Titolo originale: The Day After , uscita: 20-11-1983. Regista: Nicholas Meyer.
Dossier | The Day After – Il giorno dopo di Nicholas Meyer: uno scioccante monito per il mondo
15/03/2020 recensione film The Day After - Il giorno dopo di William Maga
Nel 1983 il regista portava in TV un potentissimo avvertimento contro le conseguenze di una guerra nucleare tra USA e URSS, capace di sollevare un polverone politico e risvegliare le coscienze degli americani
“I love the Bomb”, amava ripetere ai giornalisti il regista John Milius agli inizi degli anni ’80. E aggiungeva che la bomba atomica, per lui, era “una specie di totem, come le carestie medioevali e i Mongoli: la mano di Dio che veniva giù dal cielo per ghermirti”. C’era certo da rabbrividire a sentire simili parole, ma l’America era (è) anche questa, purtroppo. Per fortuna, i deliri superomistici di un cineasta, pure importante, come Milius non sembrarono destinati a fare proseliti in un’America scossa al tempo dall’incubo nucleare, dalla montante paura dell’apocalisse atomica. Il cinema e la televisione non parlavano d’altro, come se i mass media avessero intuito che, nonostante le rassicurazioni di Ronald Reagan e Jurij Vladimirovič Andropov, la Bomba fosse una minaccia concreta.
Non era allarmismo, naturalmente. Era senso della realtà. Meglio pensarci subito. Il giorno dopo, potremmo non esserci stati più. Si intitolava proprio The Day After – Il giorno dopo il film diretto da Nicholas Meyer che nell’autunno del 1983 spaccava in due l’opinione pubblica statunitense. L’aveva prodotto, tirando fuori oltre 7 milioni di dollari, la rete televisiva ABC; un atto di coraggio che il presidente Brandon Stoddard aveva definito così: “Il nostro film spiega semplicemente che la guerra nucleare è terribile, nient’altro.” The Day After sarebbe uscito nei cinema il 20 novembre (a meno di 14 giorni di distanza dall’installazione in Germania dei missili Pershing). Ma era bastato proiettarlo qualche giorno prima nell’Auditorium della Università del Kankas, a Lawrence, dove furono girate alcune scene, per innescare una sacrosanta polemica politica destinata ad allargarsi e a provocare quasi l’intervento della Casa Bianca. Del resto, qualcuno ricorderà che un film molto meno crudo e impressionante come Wargames – Giochi di guerra suscitò sempre nel 1983 addirittura le ire del Pentagono, il quale emise un comunicato ufficiale in tre punti per smentire le ipotesi suggerite dal suo regista John Bauham.
Ma di fronte a The Day After – Il giorno dopo era difficile smentire. Il terzo lungometraggio di Nicholas Meyer (finissimo sceneggiatore e già dietro alla mdp per Star Trek II – L’ira di Khan nel 1982) non racconta di computer impazziti e di basi missilistiche in allarme, né dispone di un lieto fine rassicurante. No, l’allucinante scenario che ci viene offerto è già quello dell’olocausto nucleare. Le fotografie che erano state pubblicate da un ampio servizio apparso sul Time erano di per sé eloquenti: si vedevano, infatti, centinaia di cadaveri distesi per le strade di Kansas City, macerie da tutte le parti, macchine rovesciate e ridotte in cenere, panorami acquitrinosi. Che cos’era successo? Che un banale incidente causato dall’arrivo di missili statunitensi in Europa aveva provocato l’immediata reazione sovietica e, di conseguenza, il contrattacco americano.
In un attimo si scatena l’Apocalisse. Tre missili sovietici forano il cielo e si abbattono su Kansas City mentre migliaia di persone affollano lo stadio cittadino per seguire la partita di football. Il fungo nucleare avvolge la città e i suoi dintorni: la luce abbagliante brucia i corpi e li disintegra, un pulviscolo di morte ricopre strade ed edifici, cancella Kansas City dalla carta geografica. Il giorno dopo (proprio come nel film Malevil con Michel Serrault uscito nel 1981) i pochi sopravvissuti vagano sperduti e allucinati in quel che resta della loro città. Alcuni sparano, saccheggiano, violentano; altri — come il medico interpretato da Jason Robards — vagano contaminati alla ricerca della famiglia: larve umane senza speranza, né possibilità di fuga. Il loro futuro è fatto solo di radiazioni velenose che — come scrive il Time — “essiccano i sopravvissuti e deformano i bambini non ancora nati!. Ma quella di Kansas City non è una guerra termonucleare ‘locale’. I missili americani si dirigono già verso Mosca e le repubbliche sovietiche, il disastro finale sta per compiersi …
L’unica concessione alla speranza è una scritta che appare sul teleschermo, sovrapposta all’ultima scena, e che dice: “Ci auguriamo che le immagini di questo film ispirino le nazioni della terra, i popoli e i loro capi a trovare i mezzi per evitare il giorno fatale“. Difficile restare impassibili di fronte a una vicenda così. Il film di Nicholas Meyer era un monito agghiacciante alla follia del riarmo, alla strategia del terrore, ma anche qualcosa di più. Lo sterminio nucleare che descrive non è mitigato dalla fantascienza o dalla suggestione cinematografica del ‘Medioevo prossimo venturo’: è uno sterminio vero, che sfigura facce e corpi, che imbarbarisce il vicino di casa, che pesa come un masso sul nostro futuro. Se cade la Bomba, ecco che cosa accadrà.
Naturalmente è impossibile giudicare un’opera del genere dal solo punto di vista cinematografico, anche se qualche critico americano in vena di paragoni (A prova di errore, Il dottor Stranamore, The War Game i più citati) lo fece, trovandolo “difettoso” e “privo di spessore drammatico”. Peraltro, fu lo stesso Nicholas Meyer a riconoscere che The Day After – Il giorno dopo non fosse “un film artistico”, non cercasse l’applauso dei cinéphiles, non volesse gareggiare con la satira antimilitarista di Stanley Kubrick del 1964. Intendeva essere ‘solamente’ un pugno nello stomaco del cittadino medio americano, un modo per smuovere l’indifferenza di massa. Francamente ci era già riuscito, ancora prima di essere proiettato sul piccolo schermo.
Il congressman Edward Markey, fautore del congelamento degli armamenti nucleari, non si stancava in quei giorni di ripetere alla stampa e in tv che The Day After – Il giorno dopo era “il resoconto più onesto che abbia mai visto sulla guerra nucleare“. Gli faceva eco Janet Michaud, a capo dellla «Campagna contro la guerra nucleare», quando diceva che “la ABC sta realizzando un enorme servizio pubblico: la questione più importante del nostro tempo, la sola che conta veramente, arriva in tutte le case e ci arriva nel modo migliore”. Ma non solo. Una organizzazione che, proprio in omaggio al film, si era chiamata ‘The Day Before’ preparò diciassette gruppi di attivisti che, dopo la fatidica proiezione del 20 novembre, avrebbero tenuto in decine di città americane dibattiti pubblici sul pericolo nucleare.
Un’altra simile, chiamata ‘Ground Zero’, diretta dall’educatore anti-nucleare Roger Molander, aveva diffuso centinaia di migliaia di opuscoli sui rischi (numero dei morti, effetto delle radiazioni, distruzioni di città) di un possibile conflitto atomico USA-URSS. Perfino attori del calibro di Robert Redford, Jane Fonda e Paul Newman si mobilitarono per sensibilizzare la gente: proprio Newman, ad esempio, sarebbe apparso in uno spot pubblicitario di 60 secondi (costo 135.000 dollari) per parlare dei modi per prevenire la catastrofe nucleare. O ancora, contagiato dalla ‘febbre pacifista’ innescata dal film, il sindaco della cittadina di Lawrence David Longhurst arrivò addirittura a lanciare l’idea di un summit tra il presidente Ronald Reagan e Andropov da tenere nel suo municipio. Ingenuità, d’accordo, ma che la dicono lunga sull’impatto che The Day After – Il giorno dopo ebbe allora sull’opinione pubblica democratica.
E la destra? I circoli conservatori e reazionari si infuriarono. Ma era facile prevederlo. “La ABC lavora per Andropov”, tuonava in prima pagina il New York Post. “Se ne parla solo perché è stato fatto vedere ai pacifisti”», polemizzava John Fisher, presidente dell’American Security Council; e aggiungeva che The Day After – Il giorno dopo era una dichiarazione politica contro le scelte del governo“. C’è chi arrivò addirittura a dire che “il coro della paura finirà con l’intorpidire i sensi della gente”.
In ogni caso, molti sponsor fecero sapere di non essere interessati, per problemi di ‘opportunità’, all’acquisto degli spazi pubblicitari (di 25 o 30 secondi ciascuno) previsti durante la messa in onda del programma. “Come si fa a ballare, a cantare, e far musica e a parlare di saponette in un contesto così?“, rispondeva un grosso agente pubblicitario al Time. La Producers Sales Organization, che aveva acquisito i diritti per la distribuzione internazionale di The Day After – Il giorno dopo e li aveva concessi gratuitamente a molti paesi del mondo scopo ‘educativo’, finì per quel motivo per non guadagnarci nulla. Ma c’era anche chi sosteneva che la preoccupazione era ancora una volta meramente politica; come se l’apparire in una trasmissione del genere, già ampiamente ‘demonizzata’ dalla destra e da certi ambienti industriali, potesse rovinare ampie fette di mercato e provocare nuove polemiche.
Il dibattito attorno al film di Nicholas Meyer toccò evidentemente un nervo molto scoperto al di là dell’Oceano (l’impatto sul resto degli spettatori, europei o italiani, non poté che essere inevitabilmente meno intenso), dividendo sì l’opinione pubblica, ma sbriciolando contemporaneamente quel muro di indifferenza che sembrava imprigionare la coscienza di massa americana (il 20 novembre pare che 100 milioni di cittadini statunitensi si sintonizzarono sulla ABC per la prima messa in onda).
Curiosamente, nel 1984 l’inglese BBC commissionò il simile – ma molto più drammatico – Ipotesi sopravvivenza, mentre l’Unione Sovietica, nel 1986, ‘rispose’ a The Day After – Il giorno dopo con Quell’ultimo giorno – Lettere di un uomo morto di Konstantin Lopušanskij, film forse più realistico e poetico di quello americano, ma molto meno spettacolare e per questo tenuto poco in considerazione da pubblico e critica.
Di seguito la sconvolgente scena dell’attacco nucleare su Kansas City da The Day After – Il giorno dopo:
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