Dossier | Rosso Natale, il cinema horror delle festività: gli anni ’70
24/12/2020 recensione film di Jayenne
Il 1972 è l'anno che segna la svolta: grazie a Racconti dalla tomba e Death House sotto l'albero non ci sono più regali, ma cadaveri. Poi, a rincarare la dose, arriva nel 1974 il seminale Black Christmas di Bob Clark
A Natale, si sa, siamo per tradizione tutti più buoni. Tranne i protagonisti della carrellata di film a tema che andremo a riscoprire da oggi per allietare il vostro tempo durante le festività, magari nel corso delle necessarie pause tra un pranzo e un cenone, quando avrete sicuramente perso le forze per poter dedicarvi a qualsiasi altra attività se non il mettersi comodi sul divano e (ri)guardare un bell’horror d’atmosfera. Per i più nostalgici come la sottoscritta, a partire dai primi anni ’70 sono uscite diverse pellicole che hanno contribuito a rendere il 25 dicembre una festa piuttosto spaventosa e inquietante, da brividi, e non di certo per il freddo. Partiamo dunque con questo decennio per arrivare gradualmente fino ai giorni nostri, sperando di riuscire a darvi una prospettiva più ampia sui titoli di maggiore successo di questo filone.
Il 1972 è stato l’anno che per primo ha dipinto di rosso sangue le festività. In Inghilterra usciva Tales from the crypt (in Italia Racconti dalla tomba), che ispirò in seguito l’omonima serie TV (da noi I racconti della cripta), mentre dall’altra parte dell’Oceano arrivava Death House.
Iniziamo proprio con Death House allora, meglio conosciuto con il nome di Silent night, Bloody night (o Night of the Dark Full Moon), diretto dal regista Theodore Gershuny. Per la vostra felicità vi comunico che questo piccolo grande gioiellino proto-slasher, che non è mai stato doppiato, è stato reso disponibile in Italia da poco in DVD nella collana Opium Visions della Penny Video, dedita alla riscoperta di titoli culto introvabili degli anni ’60 e ’70 (la nostra recensione dell’edizione home video).
Quello che rende questo film davvero magistrale è la bravura del regista, che ha la capacità di catalizzare l’ attenzione intorno a una storia torbida e inquietante, accompagnata da colpi di scena e suspense non da poco.
L’atmosfera che ricopre come un delicato manto di neve tutta la pellicola è terribilmente malsana e soffoca con il suo peso la purezza del clima natalizio, donandogli un’aria cupa, con alti tassi di tensione e violenza che esplodono tra le inquadrature evocative di cui il regista ci fa dono e impreziosiscono la sceneggiatura di Jeffrey Konvitz ricca di rivelazioni, capace di tener stretto lo spettatore alla gola dal principio alla fine. Questo film ha anticipato intuizioni e meccanismi che faranno poi la fortuna di molti horror a venire, soprattutto gli slasher, la cui origine generalmente si attribuisce a Black Christmas (Un Natale Rosso Sangue) di Bob Clark del 1974.
E’ stato però Death House, realizzato nel 1970 ma uscito solo 2 anni più tardi, a instillare nella nostra mente le dinamiche che han fatto la fortuna di questo sottogenere, che ritroveremo in seguito in classici come Halloween, Venerdì 13 o curiosamente anche nel coevo Reazione a catena di Mario Bava del 1971 e in I corpi presentano tracce di violenza carnale di Sergio Martino del 1973 ,offrendoci delitti sanguinosi, mani mozzate e plurimi omicidi succulenti, il tutto condito sapientemente da una colonna sonora acida e perturbante firmata da Gershon Kingsley.
L’opera di Gershuny inquieta attraverso i suoni e i respiri affannosi dell’omicida, che alimentano la tensione e che saranno ricordati anche in Maniac di William Lustig (1980) dal protagonista Joe Spinell. La voce narrante di Diane (Mary Woronov), che racconta le vicende legate alla villa misteriosa, luogo di dolore e sofferenza nella quale si compiono storie dolorose fatte di abusi a giovani vittime indifese, vendette ed incesti, accompagna lo spettatore nel suo addentrarsi lentamente nel passato.
La fotografia color seppia di grande potenza visiva e lasciata volutamente sporca (opera di Adam Giffard) e i primi piani indimenticabili ai volti nel buio quasi totale, ci raccontano queste storie di pazzia. Si tratta di un racconto che abbraccia traumi infantili, narra l’orrore e si concentra sul passato rivelatore di mali, un passato intriso di sangue che scivola nel presente per glorificare la rivincita macabra che colpisce uno a uno i protagonisti, che cadono come mosche in una trappola rinchiusa tra quattro mura, dove un pericoloso serial killer, nelle ore precedenti il Natale, si rifugia 20 anni dopo evadendo dal manicomio in cui era stato rinchiuso.
Un passato costruito da eventi mai chiariti, un omicidio irrisolto, una figura misteriosa nascosta in casa, telefonate minacciose, colpi di scena brutali a colpi di ascia, sguardi distorti e guanti neri sono gli ingredienti che condiscono questo indimenticabile film, impreziosito ulteriormente dal sottofondo malinconico e dolce della nenia natalizia Silent Night. Una pellicola maestosa, nonostante a volte la trama possa apparire poco credibile perché non molto semplice e intuitiva, ma capace di riscattarsi con ricche dosi di violenza per scivolare in un finale fantastico che lascia a bocca aperta letteralmente, riservandoci sorprese sull’identità e il movente dell’omicida.
A partire dal novembre del 1972, Death House cominciò a venir proiettato principalmente nel circuito dei drive-in prima di scomparire nell’oscurità almeno fino al ’78, quando un’emittente televisiva decise di ripescarlo, trasformandolo da lì in poi in un appuntamento fisso del palinsesto dei mesi di novembre e dicembre.
Se avete in mente di farvi una scorpacciata di horror durante le prossime settimane, non potrete certo prescindere allora nemmeno da Tales from the crypt, sempre del 1972 e in Italia uscito come Racconti dalla tomba. Ispirato alle riviste a fumetti antologiche Tales from the crypt e The vault of horror della EC COMICS (ristampate recentemente in Italia dalla 001 Edizioni) e diretto da Freddy Francis, questo film è stato fonte di ispirazione a sua volta per I racconti della cripta, mitica la serie televisiva trasmessa dal 1989, con protagonista narrante lo Zio Tibia (chi non se lo ricorda?? qui mi scende una lacrimuccia pensando ai bei tempi passati …).
Cult impareggiabile, perfetto connubio di orrore e intrattenimento, la pellicola di Francis si costruisce attraverso la figura del Crypt Keeper (Ralph Richardson), misterioso frate dalle fattezze umane che si eleva a giudice delle azioni dei cinque protagonisti degli altrettanti episodi presenti. Di questi soltanto il primo è a tema strettamente natalizio, ma poco ci importa, perchè quando lo guarderete seduti comodamente sul vostro divano con una bella tazza di cioccolata calda fumante in mano, non potrete che rimanerne colpiti e affascinati. Lo stesso George A. Romero e Stephen King, che ne avevano in mente un remake, rielaborarono successivamente il progetto dando vita a Creepshow nel 1982, simile ma differente.
Ma torniamo a noi. I cinque segmenti che costituiscono il film sono introdotti da un prologo in cui un enigmatico monaco fa rivivere all’interno di una catacomba alcuni peccatori, che raccontano i crimini che hanno commesso durante le loro esistenze e il modo in cui furono già puniti quand’erano in vita. Una donna commette uxoricidio ma viene uccisa da un pazzo, un uomo scappa con l’amante ma un incidente sfigura lui e acceca lei, un giovane costringe al suicidio un rivale ma il fantasma di questi gli strappa il cuore, un ricco industriale viene distrutto da una magica statuetta, e il direttore di un ospizio per ciechi è divorato da un cane.
Un classico da rivedere, un horror genuino e funzionale che gioca sul grottesco per mettere in evidenza il più grande flagello dei nostri tempi, e cioè la giustizia che ha le fattezze e il volto del frate, il quale svelerà le sue intenzioni in un finale che resta all’altezza di tutta la narrazione precedente.
Partiamo con il primo episodio, And all through the house, non troppo brillante e facilmente prevedibile ma efficacemente ironico grazie all’ambientazione natalizia che fa da sfondo, si eleva in un crescendo di momenti che restano impressi. La prima sequenza è quella di una moglie (Joan Collins) che uccide il marito la notte del 25 dicembre, mentre la radio dà la notizia della fuga di un pericoloso psicopatico travestito da Babbo Natale, che le farà naturalmente visita.
E’ carico di tensione, anche se probabilmente resta il capitolo più debole. Ben realizzato e con lodevoli scelte stilistiche di regia, presenta come detto una trama molto semplice e un po’ scontata, il sangue di una consistenza e di colore improponibili, un finale facilmente intuibile, ma con una messa in scena godibile nel contrasto tra horror e ambientazione festosa resa ancora più macabra e stridente dalle musiche natalizie tradizionali in sottofondo.
Nel secondo episodio, Reflection of death, troviamo il marito fedifrago Carl (Ian Hendry) in fuga con l’amante, ma la gita dura poco, perché i due hanno un terribile incidente che si tramuterà in vero e proprio incubo in bilico tra sogno e realtà. L’idea è semplice e ben congegnata e la sequenza dell’incidente stradale girata a regola d’arte si fa ricordare, la tensione è palpabile e cresce, spinta anche dalla curiosità per l’epilogo, ma non c’è molto altro, tutto si riduce a ben poco da dire. Poetic justice è il titolo del terzo coinvolgente segmento che compone Racconti dalla tomba, con il grande Peter Cushing nella parte di un adorabile vecchietto a cui viene tolto tutto da un uomo d’ affari senza scrupoli.
Il giovane benestante James (Robin Phillips) non sopporta il suo dirimpettaio, l’anziano spazzino Arthur Edward Grimsdyke, non tollera la sua casa povera, il suo lavoro troppo vicino alla sporcizia, l’andirivieni di bambini che vengono a fargli visita, i suoi cani. In un climax di odio dettato dalla disparità di classi sociali, il ragazzo inizia quindi a distruggere la vita dell’uomo, peraltro già segnato dalla scomparsa della moglie, la quale lo avverte tramite una tavola ouija con cui comunica che un pericolo imminente sta per abbattersi su di lui. Si inizia con il licenziamento per poi passare all’allontanamento dei bambini, fino ad arrivare all’apice di pura cattiveria che lo porterà al suicidio.
Ma non temete, la vendetta arriverà puntale nel finale e colpirà letteralmente al cuore. Si tratta dell’episodio più poetico e triste, che vi coinvolgerà in maniera profonda, facendo crescere la rabbia verso il diabolico James e con un epilogo capace di farvi commuovere, oltre che godere per la rivincita, che qui è sentita come Giustizia.
Il quarto episodio, Wish you were here, è dal mio punto di vista il migliore, soprattutto per la conclusione. Macabramente divertente e ironico quanto terribile, racconta la storia di un uomo d’affari, Ralph (Richard Greene), sull’orlo della bancarotta. Nella loro lussuosa villa, la moglie scopre per caso una statuetta comprata nel corso di uno dei loro numerosi viaggi fatti, e ne nota l’iscrizione alla base, che recita che saranno esauditi tre desideri, ma che bisognerà prestare molta attenzione a ciò che si chiede, perché gli esiti saranno funesti.
Ultimo e più cinico episodio è Blind alleys, piccolo gioiello che assieme a Poetic justice condivide la tematica dell’ingiustizia verso i deboli. La vendetta di un gruppo di non vedenti verso l’egoista direttore dell’istituto, si mescola con la Giustizia in una soluzione geniale sia dal punto di vista narrativo che da quello visivo.
Questo è il segmento decisamente migliore, con un epilogo davvero disturbante, soprattutto per la trappola organizzate e che ricorda un po’ i giochetti di Jigsaw, con pareti cosparse di lamette che restano senza ombra di dubbio il punto più alto in termini di trovate originali orrorifiche dell’intera pellicola. Questo episodio ricevette molte critiche positive, non tanto per la regia o la sceneggiatura, comunque dignitose, ma soprattutto per come era stata trasposta una storia presente nel fumetto originale. I film degli ultimi tempi avrebbero molto da imparare da opere come Racconti dalla tomba, che pur rifacendosi al puro horror senza troppi degli stereotipi moderni, mantiene a distanza di anni quel magnetismo divertente a cui è difficile resistere.
Ma cambiamo tono e spostiamoci adesso in Canada, ritornando sul già citato Black Christmas (Un Natale rosso sangue). Questo film del 1974 diretto da Bob Clark è considerato – giustamente – uno dei capolavori del genere horror, tanto che nel 2006 ne è stato fatto addirittura un remake, di cui parleremo a breve.
Girato in soli due mesi e con un budget di appena 686.000 dollari canadesi, ebbe davvero un successo incredibile e in un qualche modo anticipò le gesta che avrebbero reso celebri Michael Myers e Jason Voorhees. Non a caso, Clark, nel corso di una discussione avuta con John Carpenter, gli confidò che nel caso gli fosse venuto in mente di dare un seguito al suo film, questo si sarebbe intitolato Halloween e avrebbe raccontato il ritorno dell’assassino protagonista nella sua città natale.
Proprio quello che si vedrà da lì a pochi anni nel classico firmato da Carpenter. Se volete riscoprire questo capolavoro assoluto e arricchire la vostra collezione di DVD, potete trovarlo ora edito dalla Jubal Classic Video, che lo ha ristampato in Italia qualche tempo fa con una fascetta nuova. Copertina a parte, l’edizione è tuttavia identica, compreso il fatto che alcuni momenti del film sono presentati in lingua originale sottotitolati e senza doppiaggio (non è una pecca, bensì un arricchimento, perché potrete scoprire qualcosa a cui non avete immediatamente fatto caso, ma non vi spoilero nulla in merito!).
Atmosfera sinistra e inquietante per 98 minuti di tensione ambientati durante periodo natalizio, con in sottofondo anche qui le note di Silent Night cantata dai bambini, questo film è il migliore che il regista Bob Clark abbia girato. Ha saputo fondere una vicenda angosciosa, sadica e gratuitamente malvagia con le lucine colorate e gli addobbi natalizi, andando a corrompere il buonismo imperante tipico delle feste, senza mai accedere in inutili fiotti di sangue o in flashback vari, ma semplicemente mettendo in scena la violenza attraverso un crescendo di claustrofobia costante.
La regola less is more qui è ben interpretata della presenza/assenza dell’assassino – a differenza del remake del 2006 in cui si mostra tutto e subito -, che si palesa più che altro attraverso l’uso abile del sonoro, che poi è il perno centrale di tutta la pellicola assieme alle voci inquietanti che il killer riesce a riprodurre durante le sue telefonate minacciose, voci di ben cinque persone diverse, riuscendo così ad aumentare l’effetto disturbante in chi ascolta, oltre al fatto di non dare una precisa fisionomia alla sua personalità, o al suo volto, che rimarrà oscuro fino al finale supremo, ambiguo e completamente aperto, lontano dalle regole classiche dei film thriller a cui si era abituati. Non sapremo mai nulla sul movente che lo ha spinto a uccidere le ragazze della casa, ma ci sentiremo ingannati da quell’occhio spiritato che si intravede per pochi istanti. Black Christmas incassò 4 milioni di dollari e vinse anche un premio per la miglior sceneggiatura di A. Roy Moore.
Un horror che privilegia l’atmosfera, toglie anziché aggiungere facili effettacci gore o inutili flashback volti a spiegare la genesi del killer, cosa che invece puntualmente accadrà nel remake diretto da Glen Morgan del 2006. I primi piani, le telefonate sussurrate, il miagolio del gatto e l’abilità di Clark di sfruttare gli spazi stretti della casa, tutti elementi che concorrono a creare inquietudine, mentre il remake non replica nessuno di questi tratti, proprio perché svela tutto troppo presto, non lascia spazio all’immaginazione dello spettatore. Il fatto di voler sempre e a ogni costo dare spiegazioni sulla genesi del mostro, lo spiegone sulla nascita e la crescita del maniaco è tanto assurda quanto scombinata.
Un rifacimento che dovrebbe essere contemporaneo e accattivante è invece impoverito dalle aggiunte, impersonale e poco incisivo ancor di più se paragonato all’originale, dove il terrore puro nasceva dalla sottrazione e che, nonostante un budget nettamente inferiore, poteva contare su idee registiche semplici e clamorose. Morgan manca di comprensione dei meccanismi che creano suspense, non tocca le corde della paura, non ti fa rimanere incollato alla sedia per capire come andrà a finire. No, il remake opta per mostrare tutto troppo presto e il regista prova a colmare le lacune di storia attraverso secchiate di splatter e flashback in cui ci capirete poco e nulla. Il film negli Stati Uniti è stato oggetto di parecchie controversie, animate da gruppi cristiani inorriditi da tale visione soprattutto proiettata in concomitanza delle feste natalizie, ma la casa di produzione si giustificò dicendo che molte altre pellicole erano uscite durante lo stesso periodo senza ricevere lo stesso trattamento.
Black Christmas – Un Natale rosso sangue è costato 9 milioni di dollari, finendo per incassarne ‘solamente’ 21 milioni. Per semplice curiosità vi consiglio ugualmente di dargli uno sguardo, giusto per comprendere ancora meglio come l’horror sia cambiato – in negativo – negli ultimi anni. Tanto 96 minuti passano velocemente … keep the faith!
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