Voto: 8/10 Titolo originale: Session 9 , uscita: 10-08-2001. Budget: $1,500,000. Regista: Brad Anderson.
Dossier, Session 9 di Brad Anderson (2001): l’orrore che serpeggia nella mente
03/01/2022 recensione film Session 9 di Gioia Majuna
Poco compreso al tempo dell'uscita, il thriller psicologico con David Caruso offre diversi livelli di lettura, alcuni molto attuali
Quando Session 9 di Brad Anderson (Prossima fermata Wonderland) arrivò nei cinema nel 2001, la critica specializzata non capì bene come accoglierlo. E il film non riuscì nemmeno a ‘connettersi’ con il pubblico (incassò meno di 2 milioni di dollari al botteghino), che si aspettava un qualche sorta di ‘gratificazione istantanea’ tipica di uno slasher.
Rivisto oggi, tuttavia, emerge dalla visione soprattutto la particolare pertinenza per quanto concerne un aspetto divenuto nel frattempo imprevedibilmente molto attuale: la cosiddetta mascolinità tossica.
Session 9 segue una piccola squadra di manovali che sono stati chiamati a lavorare in un manicomio abbandonato. Guidati da Gordon Fleming (un Peter Mullan al suo apice), gli uomini devono superare le loro meschine lotte intestine e ripulire la struttura dall’amianto entro una settimana, e poter così raccogliere un bonus di 10.000 dollari. Brad Anderson fu in grado di girare nel vero Danvers State Mental Hospital, un complesso abbandonato che arrivò addirittura ad ospitare oltre 4.000 individui tra pazienti e personale, pioniere di tecniche controverse come la terapia della memoria repressa e la lobotomia.
“Negli anni ’30 era così sovraffollato che avevano pazienti che dormivano nei tunnel sotterranei“, osservava Brad Anderson nel commento audio del DVD. Ciò conferisce a Session 9 un’atmosfera inquietante e di terrore latente, con l’infreddolito cast pienamente consapevole che stavano camminando attraverso i corridoi di un edificio che aveva visto veri orrori indicibili. Corsero persino voci secondo cui rumori di passi riconducibili ad alcuni senzatetto, molti dei quali erano proprio degli ex pazienti, potevano essere ascoltati attraverso i vasti spazi del manicomio (circa 65.000 mq) durante le riprese del film.
Session 9 aveva – abbastanza chiaramente – l’aspirazione di essere il successore spirituale di Shining di Stanley Kubrick, appoggiandosi a visioni spettrali, tecniche kubrickiane come raccordi di montaggio e punti di fuga, e una colonna sonora composta in gran parte da un pianoforte dalle note snervanti. Il mix sonoro volutamente distorto e il modo quasi alieno con cui la cinepresa insegue i personaggi ricorda in qualche modo però anche i film di David Lynch.
Nonostante queste ovvie ispirazioni, però, Session 9 riesce a forgiare un’identità personale esplorando le fragilità della psiche maschile in un modo molto moderno.
Fin dalla prima scena, Gordon viene mostrato mentre reprime le sue emozioni, seduto nella sua automobile stressato dalla prospettiva di tornare a casa dalla moglie e dalla figlia appena nata. Sembra una bomba ad orologeria. Nel frattempo, il suo subdolo secondo in comando Phil (David Caruso) cerca di far licenziare uno dei suoi colleghi. Brad Anderson inquadra intenzionalmente questo gruppo di uomini come incapaci di comunicare i loro veri sentimenti mentre lottano l’uno contro l’altro per il potere.
Il poco ispirato Mike (un inquietante Stephen Gevedon) descrive Gordon come “il maestro Zen della calma. Non la perde mai!”, un altro segno che questi individui hanno paura di mostrare segni di debolezza. Quando comunicano tra loro è solo tramite spavalderia o bugie, che fungono da cortina fumogena per la realtà oscura di ciò che sta realmente accadendo nelle loro teste.
Questa situazione rispecchia una molto concreta crisi della salute mentale nel mondo reale (ben 413 suicidi e 348 tentativi in Italia nel 2021). Session 9 possiede una simile rabbia silenziosa, con l’amianto che appare come una metafora della tossicità di come un’intera generazione di uomini è stata educata a mascherare le sue emozioni in modo così nocivo. È come se il regista – e co-sceneggiatore (con Stephen Gevedon) – volesse mostrarci come abbracciare l’idea di ciò che Tony Soprano aveva definito come il “tipo forte e silenzioso” porti solamente alla autodistruzione.
I 95 minuti di Session 9 sono notevoli anche per la loro mancanza di gore. Va ricordato che al momento dell’uscita del film, il cinema horror stava entrando nell’era del ‘torture porn’. Eppure, Brad Anderson privilegia paranoia e dialoghi agghiaccianti (tramite registrazioni audio di pazienti del passato, le ‘sessioni’ del titolo), creando in gran parte il senso di paura attraverso ciò che si nasconde nell’ombra – una mossa coraggiosa che ha più in comune con le pratiche care al maestro dell’horror minimalista Val Lewton che con il sanguinario provocatore Wes Craven.
Una sequenza terrificante mostra ad esempio un lavoratore che soffre di nictofobia – una paura estrema del buio – che corre disperatamente nelle viscere del manicomio mentre un’interruzione di corrente fa spegnere le luci una ad una.
Guardare Session 9 è come entrare nell’incubo di qualcun altro. L’avvincente performance di Peter Mullan – costruita attorno ai suoi occhi esausti, che servono da indicatore del tumulto interiore che sta nascondendo – sembra fin troppo familiare. Osando esplorare gli orrori della mascolinità tossica, stratificando attentamente il suo terrore psicologico, il film di Brad Anderson oggi appare come un horror moderno vitale, e misteriosamente preveggente.
Di seguito trovate il trailer internazionale di Session 9:
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