiapietre Pyornkrachzark, una delle più belle invenzioni di Michael Ende — che aspetto ha, come bisogna immaginarselo?
Nel film assomiglia a una piccola montagna, Mordiroccia, davanti alla cui mole Atreyu (Noah Hathaway) appare minuscolo. Il gigante ha l’aspetto di una roccia con la pelle grigia e screpolata, è di una compattezza sassea. Ma ecco che si muove, parla, alza lo sguardo triste e, sopraffatto dalla fame, stacca un pezzo di roccia grande come una casa per mangiarlo con gusto, usando i denti da escavatore, mentre le briciole danno luogo a una caduta di massi. Non lo si vede, ma si può farselo spiegare, che questa creatura, come i tecnici cinematografici chiamano i loro esseri artificiali, viene mossa da 16 microprocessori diretti da 8 operatori seduti alle consolle che attraverso i monitor seguono i gesti e la mimica del loro omuncolo. L’azione coordinata degli operatori ce la si immagina come quella di un’orchestra da camera. La soddisfazione di infondere vita a un tale essere è la variante altamente tecnica di quel sogno realizzato dai padri, quando montano il trenino elettrico per i loro figli.
Mettere in pratica l’apparentemente impossibile, rendere reale la fantasia a ruota libera; questo sogno d’infanzia dell’onnipotenza è il motivo conduttore della trasposizione filmica, che dimostra cosa può fare il cinema, e lo dimostra con perfezione, con la passione del gioco e con tutte le raffinatezze tecniche. I magnifici paesaggi esotici, sopra i quali Atreiu fugge, qui si possono vedere materialmente, incomprensibili e tangibili. Le Paludi della Tristezza, in cui sprofonda il fedele cavallo Artax, la vecchissima Moria, alla quale Atreiu con un sofisma astuto strappa l’informazione che salva la vita, sono immagini dove La Storia Infinita ritrova agilmente se stessa.
Non è un melodramma, e qui Michael Ende sbagliava, e peluche o plastica li vede solo chi lo vuole assolutamente. «Kitsch e cassetta» è un rimprovero che non porta molto lontano. Senza kitsch e cassetta non esiste cinema. E il cinema tedesco mancava di entrambi. Di cassetta perché, riparato dalle sovvenzioni provinciali, poteva fare a meno di sacrificare la purezza delle sue intenzioni sull’altare del successo.
La mancanza di successo da sola non è tuttavia segno di qualità. E ‘kitsch’ spesso è solo la denominazione sprezzante dell’estetica d’effetto di Hollywood che conosce un solo obiettivo: conquistare lo spettatore con un’elevata dose di professionalità. Paragonato a ciò, il cinema tedesco dell’epoca molto spesso era solo da ‘dilettanti’. Questo aveva a che fare anche con il denaro. In questo contesto, l’affermazione di Wolfgang Petersen e Bernd Eichinger che La Storia Infinita fosse quasi un ‘progetto pilota’ non era poi tanto sbagliata. Entrambi volevano dimostrare che in Germania efosse ra possibile fare del cinema per il grande pubblico, paragonabile alle produzioni americane. Il notevole impiego di denaro e tecnica appariva quindi legittimo, se si fosse riuscito a riconquistare parte del mercato appannaggio esclusivo di Hollywood.
Questo era quindi l’obiettivo di Bernd Eichinger, il contitolare della Neue Constantin, l’allora trentaquattrenne produttore di grido che insieme con Wolfgang Petersen aveva già girato quella pellicola da miliardi dal titolo Das Boot e che, con la spensieratezza dei giovani, stava a quel punto rischiando l’avventura de La Storia Infinita che, se avesse fallito, avrebbe significato la sua fine. Nel libro c’è un passo che recita: “Non gli piacevano i libri in cui si raccontano di malumore le vicende banali di gente banale. Inoltre rimaneva irritato, quando avvertiva che lo si voleva condurre a qualcosa e in questo tipo di libri lo si voleva sempre condurre a qualcosa”.
Questo è il pensiero del piccolo Bastiano (Bastian) che così formula il principio di Hollywood, per cui una casalinga che sta tutto il giorno davanti ai fornelli la sera non va al cinema per vedere una casalinga che sta davanti ai fornelli. Il sospetto di Bastiano contro libri che lo vogliono condurre a qualcosa ricade sulla ‘Storia infinita’ stessa, perché è un libro con un grosso messaggio. E di questo, in effetti, non rimane molto nel film. La sua concretizzazione si limita alla superficie. Coglie i fiori fantastici di Michael Ende e li dispone in un mazzo variopinto. Mostrando solo la prima metà della storia fino alla salvezza di Fantàsia e rinunciando alla seconda metà che, sulla falsariga del classico romanzo di evoluzione, racconta il faticoso ritorno di Bastiano al mondo reale, spoglia il romanzo della sua filosofia.
Secondo le parole di Michael Ende: “Se La Storia Infinita fosse uscito dieci anni prima, nessuno l’avrebbe notato“. Infatti, era sempre troppo presto quando scriveva i suoi libri.
Nel 1973 era apparso sugli scaffali parve Momo, la storia degli uomini della ‘Cassa di Risparmio del Tempo’ che rubano il tempo alla gente, una parabola toccante e ben raccontata di una ragazzina che riporta la serenità fra la gente. Il romanzo si vendeva bene, ma venne considerato un libro per ragazzi e nessun critico se ne era occupato. Nel 1979, quando venne pubblicato La Storia Infinita, successe lo stesso. Anch’essa sembrava riservata ai più giovani e i molti adulti che leggevano i libri di Michael Ende lo facevano piuttosto di nascosto e vergognandosi.
Poi, invece, venne il tempo in cui la sensazione latente di crisi mutò nella chiacchierata coscienza della crisi degli anni Ottanta. Improvvisamente, l’attenzione si rivolse alle immagini apocalittiche che chiudevano tutti gli orizzonti. Fu così che, nell’estate 1980, La Storia Infinita apparve per la prima volta sulla lista dei bestseller e da allora non ne era più sparita. Per ben 59 settimane consecutive occupò il primo posto, cosa che non era mai avvenuta in precedenza. Nel frattempo, il libro era giunto a poco meno di un milione e mezzo di copie, e Momo a quasi altrettanto: 1.3 milioni.
L’invocazione di Werner Herzog per una ‘nuova mitologia tedesca’, che cercava di promuovere con Cuore di vetro (1976) e con L’enigma di Kaspar Hauser (1976), La Storia Infinita l’ha esaudita. Il libro, non il film. Questo rifiutava il ritorno nostalgico al romanticismo, ne riproduceva solo gli effetti. Il romanzo invece ritornava alla profondità di quei tempi, in cui il desiderare serviva ancora. Intanto prendeva in prestito un po’ dappertutto: da Tarzan come da Omero, da François Rabelais come dalle saghe epiche, da Arcimboldo a Hieronimus Bosch e Salvador Dalì. La città nel mare di nebbia, Yskal, in cui Bastian si ritrova alla fine del suo viaggio, è il ritratto fedele della città di Ottavia che Italo Calvino descrive nel suo libro affascinante Le città invisibili del 1972. Talvolta, La Storia Infinita appare come una visita al museo della cultura occidentale, altre volte invece si nutre di saggezza asiatica.
Michael Ende era un visionario, un ‘cercatore di senso’, un predicatore nel deserto. Che fino ad allora avesse scritto libri per ragazzi, in cui aveva potuto dare al suo messaggio la forma della fiaba, gli era stato suggerito dal buon Dio. Perché la sua ultima fatica, Lo specchio nello specchio (1984) era invece definitivamente un libro per adulti e rinunciava ai fronzoli, marciando direttamente verso le sfere letterarie, dove era di casa Jorge Luis Borges.
No, in fin dei conti meglio rivedere in compagnia di Bastian (Barret Oliver) il film La Storia Infinita, questa mancanza di pretese o, meglio ancora, leggere Momo per l’ennesima volta. Curiosamente, nel 1986 ne sarebbe uscito l’adattamento cinematografico, diretto da Johannes Schaaf e coprodotto dall’Italia, con protagonisti Mario Adorf e Ninetto Davoli, in cui Michael Ende fece addirittura un cameo e fu coinvolto molto di più nella lavorazione. Un flop colossale, tanto che ad oggi il film è ancora inedito in home video nel nostro paese.
Di seguito la mitica sequenza del volo di Falcor e Atreiu, sulle magiche note di Klaus Doldinger e Giorgio Moroder:
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