[Film memories on the road] Pontianak e sultani vampiri. La (ri) scoperta del cinema malese (Parte I)
24/07/2017 news di Mario Bulletti
Comincia un nuovo viaggio alla ricerca di una cinematografia minore
Se un giorno vi capitasse di camminare lungo Jalan Tuanku Abdul Rahman, la lunga strada che attraversa il quartiere di Chow Kit a Kuala Lumpur, è altamente consigliato fermarsi lungo i pochi negozi di DVD e CD rimasti ai bordi della strada. Non ne sono rimasti moltissimi, in Asia. Piccoli scrigni del tesoro che presto scompariranno del tutto. Velocemente.
Malesia. Inverno del 2010 o giù di li. Dall’Iran, con gli unici contanti che avevo mi son potuto permettere solo un biglietto per Dubai. A Dubai ci son stato pochissime ore: seduto fuori dall’aeroporto a fumare e pensare al cosa fare, dopo il quarto sceicco viziato, arrogante, razzista e solo pieno dei suoi soldi non ci ho visto più ed ho pensato bene di prendere le difese del povero schiavo negro. Ovviamente si è risolto tutto per il peggio: la polizia intervenuta su ordine dello sceicco “I am better than you” e della amante-prostituta “Don’t talk to him, he’s only a beggar” mi dà un ultimatum senza neanche ascoltare la mia versione dei fatti: o lascio il paese entro la mezzanotte o mi passo una notte al fresco (il che non sarebbe stato male, a dir la verità). Opto per lasciare ‘sto paese che mi aveva subito dato l’idea di essere solo un parco gioco per ricconi e un inferno per gli immigrati e prendo il bus per l’Oman dal quartiere degli immigrati poveri dietro i grandi centri finanziari. Viaggio bellissimo attraverso gole, montagne, mare da una parte e deserto dall’altra, miserabili bazaar sperduti nel mezzo al niente e pacchiane oasi con moschee e giardini dei 7 nani, arrivo di sera a Muscate, capitale del Sultanato. Povera, buia, un pò losca, più proletaria della fintissima Dubai ma estremamente cara. Dopo aver girato tra le strade del centro – sporche e brulicanti di vita, tra bazaar in cerca di dvd e cd locali – ed aver dormito su un prato all’aperto (nonostante l’apparente povertà è pur sempre una città troppo cara) vado all’aeroporto e prendo il primo volo verso oriente. “Qual è il biglietto più economico per l’estremo oriente?” “Kuala Lumpur, tra 5 ore“. E da li comincia una imprevista avventura in Malesia che dura 6 mesi.
Kuala Lumpur è diventata la mia seconda città nel corso degli anni. Ci son tornato e soggiornato per mesi ogni anno da allora e tra tutte le città dell’estremo oriente è decisamente la più vivibile e la meglio organizzata. Piccola e dotata di ottimi trasporti, non troppo cara e dotata di inglese come lingua franca per risolvere gli insanabili conflitti tra le tre etnie principali che la popolano. Musica rock e un sacco di film locali da scoprire. Ed i mesi passarono tutti così, a vivere la realtà quotidiana di una bella e moderna città tropicale. Ed ogni anno così, da allora. E’ diventata la mia seconda patria.
Il cinema malese è assolutamente sconosciuto fuori dal Sud-Est asiatico, pochissimi collezionisti se ne interessano e niente è mai arrivato in Europa. Le case produttrici non hanno mai fatto niente per poter espandere la conoscenza di questi prodotti fuori dai confini nazionali o al massimo nei limitrofi mercati della Cina, Indonesia o India e a tutt’oggi niente lascia presagire un interesse da parte delle varie case produttrici di DVD per migliorare la situazione. Il cinema indonesiano – che con la Malesia condivide una lingua al 90% identica – ha saputo ritagliarsi spazi fin dai primi anni ’80 anche in Europa attraverso l’importazione di improbabili action, horror e fantasy distribuiti in vhs nei mercati tedeschi e nordeuropei attraverso versioni manipolatissime ed ormai introvabili durante la febbrile produzione della “Golden Age” del cinema indonesiano che va dalla fine degli anni ’70 alla fine degli anni 80. Ma la cinematografia malese – che nonostante la vicinanza culturale e linguistica tra i due paesi, seppur dai contenuti profondamente diversi per tematiche e contenuti – non è mai riuscita ad espandersi oltre i propri confini nazionali se non a livelli infinetesimali nel mercato cinese ed indiano.
Il cinema malese nasce con … i cinesi, gli indiani e i filippini. E già questo fa capire come la ricerca di una specifica identità autoctona è sempre stata difficile e stentata. C’è chi dice che di tutti i popoli del Sud-Est asiatico, i malesi siano i più pigri e indolenti. Sicuramente è vero, visto che le comunità cinesi e indiane del paese hanno preso nel giro di poco più di un secolo, il controllo quasi totale dell’economia e delle strutture politiche lasciando ai malesi stessi giusto un mero (spesso inefficace) controllo solo sull’organizzazione religiosa e scolastica.
Le prime sale e produzioni cinematografiche nascono infatti nei primissimi anni del Novecento ad opera dei cinesi ed esclusivamente per un pubblico di origine cinese, tradizionalmente chiuso e ostile ad una apertura nei confronti della popolazione locale giudicata troppo arretrata ed inaffidabile. E’ ovvio che la prima impronta stilistica dell’embrionale cinema locale assumerà l’identità dei film cinesi: opere teatrali basate su classici della letteratura classica cinese e fondamentalmente tematiche che niente hanno a che fare con la Malesia ma piuttosto con la realtà del Grande Impero. In seguito, negli anni ’30 – anni in cui comunque la produzione cinematografica langue in pochissime produzioni di bassa qualità e fondamentalmente destinate solo ad una etnia “altra” – arriveranno gli indiani, la terza comunità etnica più rilevante nel paese – a ripetere la medesima operazione: film destinati alle varie etnie indiane – tamil, urdu, khanna – fondamentalmente fotocopiate dalla realtà culturale e storica del loro paese di origine. Niente, ancora, è rivolto al pubblico malese vero e proprio. E nessun tecnico o attore malese è coinvolto in queste produzioni, perlomeno a livello rilevante. Soltanto alla fine degli anni ’30 i registi indiani come B.S. Rajhan cominciano ad interessarsi alla produzione di film basati sulla tradizione locale malese: storie d’amore fortemente impregnate dalla morale islamica, su una struttura narrativa fortemente influenzata dal cinema indiano: lunghezze sterminate – oltre le due ore – inframmezzate da numerosissime scene di canti e balli, quasi sempre con cantanti locali come attori principali per veicolare e pubblicizzare le canzoni del momento e interminabili scene di dialoghi amorosi. Non si può certo dire che il cinema “malese” dell’epoca brilli né per originalità né per particolare dinamismo.
Ci penseranno ancora una volta i cinesi a creare quella che sarà la vera struttura produttiva e la specifica identitaria del cinema locale poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. I fratelli Runme e Run Run Shaw, originari di Hong Kong cominciano ad aprire una quantità sorprendente di moderne sale cinematografiche in tutto il Sud-Est e in particolare in Malesia, dove la comunità cinese è tra le più popolose, forti ed influenti di tutto il sub continente. Si assiste così ad una svolta moderna e innovatrice della produzione cinematografica e finalmente all’apertura delle trame verso una più particolare attenzione alla tradizione folkloristica locale e alla produzione di commedie e drammi di stampo più moderno e legato all’attualità. Pochi lo sanno ma effettivamente la Shaw Brothers – la famosa SB – ha effettivamente mosso i primi passi produttivi della sua gloriosa storia proprio in Malesia. Purtroppo l’invasione giapponese e l’estensione della Guerra Mondiale in Asia portano ad una brusca interruzione della produzione cinematografica. Il carattere brutale dell’invasione giapponese porta non solo alla distruzione di moltissime pellicole fino ad allora prodotte – in particolare quelle cinesi, di cui è andato perduto quasi tutto – ma anche alla fine completa di qualsiasi altra produzione cinematografica che esulasse da meri documentari di propaganda filonipponica. Anche di questo materiale pochissimo sopravvive e fino ad oggi nessuna casa produttrice ha mai tentato qualcosa per preservare e riproporre questa triste pagina di storia alle generazioni future. Parlando con un mio vecchio amico titolare della Golden Dragon Entertainment, qualche tempo fa, mi disse che per la Malesia attuale, questa è tutta roba che “può tranquillamente marcire”. In Asia ancora non si perdona e si serba rancore e la storia non viene preservata come monito. La storia, soprattutto se negativa, deve essere dimenticata e cancellata.
E’ solo dopo la liberazione dai giapponesi che il cinema malese rinasce, sempre ad opera della Shaw Brothers, che ricomincia fin dal 1946 ad avviare una nuova e intensa produzione cinematografica. E’ questa la “Golden age” del cinema malese, che durerà fino al 1971, quando la SB – nel frattempo diventata Malay Film Productions, deciderà di chiudere i propri studi di Singapore e concentrarsi solo sulla produzione made in Hong Kong. Dopo tale anno il cinema malese entrerà in una profondissima crisi produttiva, tanto che il numero di film girati fino alla fine degli anni ’90 sarà spesso anche meno di una decina l’anno. D’altra parte è proprio nei primi anni ’70 che il vicino cinema indonesiano comincerà una svolta produttiva che lo porterà ben presto a imporsi come l’unico mercato di riferimento per la regione. Con una produzione che sfiorerà anche le 200 pellicole annuali e con film di facile presa per il pubblico (drammi, commedie, horror, fantasy, action), il cinema malese soccomberà davanti alla massiccia importazione di cinema popolare indonesiano per circa un ventennio.
La Golden Age del cinema malese può essere riconducibile unicamente a una unica figura: P. Ramlee, nome d’arte di Teuku Zakariah bin Teuku Nyak Puteh, un giovane attore non particolarmente bello o attraente, basso e tarchiato, ma dotato di una straordinaria passione per il cinema e l’arte in generale. Cantante, ballerino, attore versatile dalle commedie agli horror ai drammi, in seguito anche politico e uomo di cultura, è divenuto poi anche sceneggiatore, regista e produttore. Ancora oggi P. Ramlee è il personaggio più famoso e venerato del cinema malese e i suoi film considerati tutti capolavori, ricercatissimi e conosciuti a memoria da tutti. I poster originali dei suoi film sono oggi valutati anche decine di migliaia di dollari mentre dei vecchi film classici degli anni ’50 sono gli unici ad essere quasi tutti disponibili per il mercato home video e continuamente ristampati fino a che esistevano case editrici di VCD in Malesia un paio di anni fa.
Il grande merito del suo successo è dovuto anche in grandissima parte alla stessa Shaw Brothers: dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, i fratelli Shaw hanno incentivato al massimo la produzione cinematografica in Malesia in mille modi: furono chiamati moltissimi registi indiani a lavorare per i loro studios per la creazione di una cinematografia destinata alle comunità immigrate ma anche per lavorare in sinergia nella creazione di un cinema prettamente locale che coinvolgesse attori, tecnici e maestranze malesi, indiani e cinesi per creare finalmente un vero cinema “malese” che riflettesse la variegata composizione etnica del paese. Se i registi indiani (ricordiamo B.N. Rao, responsabile di molti film negli anni ’50 e dei primi horror come Pontianak e Orang Minyak) hanno saputo consolidare una struttura cinematografica molto simile a quella di Bollywood (film dalla lunghezza interminabile conditi da estenuanti momenti di ballo e canto, personaggi estremamente schematici e ruoli fissi di buoni e cattivi), i registi cinesi hanno invece saputo portare una freschezza narrativa e una varietà di tematiche molto più moderne e ammiccanti al cinema europeo: commedie leggere, primi esempi di noir e action influenzati dal cinema inglese coevo, i primi horror, gli spionistici alla 007.
Alla fine degli anni ’50 – arriveranno anche un pugno di registi filippini che si specializzeranno particolarmente nell’horror e nell’action ma – nonostante il grosso successo commerciale delle pellicole – non avranno mai grandi opportunità di emergere in altri filoni visto che i registi indiani e cinesi erano comunque i rappresentanti forti di una società rigidamente tripartita.
continua …
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