Titolo originale: Predator: Badlands , uscita: 05-11-2025. Budget: $105,000,000. Regista: Dan Trachtenberg.
Predator: Badlands nasconde in bella vista la solita formula Disney
10/11/2025 news di William Maga
Il film di Dan Trachtenberg racchiude tre cliché ormai logori e stravisti

Contiene SPOILER
Ammettiamolo una volta per tutte: Badlands non è un film di fantascienza militare – è un film Disney travestito da Predator.
E non nel senso “metaforico”: nel senso più letterale e genetico possibile. È Il viaggio di Arlo in tuta da guerra, Lilo & Stitch con teste mozzate, The Mandalorian in versione per adulti repressi.
Ma per capire davvero perché, bisogna fare un passo indietro. Negli ultimi vent’anni, Disney ha comprato – e lentamente omogeneizzato – l’intero ecosistema dell’intrattenimento mondiale. Prima Pixar nel 2006 (7,4 miliardi di dollari), poi Marvel nel 2009 (4 miliardi), infine Lucasfilm nel 2012 (4,05 miliardi). Tre acquisizioni che hanno trasformato Topolino da mascotte a CEO dell’immaginario globale.
E con loro, qualcosa è cambiato: i linguaggi si sono fusi, gli archetipi si sono ripetuti, e il “modello Disney” è diventato un virus narrativo.
Da allora, ogni grande franchise – dai supereroi ai Jedi, dai mondi sottomarini ai pianeti predatori – ripete lo stesso mantra: figlio incompreso, creatura tenera, amicizia improbabile → redenzione emotiva.
Predator: Badlands non fa eccezione. È l’ennesima incarnazione di questa formula perfettamente addomesticata, solo travestita da cinema testosteronico. Il giovane Yautja è la nuova pelle di un vecchio archetipo: il figlio goffo e disprezzato che trova un cucciolo, si fa un’amicizia impossibile e torna a casa per regolare i conti col padre.
Dek, il protagonista, è un manuale ambulante di psicologia Pixar: l’ultimogenito “inadatto”, il runt della covata. In ogni film Disney sarebbe un ragazzino con troppa fantasia e poche doti atletiche: Arlo in Il viaggio di Arlo, Ian in Onward, Elio nell’ultimo film Pixar.
In casa Marvel, il parallelo è lampante. Guardiani della Galassia è la Pixar con più cicatrici: Peter Quill cerca l’abbraccio paterno, Rocket è il cucciolo traumatizzato, Groot la mascotte che scioglie i duri, e Drax la spalla teneramente goffa. Anche Thor: Love and Thunder segue il copione – il padre assente, la figlia simbolica, il finale sull’amore che salva il mondo. Persino Doctor Strange nel Multiverso della Follia, tra portali e incantesimi, è Red con più tentacoli: un genitore che deve imparare a lasciare andare.
In fondo, l’universo Marvel è la palestra dove la Disney ha addestrato i suoi eroi a piangere tra un’esplosione e l’altra. Badlands porta solo quel dramma familiare su un pianeta con più plasma e meno psicologi.
Njohrr, il padre di Dek, è il solito padre Disney-Pixar con l’armatura da Predator: lo Zeus di Hercules, l’Ego dei Guardiani, il Marlin di Alla scoperta di Nemo con problemi di gestione della rabbia. Tutti uguali: forti, testardi, incapaci di capire che la forza non è solo fisica.
E poi c’è l’ingrediente segreto: la creaturina “pucciosa”. Bud, l’alieno bavoso che accompagna Dek, è lo Stitch di questo universo. È la variante viscida di Pascal (Rapunzel), HeiHei (Oceania), Tuk Tuk (Raya), Baymax (Big Hero 6), Sox (Lightyear) e, naturalmente, Grogu (The Mandalorian).
È la formula brevettata: protagonista solitario + cucciolo vulnerabile = redenzione. In Disney si chiude con un abbraccio. Qui, con una decapitazione. Ma l’equazione resta invariata.
La relazione tra Dek e Bud è il cuore emotivo del film, la crepa nella corazza. È l’attimo in cui la saga Predator abbandona la caccia e diventa Pixar: la bestia che si affeziona al cacciatore, il guerriero che impara la cura. È la stessa logica di The Mandalorian, dove il cacciatore di taglie si scopre padre: Din Djarin e Dek sono due versioni dello stesso archetipo, uomini che imparano la vulnerabilità attraverso un cucciolo che non parla.
Il secondo pilastro arriva con Thia (Elle Fanning), l’androide della Weyland-Yutani: il classico “partner opposto” che serve a insegnare la lezione morale. È il Merlino metallico di La spada nella roccia, la Joy di Inside Out se avesse un chip danneggiato, la Dory di Alla scoperta di Nemo se fosse programmata per l’autodistruzione.
Questo duo – mente logica + cuore impulsivo – è la colonna vertebrale del moderno cinema Disney: Judy e Nick (Zootropolis), Carl e Russell (Up), Hiro e Baymax (Big Hero 6), Mei e Ming (Red), Ethan e Searcher (Strange World). Sempre la stessa dinamica: l’incontro degli opposti genera crescita emotiva.
E se Badlands sembra familiare, è perché eredita tutto anche da Star Wars. George Lucas, nel 1977, aveva già scritto il prototipo Disney dello spazio: il ragazzo incompreso, il mentore eccentrico, la mascotte tenera e l’amico opposto. Una Nuova Speranza è una fiaba Disney senza canzoni, con più spade laser. Badlands la riscrive in chiave tribale: Dek è Luke, Njohrr è Vader, Thia è Obi-Wan versione cyborg, Bud è R2-D2 col muco.
Persino l’arco narrativo è identico: l’eroe cresce, scopre che la violenza non risolve, affronta il padre e fonda una nuova “famiglia di scarti”. Quando Dek torna su Yautja Prime con Bud e Thia, non porta un trofeo, ma un legame. È Simba che torna alla Rupe dei Re con Nala, Mei che accetta il panda rosso in Red. La morale è Disney pura: la forza non è dominio, ma accettazione.
Il film si chiude con il più classico dei riti Disney travestiti da duello tribale: il figlio sconfigge il padre non per vendetta, ma per liberarsi. È la “Let It Go” dei Predator – solo che qui invece di cantare, si decapita.
E poi, come da tradizione, arriva la madre dal cielo. Il finale introduce una figura femminile misteriosa, pronta a riordinare il caos – la Vaiana, la Ming, la Te Kā di questo universo. Disney non delude mai: quando il padre fallisce, arriva la mamma a sistemare tutto.
A questo punto Predator: Badlands diventa una parodia inconsapevole della filosofia Disney contemporanea. L’universo più maschile e brutale mai concepito si scopre improvvisamente educativo, interconnesso e morale. I Predator, simbolo della virilità tossica anni ’80, imparano la lezione di Encanto: “Non serve essere perfetti, serve capire chi sei.”
La caccia diventa metafora dell’autostima, la violenza una terapia familiare, il plasma verde una lacrima filtrata da un casco. Genna è lo Strange World dei Predator, Bud è l’ennesimo cucciolo parlante (o quasi), Thia il droide Marvel-style che fa la battuta fuori tempo, e Dek l’Arlo intergalattico che sopravvive grazie a un’amicizia improbabile.
È un film che potresti proiettare accanto a Lightyear o Onward e nessuno noterebbe la differenza. Perché Badlands è figlio diretto del capitalismo narrativo Disney post-acquisizioni: la convinzione che ogni storia, anche la più cupa, debba piegarsi all’arco della redenzione.
Il “figlio deluso dal padre”, la “bestia che diventa amica”, il “diverso che è il vero eroe” – sono i dogmi che reggono Guardiani della Galassia Vol. 3, Rogue One, Zootropolis, Elio, Inside Out 2 e, ora, persino i Predator.
Non c’è più scampo: perfino i cacciatori spaziali hanno una morale da Pixar.
E allora sì, Predator: Badlands è un film Disney. Non solo perché ne ripete le strutture, ma perché ne adotta l’etica profonda: la vulnerabilità come forza, l’empatia come trionfo. Solo che, invece di un abbraccio, qui si chiude con un morso alla giugulare.
È The Mandalorian riscritto dalla A24, Il Viaggio di Arlo filtrato da Ridley Scott, La spada nella roccia in versione horror. E il risultato, paradossalmente, è bellissimo: un Predator che piange, un cucciolo che salva il mondo, e un messaggio che Disney avrebbe adorato stampare su un poster:
“Non serve essere perfetti. Basta non uccidere tutto quello che ami.”
Ecco la nuova morale Yautja, made in Disney.
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